La class action nel processo tributario

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1.La class action: processo civile e tributario a confronto.

1.1. Premessa

1.2. La class action nel processo civile.

1.3. La class action e processo tributario. Confronti e rimandi al codice civile.

  1. Il ricorso cumulativo e collettivo nel processo tributario.
  2. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di class action nel diritto tributario.
  3. Impugnazione cumulativa tributaria e contributo unificato.

4.1. Contributo unificato e atti presupposti.

5.La riforma della giustizia tributaria.

5.1. Le disposizioni normative di riferimento per la riforma dell’ordinamento della giurisdizione tributaria

5.2. Le pronunce giurisprudenziali di legittimità e costituzionali per la riforma dell’ordinamento della giurisdizione tributaria

5.3. L’attuale situazione giuridica ed economica delle Commissioni Tributarie

5.4.I principi della legge delega di riforma della giustizia tributaria

5.5. Attuale stato dei lavori parlamentari e della Commissione interministeriale MEF-Giustizia in merito alla riforma della giustizia tributaria

5.6. Conclusioni

1.La class action: processo civile e tributario a confronto

1.1. Premessa

La class action è un’azione legale collettiva condotta da uno (o più) utenti nei confronti del medesimo soggetto per tutelare i diritti vantati da più consumatori.

Lo scopo di tale istituto è quello di giungere a una soluzione comune a più persone, di fatto o di diritto, che produca effetti “ultra partes” per tutti i componenti presenti e futuri della classe o del gruppo.

L’azione collettiva, quindi, consente di azionare un unico giudizio per ottenere il risarcimento del danno subìto da un gruppo di cittadini danneggiati dal medesimo fatto realizzato da un’azienda scorretta.

I vantaggi delle azioni collettive, riparatorie e risarcitorie, sono evidenti se si tiene conto dei tempi processuali, dei costi della giustizia, della garanzia di certezza del diritto e dell’efficacia ed equità del risultato.

1.2. La class action nel processo civile

A seguito della riforma del 2019 (L. 12 aprile 2019, n. 31), la class action, da maggio 2021, non è più disciplinata dal Codice del Consumo, bensì dal Codice di procedura civile, all’interno del quale è stato introdotto il Titolo VIII-bis del Libro Quarto, in materia di azione di classe.

Con il transito all’interno del codice di procedura civile, l’istituto dell’azione di classe è stato potenziato e, in particolare, il suo campo di applicazione è stato allargato sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, ovvero sia per quanto riguarda i soggetti che possono accedervi, sia per le situazioni giuridiche che possono essere fatte valere in giudizio.

Con l’azione di classe è possibile ora agire a tutela delle situazioni soggettive maturate a fronte di condotte lesive, per l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni.

Con la Legge n.31 del 2019, peraltro, la class action, assai poco utilizzata sinora, è stata inserita come titolo autonomo all’interno del Codice di procedura civile, come strumento per la tutela dei diritti individuali omogenei lesi da atti e comportamenti di imprese o gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità. L’azione può essere promossa da ciascun componente della classe, ma anche da organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro che soddisfano determinati requisiti. Il giudice competente è la sezione specializzata in materia d’ impresa individuata in base alla sede del resistente. Il procedimento si articola in tre fasi dedicate rispettivamente:

  • alla decisione sull’ammissibilità della domanda:
  • alla valutazione della causa nel merito;
  • alla verifica dei diritti individuali e alla liquidazione dei risarcimenti ai singoli, con intervento di un rappresentante comune degli aderenti nominato dal giudice.

L’adesione degli interessati, che, elemento di forte tensione del sistema e contestato da parte delle imprese, è possibile anche dopo il verdetto di primo grado oltre che dopo il giudizio di ammissibilità, deve essere effettuata in via telematica attraverso il portale del Ministero della giustizia. La disciplina prevede la facoltà per il promotore dell’azione di chiedere la disclosure delle prove e individua uno spazio per gli accordi transattivi sia in corso di causa, su proposta formulata dal giudice, sia dopo la sentenza.

Un passaggio di forte novità è costituito dall’obbligo per l’impresa, in caso di condanna, di corrispondere al rappresentante comune degli aderenti e all’avvocato del promotore compensi stabiliti in percentuale dell’importo complessivo del risarcimento, sulla base del numero degli aderenti. Oltre a quelle sull’azione di classe, la Legge n. 31/2019 ha inserito nel Codice di procedura civile anche misure inedite sull’azione collettiva inibitoria, che può essere promossa da chiunque abbia interesse a ottenere la cessazione o il divieto di reiterazione di una condotta d’impresa lesiva di una pluralità di individui o enti. Anche per questa azione la competenza è assegnata alle sezioni specializzate in materia d’impresa e il promotore può avvalersi della disclosure delle prove. Con la condanna alla cessazione della condotta contestata il giudice può ordinare all’impresa di adottare idonee misure di ripristino, di pagare una somma di denaro in caso di inosservanza o ritardo, di dare diffusione al provvedimento attraverso i mezzi di comunicazione più indicati.

Il decreto-legge n.149/2020 (c.d.Ristori-bis) ha posticipato l’entrata in vigore  dell’istituto della “nuova class action” introdotta con la L.n.149/2020 che è andata a sostituire l’istituto disciplinato in precedenza dal Codice del Consumo (D.lgs n.206/2005) all’art. 140-bis.

L’entrata in vigore della nuova disciplina, a seguito di molteplici rinvii, è finalmente avvenuta il 19 maggio 2021.

Tuttavia, ad oggi, dopo 18 mesi di proroghe non risulta ancora realizzata l’infrastruttura regolamentare ma soprattutto tecnologica indispensabile per far partire la sperimentazione delle prime azioni collettive previste dalla nuova legge.

Difatti, il Ministero della Giustizia deve realizzare una piattaforma informatica in grado di far dialogare gli attuali sistemi informatici, già gravati dalle attuali modalità di gestione da remoto delle udienze civili, con le nuove modalità che prevedono nuove forme di pubblicità dell’azione collettiva e il compimento di diverse attività processuali in modalità esclusivamente telematica. Dalla lettura della nuova norma emerge che il nuovo procedimento, per poter funzionare, necessita della realizzazione del portale di servizi telematici gestito dal ministero della Giustizia. Tale portale, infatti, è espressamente previsto all’articolo 840-ter, comma 2 c.p.c. e ha lo scopo di assicurare l’agevole reperibilità delle informazioni relative a domande di azione di classe. Il portale informatico appare da un punto di vista tecnico svolgere una funzione decisiva, soprattutto in termini di pubblicità delle azioni di classe. Si pensi, ad esempio, che l’articolo 840-quater c.p.c. dispone che decorsi 60 giorni dalla data di pubblicazione del ricorso nell’area pubblica del portale dei servizi telematici, non possano essere proposte ulteriori azioni di classe sulla base dei medesimi fatti e nei confronti del medesimo resistente e quelle proposte sono cancellate dal ruolo.

Inoltre, ad avvalorare la tesi della realizzazione di un’adeguata piattaforma dei servizi informatici, si può fare riferimento all’articolo 840-quinquies, comma 1 c.p.c., che rinvia alla data di pubblicazione sul portale delle ordinanze del giudice per la decorrenza dei termini perentori per l’adesione all’azione di classe da parte di soggetti portatori di diritti individuali omogenei.

 

1.3. La class action e processo tributario. Confronti e rimandi al codice civile

Giova mettere in evidenza, in via preliminare, che nel processo tributario non vi è una specifica disposizione normativa che contempli e disciplini la class action.

Vi è solo l’art. 29 Dlgs n.546/1992 che prevede la riunione dei ricorsi e l’art. 2 del D.lgs n.546/1992 che dispone al comma 2 che “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”.

Da ciò ne discende che si applicano al processo tributario, in quanto compatibili, anche gli artt. 103 e 104 c.p.c. in materia di litisconsorzio.

Tanto premesso, si può evincere che un ruolo fondamentale ha svolto la giurisprudenza di legittimità nel delineare i tratti distintivi nel processo tributario in materia di ricorsi cumulativi e collettivi, andando a riempire di significato i rimandi del codice di procedura civile relativamente alle azioni collettive da proporre nel processo tributario.

Nel paragrafo seguente si analizzerà nel dettaglio l’excursus giurisprudenziale della Suprema Corte riguardo la proposizione delle azioni collettive nel processo tributario.

 

2. Il ricorso cumulativo e collettivo nel processo tributario

Il ricorso cumulativo si differenzia in ricorso cumulativo “proprio” e in ricorso cumulativo “improprio”. Il ricorso cumulativo in senso proprio è quello con cui il contribuente impugna contestualmente più atti impositivi emessi nei suoi confronti dall’Amministrazione Finanziaria.

Nello specifico, con il ricorso cumulativo “proprio” si possono proporre più azioni contestualmente: tali azioni possono essere diverse tra loro (di annullamento, di accertamento) o tipologicamente identiche (ad esempio due azioni di annullamento), ma comunque collegate dall’interdipendenza logica fra gli atti e dall’identità dell’oggetto.

Di converso, il ricorso cumulativo improprio è quello con cui più soggetti/contribuenti impugnano con un unico ricorso più atti; è il ricorso presentato da più soggetti contro atti diversi dell’Amministrazione Finanziaria.

Ciò posto, il ricorso cumulativo si distingue dal ricorso collettivo per il fatto che quest’ultimo è proposto da più soggetti che impugnano con un unico ricorso uno stesso provvedimento impositivo che riguarda tutti.

In altri termini, il ricorso collettivo è un ricorso presentato da più soggetti, con identità di petitum e di causa petendi: esso dà luogo ad una ipotesi di cumulo soggettivo ed è ammissibile se le posizioni dei vari ricorrenti sono sostanzialmente omogenee e non in contrasto tra loro.

3.L’evoluzione giurisprudenziale in materia di class action nel diritto tributario

In prima battuta, il Supremo Consesso si è pronunciato in riferimento alla proponibilità di ricorsi cumulativi in ambito processual-tributario con la sentenza n. 21955/2010, ritenendo ammissibile il ricorso cumulativo proposto da più contribuenti laddove le diverse istanze siano fondate su una medesima questione di diritto.

Tale sentenza si pone in senso del tutto conforme alla funzione nomofilattica della Cassazione, espressamente prevista dall’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), che attribuisce alla Corte il compito di “garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”.

Più nel dettaglio, il riconoscimento della legittimità di ricorsi cumulativi nell’ambito del processo tributario, laddove sussistano identiche questioni di diritto, appare rientrare in toto nell’ambito della funzione nomofilattica della Cassazione finalizzata a fornire indirizzi interpretativi “uniformi” per cercare di mantenere l’unità dell’ordinamento giuridico – e, quindi, la certezza del diritto – attraverso una giurisprudenza il più possibile uniforme.

Più nel dettaglio, il principio di diritto de quo trae origine dal rigetto del ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate per la riforma della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che aveva rigettato l’appello dell’Ufficio locale della stessa Agenzia contro la pronuncia di primo grado che aveva accolto il ricorso cumulativo di diversi contribuenti contro il silenzio-rifiuto formatosi su istanze di rimborso Irap relative agli anni di imposta 1998, 1999 e 2000.

Più in particolare, tre professionisti avevano proposto un ricorso cumulativo avverso i dinieghi opposti dall’Amministrazione Finanziaria alle richieste di rimborso dell’Irap che gli stessi contribuenti avevano prudenzialmente liquidato nelle proprie dichiarazioni dei redditi in relazione ad attività di lavoro autonomo che, tuttavia, ritenevano non autonomamente organizzate ai sensi del combinato disposto degli artt. 2, co. 1 e art. 3, co. 1, lett. c), D.Lgs 15 dicembre 1997, n. 446 e, dunque, non assoggettabili all’applicazione dell’Irap.

Nel giudizio sottoposto all’esame del Collegio di legittimità, l’Agenzia delle Entrate ha eccepito la violazione e falsa applicazione dell’art. 29, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e degli artt. 103 e 104 Cost.

A tal proposito giova rammentare che:

  • l’art. 29, D.Lgs. 546/1992 disciplina la riunione di distinti ricorsi, laddove gli stessi abbiano lo stesso oggetto o siano comunque tra loro connessi;
  • l’art. 103 c.p.c. disciplina l’istituto del litisconsorzio facoltativo, in base al quale “più parti possono agire o essere convenute, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono (…)”;
  • l’art. 104 c.p.c., infine, prevede che “contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande, anche non altrimenti connesse (…)”.

Nello specifico, a parere dell’Amministrazione Finanziaria, il ricorso cumulativo doveva essere considerato inammissibile e, di conseguenza, doveva essere considerata erronea la sentenza che aveva respinto il relativo motivo di appello, assumendo che “i tratti di comunanza delle rispettive materie del contendere si riducono al rilievo che si discute in tutti e tre i casi di Irap”, ovvero una medesima questione di diritto.

Precisamente, nella sentenza in esame (Cass. n.21955/2010), il Supremo Consesso non ha voluto porre in discussione il principio affermato in precedenza dai giudici di legittimità nella pronuncia n. 10578/10, secondo il quale nel processo tributario non è, di regola, ammissibile il ricorso collettivo (proposto da più parti) e cumulativo (proposto nei confronti di più atti impugnabili), essendo necessaria, per la configurazione del litisconsorzio facoltativo, la comunanza delle questioni sia in diritto, sia in fatto.

Sulla base di tale assunto la Suprema Corte (Cass. n.21955/2010) ha concluso che nel caso de quo deve tuttavia rilevarsi che la contestazione dell’Ufficio rispetto alle istanze di rimborso proposto dalle contribuenti si fonda – come risulta anche dal ricorso – su questioni di diritto, e non di fatto, comuni alle contribuenti, cosicchè il richiamo alla necessaria identità in fatto delle questioni appare in concreto ultroneo.

Con specifico riguardo alla fattispecie in oggetto, la questione di diritto sottoposta all’esame della Cassazione si fondava su fatti di causa che non erano in contestazione e che, inoltre, erano del tutto idonei a dimostrare la non assoggettabilità ad Irap delle attività esercitate dai professionisti ricorrenti.

Difatti, come evidenziato dalla Corte, l’accertamento del requisito dell’autonoma organizzazione “spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato” e, nel caso di specie, l’Amministrazione Finanziaria non aveva censurato in alcun modo la motivazione della sentenza impugnata.

Tanto chiarito, i giudici di legittimità hanno ribadito nella sentenza n.21955/2010 taluni principi già affermati nella sentenza n. 10578/2010, in base ai quali:

  • il procedimento tributario così come delineato dal D.Lgs. 546/1992, non contiene alcuna norma in ordine al cumulo dei ricorsi, prevedendo solo all’art. 14, l’ipotesi del litisconsorzio necessario, se l’oggetto del ricorso riguarda inscindibilmente più soggetti, nonché l’intervento, volontario o per chiamata, dei soggetti che insieme al ricorrente sono destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso;
  • le norme del Codice di procedura civile sono applicabili nel processo tributario, in quanto compatibili con lo stesso, per l’espresso richiamo contenuto nell’art 1, co. 2, D.Lgs. 546/1992;
  • inoltre, sulla base dell’insegnamento delle Sezioni Unite della stessa Cassazione, l’ipotesi di litisconsorzio tributario si configura sempre che “per effetto della norma tributaria o per l’azione esercitata dall’amministrazione finanziaria, l’atto impositivo debba essere o sia unitario, coinvolgendo nella unicità della fattispecie costitutiva dell’obbligazione una pluralità di soggetti, ed il ricorso, pur proposto da uno o più degli obbligati, abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato” (Cass., Sez. Un. n. 1052/2007). E’la domanda “a determinare l’oggetto del processo e, quindi, a costituire, in ultima analisi, il parametro per valutare la inscindibilità della causa tra più soggetti e ciò, in quanto il processo tributario è strutturato secondo le regole proprie del processo impugnatorio di provvedimenti autoritativi” (ex plurimis, Cass., nn. 9999/2006, 3532/2006, 28680/2005);
  • il carattere impugnatorio proprio del processo tributario si risolve nella necessità di un nesso tra il singolo atto autoritativo di imposizione e la contestazione del singolo contribuente che, pur non ostacolando in linea di principio l’applicabilità dell’istituto del litisconsorzio facoltativo improprio previsto all’art. 103 c.p.c., ne limita però l’applicazione.

Nello specifico, la Suprema Corte con la sentenza n. 10578/2010 ha precisato che “se nell’ipotesi del litisconsorzio facoltativo improprio, disciplinato dalla processualistica civile, le cause possono avere tra loro un rapporto di mera affinità derivante dalla comunanza anche parziale di una o più questioni, nel processo tributario, l’indispensabilità dello specifico e concreto nesso tra atto e/o oggetto di ricorso D.Lgs. n. 546/1992, ex art. 19, e la contestazione del contribuente, richiesta invece dalla peculiarità del relativo giudizio, postula necessariamente che intercorrano, tra le cause, questioni comuni non solo in diritto ma anche in fatto e che esse non siano soltanto uguali in astratto ma consistano altresì in un identico fatto storico da cui siano determinate le impugnazioni dei    contribuenti“.
In sintesi, a parere della Suprema Corte solo nell’ipotesi in cui “i provvedimenti impugnati, pur formalmente autonomi, si risolvano nel loro concreto articolarsi in un unico fatto storico nei confronti dei più contribuenti, e questi versando in un’analoga situazione muovano anche solo in parte identiche contestazioni, può ritenersi che la definizione delle questioni comuni abbia carattere pregiudiziale rispetto alla decisione di tutte le cause, così  da consentire l’ammissibilità, nel processo tributario, di un ricorso al tempo stesso collettivo (proposto da più contribuenti) e cumulativo (nei confronti di più atti impugnabili)”.

Al contrario, concludeva la Cassazione in merito alla fattispecie allora sottoposta al suo esame, nella specie “difettavano invece i presupposti richiesti ostandovi la concreta diversità delle situazioni di fatto e di diritto in cui versavano i numerosi ricorrenti, ben diciassette, i quali non solo svolgevano, alla stregua della documentazione in atti, professioni ed attività diverse, con un’organizzazione lavorativa, volta per volta diversa, che comportava indagini di fatto differenti in relazione al diverso articolarsi delle vicende concrete, ma avevano presentato le richieste di rimborso separatamente, in date diverse, con riferimento ad anni di imposta differenti, e soprattutto con riferimento a silenzi-rifiuti maturatisi in momenti e con modalità storicamente diversi nonché in ordine a situazioni dissimili”.

Lo stesso principio è stato enunciato dai giudici di legittimità nella sentenza n. 15582/2010 in cui è stato ripreso il principio ermeneutico affermato dalle Sezioni Unite nelle sentenze n. 13916/2006 e Cass. n 3692/2009, secondo cui “il ricorso cumulativo contro una pluralità di sentenze emesse in materia tributaria, anche se formalmente distinte perché relative a differenti annualità, è ammissibile quando la soluzione, per tutte le sentenze, dipenda da identiche questioni di diritto comuni a tutte le cause, in modo da dar vita ad un giudicato rilevabile d’ufficio in tutte le controversie relative al medesimo rapporto d’imposta (Cass. S.U. 13916/2006; 3692/2009, in parte motiva), tale ammissibilità, come si è detto, nella fattispecie non ricorre, riguardando le sentenze, cumulativamente impugnate, anni d’imposta e tributi differenti, rispetto ai quali vengono conseguentemente proposti quesiti di diritto che non sono comuni a tutte le controversie”.

Con la pronuncia n. 4490 del 22 febbraio 2013, i giudici di legittimità hanno superato il rigore interpretativo delle sue precedenti decisioni in tema di litisconsorzio facoltativo nel processo tributario e hanno sancito la piena applicabilità in predetto processo dell’art. 103 c.p.c.

Difatti, nelle precedenti pronunce, il Supremo Consesso se pure non escludesse tout court  l’applicabilità dell’art. 103 c.p.c. nel processo tributario, in linea generale, la riteneva sussistere al ricorrere di specifiche e stringenti condizioni. Precisamente, in tale pronuncia ( Cass.n.4490/2013) la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “Nel processo tributario, non prevedendo il d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, alcuna disposizione in ordine al cumulo dei ricorsi, e rinviando il suo art. 1, secondo comma, alle norme del codice di procedura civile per quanto da esso non disposto e nei limiti della loro compatibilità con le sue norme, deve ritenersi applicabile l’art. 103 cod. proc. civ., in tema di litisconsorzio facoltativo, conseguendone l’ammissibilità della proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se in relazione a distinte cartelle di pagamento, ove abbia ad oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa”.

I giudici di legittimità hanno ritenuto ammissibile la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti di accertamento, dovendo ritenersi applicabile nel processo tributario l’articolo 104 c.p.c., il quale consente la proposizione contro la stessa parte, e quindi la trattazione unitaria, di una pluralità di domande anche non connesse tra loro, con risultato peraltro analogo a quello ottenuto nel caso di riunione di processi anche soltanto soggettivamente connessi (ex articolo 29, D.lgs n. 546 del 1992 ).

In senso conforme si era già espressa anche la sentenza delle S.U. n. 3692 del 2009, benchè relativa a un precedente non esattamente in termini, essendosi con detta sentenza ammesso il ricorso cumulativo non avverso una pluralità di atti di accertamento, bensì avverso più sentenze emesse in procedimenti formalmente distinti ma attinenti al medesimo rapporto giuridico d’imposta.

Tale assunto delle Sezioni Unite è stato ribadito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 22657/2014, ove è stato ribadito che il rimando alle norme civilistiche da parte dell’art. 1 D.lgs n.546/1992- che prevede l’applicazione dell’art. 103 c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo-persegue il presupposto di evitare il formarsi di giudicati anche solo logicamente contraddittori.

Precisamente, nel caso oggetto di esame della citata pronuncia (Cass. n. 22657/2014), le sentenze appellate erano relative ad autonomi procedimenti che sebbene fossero riferiti a più persone fisiche, erano tutti emessi in relazione a plusvalenze realizzate dalla vendita di terreni edificabili in comproprietà dei tre contribuenti. Si è così realizzata, di fatto, l’identità dei presupposti impositivi e delle questioni di diritto trattate. Da qui la conferma della legittimità dell’impugnazione cumulativa.
Successivamente, i giudici di legittimità, nella sentenza n. 17497 del 2 settembre 2015, in tema di ricorso cumulativo hanno in via preliminare affermato che la nozione di “causa inscindibile” di cui all’art.331 c.p.c., comprende non solo le ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale, ma anche le ipotesi di litisconsorzio necessario processuale, le quali si verificano quando la presenza di più parti nel giudizio di primo grado debba necessariamente  persistere in sede di impugnazione, al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio di primo grado.

Tanto premesso, la Suprema Corte con la pronuncia n. 17497/2015 ha statuito che in tema di contenzioso tributario, in caso di litisconsorzio processuale, che determina l’inscindibilità delle cause anche ove non sussisterebbe il litisconsorzio necessario di natura sostanziale, l’omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti non determina l’inammissibilità del gravame, ma la necessità per il giudice d’ordinare l’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., nei confronti della parte pretermessa, pena la nullità del procedimento di secondo grado e della sentenza che l’ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità.

Da tanto ne discende in maniera evidente che, nel caso oggetto della citata sentenza (Cass. n. 17497/2015), sulla questione della validità della notificazione delle cartelle presupposte all’iscrizione ipotecaria impugnata va evitata la formazione di giudicati diversi nei confronti del concessionario della riscossione e nei confronti dell’ente impositore (in senso conforme si sono espressi i giudici di legittimità nelle pronunce n. 10934/15 e n. 24868/13, in cui i giudici di legittimità hanno affermato che anche nei predetti casi di specie  le parti, pur non essendo litisconsorti sostanziali, devono considerarsi, qualora entrambe abbiano preso parte al giudizio di primo grado, litisconsorti processuali, insieme al contribuente, nel giudizio di  secondo grado).

Quanto affermato dalle prime pronunce della Cassazione è stato confermato nelle recenti decisioni.

Il Supremo Consesso nella sentenza n. 33425 del 27 dicembre 2018 ha stabilito che: “In materia tributaria è ammissibile, fermi restando gli eventuali obblighi tributari del ricorrente, in relazione al numero dei provvedimenti impugnati, il ricorso cumulativo avverso più sentenze emesse tra le stesse parti, sulla base della medesima “ratio”, in procedimenti formalmente distinti ma attinenti allo stesso rapporto giuridico d’imposta, pur se riferiti a diverse annualita’, ove i medesimi dipendano per intero dalla soluzione di una identica questione di diritto comune a tutte le cause, in ipotesi suscettibile di dare vita ad un giudicato rilevabile d’ufficio in tutte le cause relative al medesimo rapporto d’imposta” (Cass. n. 4595 del 2017).

Alla luce di tanto, nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, il ricorso cumulativo è ammissibile attesa la coincidenza delle parti e delle questioni di diritto oggetto di controversia, nonche’ delle relative soluzioni prospettate dalla CTR.

In un’altra recente ordinanza, la n. 10150 dell’11 aprile 2019, la Corte di Cassazione ha ribadito l’ammissibilità sia del ricorso cumulativo, cioè proposto contro più atti impugnabili, sia del ricorso collettivo, cioè proposto da più parti. Unica condizione è che il giudizio abbia ad oggetto delle identiche questioni dalla soluzione delle quali dipenda la decisione finale del giudice sulla causa.

Giova precisare che in ambito tributario, come anzidetto, per quanto attiene al cumulo dei ricorsi, non essendo previsto espressamente nulla dalla disciplina che ne regola il contenzioso (D.Lgs. n. 546/1992), deve ritenersi applicabile l’art. 103 c.p.c., in tema di litisconsorzio facoltativo: ne consegue l’ammissibilità della proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se in relazione a distinti atti impositivi, ove lo stesso abbia ad oggetto identiche questioni dalla cui risoluzione dipende la decisione della causa.

Nel caso oggetto della citata sentenza (Cass. n. 10150/2019) non poteva trovare peraltro applicazione nella specie il principio seguito dalla CTR secondo il quale nel processo tributario, di regola, non sarebbe ammissibile il ricorso cumulativo né collettivo essendo necessaria, per configurare un litisconsorzio facoltativo, la comunanza delle questioni sia in diritto che in fatto. Invero la contestazione del Comune delle richieste di rimborso proposte dai contribuenti si fondava solo su questioni, comuni ai ricorrenti, di diritto e non di fatto: pertanto il richiamo alla necessaria identità in fatto delle questioni risultava ultroneo.

In ultimo, il Supremo Consesso nella recente sentenza, la n. 8329 del 29 aprile 2020 ha affrontato la questione riguardante la necessità o meno di integrare il contraddittorio in appello nei riguardi delle parti presenti in primo grado ma non evocate in giudizio.

I giudici di legittimità, in via preliminare, hanno affermato che si deve, aver riguardo al carattere scindibile o inscindibile delle cause o alla loro dipendenza ai sensi degli articoli 331 e 332 c.p.c., mentre, al di fuori di tali distinzioni, nessun rilievo specifico assume di per sè il riferimento al litisconsorzio necessario processuale.

Difatti, in tema di contenzioso tributario, l’art. 53, comma 2 D.lgs n.546/1992 , “ secondo cui l’appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili, ai sensi degli articoli 331 e 332 c.p.c., con la conseguenza che, in presenza di cause scindibili, la mancata proposizione dell’appello nei confronti di tutte le parti presenti in primo grado non comporta l’obbligo di integrare il contraddittorio quando, rispetto alla parti pretermesse, sia ormai decorso il termine per l’impugnazione (Cass. 27 ottobre 2017, n. 25588) che ha ritenuto esente da critiche l’omessa integrazione del contraddittorio in appello nei confronti del concessionario del servizio di riscossione, convenuto nel giudizio di primo grado insieme all’Amministrazione finanziaria, tenuto conto che l’impugnazione aveva ad oggetto solo l’esistenza dell’obbligazione tributaria e che il termine per impugnare era gia’ decorso)”.

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4. Impugnazione cumulativa tributaria e contributo unificato

La disciplina normativa prevista per il contributo unificato è differente rispettivamente per il processo civile, il processo amministrativo e il processo tributario.

Precisamente, nel processo tributario, in caso di ricorso cumulativo contro più atti impositivi il contributo viene calcolato con riferimento a ciascuno degli atti e non cumulativamente in base al valore della causa.

La disposizione è posta dal comma 3 bis dell’art. 14 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), modificato dall’articolo 1, comma 598, lettera a) della Legge n.147/2013 (Legge di Stabilità 2014); invero, la tassazione per singoli atti, anziché per l’intero valore della causa, prevista nella predetta Legge di Stabilità, ha una finalità essenzialmente fiscale che contrasta con la ratio del ricorso cumulativo che ha la finalità di celerità e snellezza eliminando il pericolo di contrasto di giudicati.

E’ di tutta evidenza che tale disposizione recata dalla Legge di Stabilità 2014 violerebbe una serie di principi costituzionali.

La giurisprudenza di merito la Ctp di Campobasso, con ordinanza del 7 maggio 2015 ha sollevato questione di legittimità costituzionale del comma 3-bis dell’art. 14 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), TUSG, nella parte modificata dell’art. 1, comma 598, lettera a), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014),per contrasto con i seguenti principi costituzionali: di uguaglianza e ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), di capacità contributiva (articolo 53) del diritto di difesa (articolo 24) e della tutela giurisprudenziale (articolo 113), nonché del diritto ad un processo equo e a un rimedio giudizionale effettivo (articolo 117, comma 1, in relazione agli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

Nello specifico, a parere dei giudici di prime cure, l’applicazione della legge impugnata imporrebbe di chiedere un identico contributo a chi attivi un solo processo proponendo un unico ricorso per più atti e a chi propone un ricorso per ciascuno atto impugnato provochi l’attivazione di molteplici processi.

Più nel dettaglio, la Commissione ha rilevato il contrasto del comma 3 bis, articolo 14 con i principi di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione; a parere dei giudici di primo grado, infatti, tale disposto normativo è irragionevole in quanto opera una discriminazione in  riferimento all’entità del sacrificio imposto al contribuente nel ricorso cumulativo, laddove prevede una diversa quantificazione dell’ammontare del contributo unificato in caso di provvedimenti concernenti tributi rispetto a quelli che non concernono solo sanzioni (per i quali si applicherebbe il principio del cumulo) pur a parità di debito verso l’erario.

Per di più, tale addentellato normativo sarebbe inoltre inconferente e irrazionale attesto che il presupposto impositivo unitario farebbe corrispondere una molteplicità di basi imponibili (i valori dei singoli atti impositivi e non il valore del processo).

Pertanto, il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, contemplati dall’art. 3 della Costituzione, sarebbero violati anche con riferimento alla disciplina dettata per il processo civile per le domande azionate cumulativamente alle quali si applicano gli articoli 10 e 104 del Codice di procedura civile, essendo identico il presupposto dell’imposizione e identico l’indice di capacità contributiva[1].

Secondo i giudici di prime cure, dunque, il comma 3 bis del decreto 115/2022 modificato dall’articolo 1, comma 598, lettera a) della legge 147/2013 (legge di stabilità 2014) rappresenta una norma illogica in quanto impone un sistema di calcolo più gravoso nel processo tributario rispetto a quello civile.

In particolare, predetta norma violerebbe anche:

  • il diritto di difesa ( 24 Cost) poiché rappresenta un deterrente per coloro che vorrebbero avvalersi dello strumento del ricorso cumulativo;
  • l’ 113 Cost (Tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica amministrazione), atteso che l’imposizione di un contributo non rapportato al costo del processo costituirebbe un eccessivo peso tributario;
  • in ultimo, predetto articolo viola altresì l’ 6 CEDU che tutela il principio dell’equo processo.

La Corte Costituzionale, in maniera alquanto sbrigativa, con la sentenza n.78 del 7 aprile 2016, ha dichiarato inammissibili per difetto di motivazione delle censure, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3- bis , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nella parte modificata dall’art. 1, comma 598, lett. a ), della legge n. 147 del 2013), impugnato, in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 113 e 117, primo comma, Cost., in quanto dispone che, anche nel caso di ricorso cumulativo, il contributo unificato debba essere «determinato per ciascun atto impugnato, anche in appello».

La Consulta, ha così argomentato in riferimento alla pretesa violazione degli artt. 3 e 53 Cost, affermando che il giudice rimettente non ha argomentato  minimamente in ordine alle ragioni per le quali debba sussistere un identico trattamento tra tributi e sanzioni, stante la diversa natura e funzione e la distinta disciplina, né  ha spiegato compiutamente perché, a fronte di una disomogeneità dei criteri fissati per determinare il valore della lite nei singoli ambiti processuali, calati sulle particolarità delle questioni ivi deducibili e sulle peculiarità dei diversi processi, solo il criterio del rito civile, ancorato al valore unitario del processo, dovrebbe essere assunto quale tertium comparationis .

Inoltre, con riferimento all’asserita violazione del principio della capacità contributiva, ha ritenuto che le censure dei giudici di prime cure non appaiono congruenti in relazione alla fattispecie normativa in esame.

Infatti, detto principio non riguarda né una singola imposizione ispirata a principi diversi da quello della progressività, né la spesa per i servizi generali, coperta da imposte indirette o da entrate dovute esclusivamente da chi richiede una determinata prestazione e, pertanto, non è invocabile e non può operare con riguardo alle spese di giustizia.

Invece, in riferimento alla dedotta violazione degli artt. 24 e 113, primo comma, Cost., il rimettente non ha chiarito in alcun modo per quale motivo il diritto di difesa sarebbe conculcato dal meccanismo di determinazione del contributo unificato nel ricorso cumulativo oggettivo mentre non lo sarebbe con riguardo a quello previsto per ogni singolo atto.

In ultimo, l’asserito contrasto con gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo si configura come oggetto di mera asserzione, priva di alcun riscontro argomentativo in grado di giustificare la pretesa lesione del diritto ad un processo equo e a una tutela giurisdizionale effettiva.

Il Giudice delle Leggi in predetta sentenza ha concluso che, “per il costante orientamento della Corte secondo cui il principio della capacità contributiva come limite alla potestà di imposizione di cui all’art. 53 Cost. non riguarda «né una singola imposizione ispirata a principi diversi da quello della progressività, né […] la spesa per i servizi generali […] coperta da imposte indirette o da entrate che siano dovute esclusivamente da chi richiede la prestazione dell’ufficio organizzato per il singolo servizio o da chi ne provoca l’attività», v. la citata sentenza n. 30/1964; in senso conforme, sentenze nn. 167/1973, 149/1972 e 23/1968”.

L’analisi del dictum della Corte Costituzionale, impone la formulazione di alcune considerazioni.

Si condivide il parere espresso da parte della dottrina, secondo cui l’irragionevolezza della norma citata dalla CTP di Campobasso nella sua ordinanza di rimessione, è evidente in base al buon senso e all’interpretazione della legge nella sua effettiva portata.

Inoltre, vi sono nel codice di procedura civile delle norme sul contributo unificato che essendo disposizioni di carattere generale e nell’ottica del rispetto dell’unità dell’ordinamento giuridico,  necessitano di applicazione anche nel processo tributario. Da ciò ne consegue che risultano incostituzionali le norme riferite al processo tributario per disparità di trattamento.

Le disposizioni tributarie hanno carattere fiscale ma, dal punto di vista dell’oggetto, il processo tributario è analogo al processo civile; ossia come sostiene la Suprema Corte l’impugnazione dell’atto nel processo tributario introdotto contro impositivi ha ad oggetto gli atti «il riesame del merito del rapporto», sicchè la ratio del contributo è sempre la medesima[2].

4.1. Contributo unificato e atti presupposti

Dopo aver messo in luce nel paragrafo precedente il contrasto tra il calcolo del contributo unificato nel ricorso cumulativo e i principi della Carta Costituzionale, giova segnalare il seguente principio  enucleato dalla CTP di Reggio Emilia  con la sentenza n. 275/2/2019, depositata il 25 novembre 2019 che, in materia di contributo unificato relativo all’impugnazione degli atti presupposti, ha affermato che  qualora il contribuente con il ricorso contro l’intimazione di pagamento dichiara di voler impugnare anche tutti gli atti presupposti occorre versare il contributo unificato per ciascun atto.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un contribuente che impugnava un’intimazione di pagamento derivante dall’emissione di alcune cartelle di pagamento che asseriva mai notificate. Successivamente, in sede di iscrizione a ruolo, non corrispondeva il contributo unificato tributario (Cut). L’ufficio di segreteria della Commissione notificava al ricorrente un atto di regolarizzazione quantificando il contributo dovuto sulla base di tutte le cartelle da cui derivava l’intimazione. Il contribuente impugnava tale richiesta ritenuta illegittima rilevando che l’unico atto oggetto del ricorso era l’intimazione di pagamento e non le cartelle di pagamento (atti presupposti). Per tale ragione, il contributo doveva essere quantificato sulla base dell’unico atto formalmente impugnato. L’Agenzia delle Entrate evidenziava, di converso, che nel ricorso era stato chiesto l’annullamento dell’intimazione di pagamento e di ogni altro atto o provvedimento comunque connesso, dipendente o conseguente rispetto a quelli espressamente impugnati e che nelle conclusioni dell’atto si domandava l’annullamento degli «atti impugnati».

La CTP, nel rigettare il ricorso introduttivo, ha richiamato diverse pronunce della Corte di Cassazione, affermando che “In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto iniziale notificato.

Poiché tale nullità può essere fatta valere dal… contribuente mediante la scelta consentita dall’art. 19, comma 3 del D.Lgs. n. 546 del 1992 di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli l’avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione, facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa. “(Sez. 5, Ordinanza n. 1144 del 18/01/2018 (Rv. 646699 – 01), ma, già, in Sez. U., Sentenza n. 5791 del 04/03/2008 (Rv. 602254 – 01).

Da ciò ne discende secondo la Suprema Corte che il ricorrente era libero di scegliere se impugnare tutta la sequenza degli atti presupposti, come ha fatto, od il solo atto finale, essendo del tutto ininfluente, ai fin di un compiuto esercizio del diritto alla difesa, l’una o l’altra scelta.

Precisamente, il TUSG dispone, all’art. 14, comma 3 bis, che “Nei processi tributari, il valore della lite, determinato, per ciascun atto impugnato anche in appello, ai sensi del comma 2 dell’articolo 12 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e successive modificazioni, deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso, anche nell’ipotesi di prenotazione a debito”.

Alla luce di tanto, i giudici di primo grado hanno ritenuto che il contribuente avesse inteso impugnare e chiedere l’annullamento di più atti e non della sola intimazione di pagamento; da tanto ne discende l’obbligo da parte del contribuente di versare il contributo unificato per ogni atto impugnato.

Peraltro, si rammenta, che in base all’articolo 16 del Testo unico delle spese di giustizia, l’omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato comporta l’applicazione della sanzione amministrativa dal 100% al 200% della maggior imposta dovuta. Il mancato versamento, tuttavia, non impedisce lo svolgimento del giudizio, ma rileva sul piano fiscale e dovrà comportare la regolarizzazione successiva da parte del ricorrente

5.La riforma della giustizia tributaria

5.1. Le disposizioni normative di riferimento per la riforma dell’ordinamento della giurisdizione tributaria

La riforma strutturale della giustizia tributaria trova la sua legittimazione nelle fonti normative.

In particolare, per attuare una riforma strutturale delle Commissioni tributarie occorre unicamente seguire e osservare scrupolosamente i seguenti principi enucleati dalla normativa nazionale e convenzionale.

  1. Art. 111, comma secondo, della Costituzione: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Sicuramente non può considerarsi terzo ed imparziale un giudice tributario nominato su proposta del Ministro delle finanze (art. 9, primo comma, D.Lgs. n. 545/92 citato).
  2. Art. 106, comma primo, della Costituzione: “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”.
  3. Art. 108, comma secondo, della Costituzione: “La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”.
  4. Art. 6, paragrafo primo, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) del 04/11/1950, ratificata dall’Italia con Legge n. 848 del 04/08/1955 (art. 117 della Costituzione): “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge….”. Questa fonte ha, in effetti, un grado gerarchico elevato, potendosi considerare norma interposta in un giudizio di costituzionalità. La sua applicazione nell’ordinamento interno è, infatti, mediata dalla norma costituzionale dell’art. 117, primo comma, della Costituzione che subordina, appunto, l’esercizio della potestà legislativa dello Stato ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali assunti. Si citano, inoltre, l’art. 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e l’art. 14 del Patto dei Diritti Civili e Politici non direttamente applicabili dal giudice comune;
  5. Art. 39, comma primo, D.L. n. 98 del 06/07/2011, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 111 del 15/07/2011 (in G.U. n. 164 del 16/07/2011) <<Disposizioni in materia di riordino della giustizia tributaria>>: “Al fine di assicurare una maggiore efficienza del sistema della giustizia tributaria, garantendo altresì imparzialità e terzietà del corpo giudicante, sono introdotte disposizioni volte a:
  1. rafforzare le cause di incompatibilità dei giudici tributari;
  2. incrementare la presenza nelle Commissioni tributarie regionali di giudici selezionati tra i magistrati ordinari, amministrativi, militari, e contabili in servizio o a riposo ovvero tra gli avvocati dello Stato a riposo (Lettera così modificata, in sede di conversione, dalla Legge n. 111 del 15 luglio 2011);
  3. ridefinire la composizione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria in analogia con le previsioni vigenti per gli organi di autogoverno delle magistrature.”
  1. Art. 10 della Legge delega n. 23 dell’11/03/2014:

– “Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante…” (primo comma);

– “rafforzamento della qualificazione professionale dei componenti delle commissioni tributarie, al fine di assicurarne l’adeguata preparazione specialistica” (primo comma, lett. b), n. 8). Norma citata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 8053 del 07 aprile 2014 e totalmente ignorata e disattesa dall’odierno legislatore.

Tanto chiarito, giova evidenziare che, purtroppo, sino a oggi, tale compendio normativo non ha ancora trovato applicazione.

Pertanto, ormai imminente e improcrastinabile è la riforma strutturale della giustizia tributaria che può essere adeguatamente attuata dal Legislatore tenendo come punti fermi i principi della Carta Costituzionale e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

5.2. Le pronunce giurisprudenziali di legittimità e costituzionali per la riforma dell’ordinamento della giurisdizione tributaria

Le Commissioni tributarie nacquero agli albori dello Stato unitario, con la prima legge sull’imposta di ricchezza mobile n. 1830 del 14/07/1864 e T.U. n. 4021 del 24/08/1877 (artt. 48, 50, terzo comma, e 53). Già all’inizio del 1900 Santi Romano le annoverava tra le “giurisdizioni amministrative speciali”.

Con l’avvento della Costituzione repubblicana (01 gennaio 1948), la VI disposizione transitoria impose la revisione degli organi speciali di giurisdizione esistenti (tranne il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti ed i Tribunali Militari).

Tale opera fu attuata con:

  • D.P.R. n. 636 del 26/10/1972 e successive modifiche ed integrazioni;
  • D.P.R. nn. 545 e 546 del 31/12/1992 e successive modifiche ed integrazioni.

Per un certo periodo storico la Corte Costituzionale negò il carattere giurisdizionale delle Commissioni tributarie (Corte Costituzionale sentenza n. 10/1969), in contrasto con il precedente orientamento ribadito, invece, dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenze n. 2175/1969; n. 2201/1969; n. 1181/1970) ma, al tempo stesso, ne assicurò la sopravvivenza. Infatti, la Corte Costituzionale, con due sentenze (n. 287/1974 e n. 215/1976), chiarendo il significato di “giudice speciale”, fugò ogni sospetto e, sostanzialmente, sopì il dibattito che poté dirsi definitivamente concluso con l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 351/1995 (in G.U. n. 33/I Serie Speciale del 09 agosto 1995), la quale ebbe espressamente a statuire che: <<il problema della natura giuridica delle commissioni tributarie è stato definitivamente risolto da questa Corte nel senso del carattere giurisdizionale delle stesse>>.

Tanto premesso, nonostante ci siano voluti ben 131 anni (dal 1864 al 1995) per qualificare in modo definitivo le Commissioni Tributarie quali organi giurisdizionali e non amministrativi, ad ogni modo, negli anni sia la Corte Costituzionale sia la Corte di Cassazione a Sezioni Unite sono costantemente intervenute sollecitando il legislatore a riformare strutturalmente la giustizia tributaria.

Nel dettaglio, la Corte Costituzionale ha chiarito i seguenti principi:

  1. sentenza n. 154 del 05 giugno 1984: “Con tutto questo, rimangono le molte deficienze del contenzioso tributario, ampiamente segnalate in dottrina e dagli operatori del settore, per le quali il Parlamento è ora chiamato a porre rimedio “;
  2. sentenza n. 212 del 09 luglio 1986: “Ma ormai, risultando definitivamente consolidati l’opinione dottrinale e l’orientamento della giurisprudenza sulla natura giurisdizionale delle predette commissioni, non potrebbe ritenersi consentita un’ulteriore protrazione della disciplina attuale: per contro, è assolutamente indispensabile, al fine di evitare gravi conseguenze, che il legislatore intervenga onde adeguare il processo tributario all’art. 101 della Costituzione, correttamente interpretato”;
  3. ordinanza n. 144 del 20-23 aprile 1998, sollecitata dalla CTP di Lecce con ordinanza del 24 febbraio 1997, su specifica eccezione sollevata dallo Scrivente: “L’obbligo di procedere alla revisione delle anzidette giurisdizioni speciali preesistenti ha consentito l’intervento del legislatore con leggi posteriori a Costituzione attraverso mutamenti graduali (v., per tutte, le disposizioni integrative e correttive emanate in base all’art. 17, secondo comma, della legge 9 ottobre 1971, n. 825, i cui termini sono stati ripetutamente prorogati) e con parziali adeguamenti, anche per colmare “le molte deficienze del contenzioso tributario” sottolineate dalla Corte con invito a “riordino legislativo dell’intera materia” (sentenze n. 154 del 1984 e n. 212 del 1986). Che allo stesso modo l’intervenuta revisione non vincola il legislatore ordinario a mantenere immutati nell’ordinamento e nel funzionamento le commissioni tributarie come già revisionate”; “per le preesistenti giurisdizioni speciali, una volta che siano state assoggettate a revisione, non si crea una  sorta di immodificabilità nella configurazione e nel funzionamento, né si consumano le potestà del legislatore ordinario; che questi conserva il normale potere di sopprimere ovvero di trasformare, di riordinare i giudici speciali, conservati ai sensi della VI disposizione transitoria, o di ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella procedura, con il duplice limite di non snaturare (come elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale) le materie attribuite alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione, fermo permanendo il principio che il divieto di giudici speciali non riguarda quelli preesistenti a Costituzione e mantenuti a seguito della loro revisione” (sull’obbligo di non snaturare la competenza tributaria dei giudici speciali, si rinvia anche alla sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 24/07/2009);
  4. sentenza n. 44 del 10 febbraio 2016: “La giurisprudenza costituzionale riconosce un’ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali (tra le ultime, sentenze n. 23 del 2015, n. 243 e n. 157 del 2014), anche in materia di competenza (ex plurimis, sentenze n. 159 del 2014 e n. 50 del 2010). Resta naturalmente fermo il limite della manifesta irragionevolezza della disciplina, che si ravvisa, con riferimento specifico al parametro evocato, ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire (sentenza n. 335 del 2004). In generale, questa Corte ha chiarito, con riferimento all’art. 24 Cost., che «tale precetto costituzionale “non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti […] purché non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale” (sentenza n. 63 del 1977; analogamente, cfr. sentenza n. 427 del 1999 e ordinanza n. 99 del 2000)» (ordinanza n. 386 del 2004). Alla luce di questi principi, deve ritenersi che nella disciplina in esame il Legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, abbia individuato un criterio attributivo della competenza che concretizza quella condizione di “sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione” suscettibile “di integrare la violazione del citato parametro costituzionale” (così, nuovamente, la sentenza n. 237 del 2007)» (ordinanza n. 417 del 2007)>>. Appunto per questo, è importante che le controversie tributarie siano devolute ad un giudice a tempo pieno, professionale, indipendente e imparziale;
  5. ordinanza n. 227 del 21/09/2016: “Interventi di questo tipo – manipolativi di sistema – sono in linea di principio estranei alla giustizia costituzionale, poiché eccedono i poteri di intervento della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore (ex plurimis, sentenze n. 248 del 2014 e n. 252 del 2012; ordinanze n. 269 del 2015, n. 156 del 2013, n. 182 del 2009, n. 35 del 2001 e n. 117 del 1989)”.

Anche la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha richiamato i suesposti principi della Corte Costituzionale, con la sentenza n. 13902 del 05 giugno 2007, depositata in cancelleria il 14 giugno 2007.

  1. Inoltre, sempre la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con l’importante sentenza n. 8053 del 07 aprile 2014, ha precisato che: “Mentre resta nel limbo del “non giuridico” ogni discorso sulla (mancanza di adeguata) “professionalità” del giudice tributario, che non reclama come ineludibile corollario logico una specialità del controllo di legittimità, ma semmai pone l’accento sulla irrinunciabile professionalizzazione del giudice quale elemento determinante della tutela giurisdizionale dei diritti (e in ciò sembra rientrare, a pieno titolo, la previsione dell’art. 10, comma 1, lettera b), n. 8), della ricordata legge n. 23 del 2014, circa la doverosa ispirazione del legislatore delegato all’adozione di misure volte al “rafforzamento della qualificazione professione dei componenti delle commissioni tributarie, al fine di assicurarne l’adeguata preparazione specialistica” nel quadro di una prospettiva di crescita dello spessore della tutela giurisdizionale del contribuente con l’assicurata terzietà dell’organo giudicante”.
  2. Sentenze nn. 29 e 30 della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, depositate il 05 gennaio 2016: “La precedente sottolineatura – che la garanzia del “giudice naturale” deve essere riferita sia alla giurisdizione sia alla competenza in senso stretto – si giustifica con il pieno rilievo che le norme sulla giurisdizione vanno considerate nel nostro più ampio contesto costituzionale, nel quale l’«Ordinamento giurisdizionale» della «Magistratura» (Titolo IV, Sezione prima, Cost.) è connotato dalla attribuzione della giurisdizione sia a magistrati «ordinari», anche “specializzati” in ragione della materia oggetto di giudizio (art. 102, primo e secondo comma) – ai quali è riservata giurisdizione tendenzialmente “generale” per la tutela dei diritti soggettivi (cfr., ad esempio, gli artt. 1 del R. d. n. 30 gennaio 1941, n. 12, sull’ordinamento giudiziario, 1 cod. proc. civ., 1 cod. proc. pen., 96 Cost.) -, sia a magistrati amministrativi (Consiglio di Stato ed «altri organi di giustizia amministrativa») «per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione» (artt. 103, primo comma, 125, secondo comma), sia alla Corte dei conti «nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge» (103, secondo comma), sia ai tribunali militari in tempo di guerra e in tempo di pace (art. 103, terzo comma), sia infine ad altri, “revisionandi” «organi speciali di giurisdizione» (esistenti alla data del 01 gennaio 1948: art. VI, primo comma, delle disposizioni transitorie e finali), a ciascuno dei quali è attribuita giurisdizione in ragione o della situazione giuridica soggettiva sostanziale fatta valere in giudizio (per i giudici amministrativi: interessi legittimi e, «in particolari materie indicate dalla legge», diritti soggettivi) e/o di determinate materie oggetto di giudizio, indicate direttamente dalla Costituzione e/o dalle leggi istitutive di detti «organi speciali di giurisdizione» (artt. 103, secondo e terzo comma, Cost., e VI disp. trans. e fin.). Deve aggiungersi che, come per la giurisdizione ordinaria (cfr., in generale, artt. da 7 a 36, 39 e 40, nonché da 42 a 50 cod. proc. civ.), così anche per la giurisdizione amministrativa e per ciascuna altra giurisdizione “speciale” – non la Costituzione, che non detta disposizioni sulla “competenza in senso stretto”, ma la legge ordinaria non soltanto distingue nettamente “giurisdizione” e “competenza” (come, del resto, fa l’art. 117, secondo comma, lettera I, Cost., che riserva allo Stato la legislazione esclusiva nelle materie «giurisdizione e norme processuali»), ma detta proprie e specifiche regole processuali, che stabiliscono sia criteri per la distribuzione delle controversie tra i vari organi appartenenti a ciascuna giurisdizione (competenza in senso stretto, appunto), sia forme e modi per il promovimento e per la risoluzione delle questioni e dei conflitti concernenti l’applicazione di detti criteri (cfr., ad esempio: per la giurisdizione amministrativa, gli artt. 4, da 7 a 12, da 13 a 16 cod. proc. amm., il quale ultimo articolo ha introdotto anche nella giustizia amministrativa l’istituto del regolamento di competenza, deciso dal Consiglio di Stato; per la giurisdizione della Corte dei conti, l’art. 1, comma 7, del d.l. 15 novembre 1993, n. 453, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 19, che attribuisce alle sezioni riunite della Corte, tra l’altro, la decisione sui «conflitti di competenza»; per la giurisdizione tributaria, gli artt. da 2 a 5 del D.Lgs.. 31 dicembre 1992, n. 546, e successive modificazioni)”. Infatti, la Corte Costituzionale ha costantemente riconosciuto che spetta sempre al legislatore ordinario decidere discrezionalmente la sorte delle giurisdizioni speciali preesistenti (Corte Costituzionale sentenza n. 17/1965), come corollario della ritenuta legittimità della sopravvivenza delle stesse dopo il compimento del quinquennio fissato per la loro revisione (orientamento costante fin da Corte Costituzionale n. 41/1957).

In definitiva, pertanto, sia la Corte Costituzionale sia la Corte di Cassazione a Sezioni Unite hanno sempre sollecitato il legislatore ordinario a riformare strutturalmente la giustizia tributaria con legge ordinaria e non con legge costituzionale, come sopra esposto, precisato e documentato.

5.3. L’attuale situazione giuridica ed economica delle Commissioni Tributarie

Dopo aver effettuato le dovute premesse sui principi costituzionali che sono alla base della riforma strutturale della giustizia tributaria e dato contezza del fatto che sia la giurisprudenza di legittimità che costituzionale da sempre hanno segnalato l’imminente esigenza di riformare le Commissioni tributarie, di seguito si espone la situazione attuale, giuridica ed economica delle Commissioni Tributarie.

  • I giudici tributari sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro delle finanze (art. 9, comma primo, D. Lgs. N. 545/1992 citato); “In ogni altro caso alla nomina dei componenti di commissione tributaria si provvede con decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze” (art. 9, comma primo, secondo periodo, citato, aggiunto dall’art. 11, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 156 del 24/09/2015);
  • attualmente, i giudici tributari sono 3.019, di cui 94 anche in Cassazione, (meno 3,73% rispetto al 2016); i giudici togati sono 1.633 mentre i laici sono 1.386 (Il Sole 24 Ore di lunedì 26 febbraio 2018 e Italia Oggi di lunedì 26 febbraio 2018 e di lunedì 06 agosto 2018); un evidente sottodimensionamento rispetto alle 4.668 unità previste dal d.m. 11 aprile 2018;
  • l’organizzazione della macchina amministrativa è affidata al MEF che, per l’anno 2018, ha preventivato un costo complessivo di 211 milioni di euro, con un aumento che sfiora il 2,5% rispetto al preventivo 2017 quando le stesse voci pesavano per 206 milioni di euro (Il Sole 24 Ore di lunedì 26 febbraio 2018). Oltretutto, non bisogna dimenticare che alcune Commissioni tributarie operano o hanno operato negli stessi locali dell’Agenzia delle entrate (come, per esempio, la CTP di Brindisi che svolgeva le udienze presso l’Agenzia delle Entrate di Ostuni); a tal proposito, non può non rilevarsi il potere del MEF: << di istituire nuove Commissioni, di adeguare il numero delle sezioni interne a ciascuna Commissione, di proporre al Presidente della Repubblica la nomina dei componenti delle commissioni, di disporre il relativo trattamento economico, di applicare le sanzioni disciplinari deliberate dal Consiglio di Presidenza (che è, come è facilmente intuibile, costituisce una sorta di Consiglio Superiore della Magistratura del processo tributario), laddove questo organo è stato poi costituito dallo stesso ministero e ivi ha sede. Al fatto della retribuzione dei giudici da parte del Ministero dell’Economia si aggiunge poi la circostanza che gli stessi Collegi sono assistiti da personale amministrativo inquadrato in tale Ministero>> (articolo dell’Avv. Antonino Russo, in Bollettino Tributario d’informazioni n. 2 del 30/01/2016, pagg. 93 – 97);
  • la gestione della piattaforma informatica relativa al processo tributario telematico (obbligatorio dal 1° luglio 2019) è gestita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in palese violazione dei principi di terzietà e imparzialità ove le regole del gioco sono gestite da una delle parti del processo.

Sul punto, si ritiene condivisibile l’articolo pubblicato su Italia Oggi del 24 giugno 2019, a firma del giornalista Marino Longoni, secondo cui<< Per non parlare della questione squisitamente «politica» relativa al fatto che siccome tutto l’apparato informatico relativo al processo tributario telematico sarà gestito dal ministero dell’Economia, ci si trova di fatto dinanzi a un caso gestione delle regole del gioco ad opera di una delle parti del processo. C’è odore di scarsa imparzialità, in questo monopolio delle cancellerie. E non è peregrina l’ipotesi che qualcuno possa sollevare la questione dinanzi alla Corte di giustizia europea. Di positivo, però, c’è l’ampia disponibilità dello stesso ministero di condividere con i professionisti le regole del gioco e le loro modifiche. Come ha confermato Fiorenzo Sirianni, direttore della Giustizia tributaria al Mef, che proprio nel corso di un evento formativo con l’Uncat ha parlato di «incontri periodici con gli attori del processo tributario al fine di concordare insieme modifiche e integrazioni volte ad agevolare la costituzione in giudizio con modalità digitali». Insomma, i problemi non mancano, un po’ di confusione neanche, la fiducia non è ai massimi, ma il processo tributario telematico parte. E se al governo qualcuno cominciasse a riflettere su una giustizia tributaria che garantisca terzietà e imparzialità dei giudici, beh, forse si potrebbe azzardare il termine rivoluzione>> .

  • i giudici tributari non sono a tempo pieno perché possono svolgere una seconda o terza attività (artt. 4 e 5 D.Lgs. n. 545/1992 citato); infatti, i giudici tributari sono nominati per titoli e non per concorso pubblico;

“I giudici delle commissioni tributarie provinciali sono nominati tra:

a) i magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, in servizio o a riposo, e gli avvocati e procuratori dello Stato, a riposo; (3)

b) i dipendenti civili dello Stato o di altre amministrazioni pubbliche in servizio o a riposo che hanno prestato servizio per almeno dieci anni, di cui almeno due in una qualifica alla quale si accede con la laurea in giurisprudenza o in economia e commercio o altra equipollente;

c) gli ufficiali della Guardia di finanza cessati dalla posizione di servizio permanente effettivo prestato per almeno dieci anni;

d) coloro che sono iscritti negli albi dei ragionieri e dei periti commerciali ed hanno esercitato per almeno dieci anni le rispettive professioni;

e) coloro che, in possesso del titolo di studio ed in qualita` di ragionieri o periti commerciali, hanno svolto per almeno dieci anni, alle dipendenze di terzi, attivita` nelle materie tributarie ed amministrativo contabili;

f) coloro che sono iscritti nel ruolo o nel registro dei revisori ufficiali dei conti o dei revisori contabili ed hanno svolto almeno cinque anni di attività;

g) coloro che hanno conseguito l’abilitazione all’insegnamento in materie giuridiche, economiche o tecnico ragionieristiche ed esercitato per almeno cinque anni attività di insegnamento;

h) gli appartenenti alle categorie indicate nell’articolo 5;

i) coloro che hanno conseguito da almeno due anni il diploma di laurea in giurisprudenza o in economia e commercio;

l) gli iscritti negli albi degli ingegneri, degli architetti, dei geometri, dei periti edili, dei periti industriali, dei dottori agronomi, degli agrotecnici e dei periti agrari che hanno esercitato per almeno dieci anni le rispettive professioni”.

  • le cause tributarie possono essere lunghe anche 9 (nove) anni; infatti, durano poco meno di due anni e cinque mesi in primo grado, altri due anni e un mese in appello, e poi oltre 4 (quattro) anni davanti alla Corte di Cassazione, diventata suo malgrado sempre più un collo di bottiglia alla luce di un flusso di ricorsi senza eguali tra le supreme corti mondiali, con 11.000 (undicimila) gravami fiscali in arrivo ogni anno;
  • molte cause tributarie durano anni anche perché si creano problemi di giurisdizione, soprattutto per quanto riguarda la fase della riscossione. Per esempio, in materia di atti esecutivi, la Corte di Cassazione è intervenuta con due sentenze (in Bollettino Tributario d’informazioni n. 19 del 15/10/2017, pagg. 1437 – 1448, con nota del dott. Domenico Carnimeo):
  • 13913 del 05 giugno 2017;
  • 13916 del 05 giugno 2017.

La riforma strutturale della giustizia tributaria, con giudici indipendenti e professionali, può prevedere anche la competenza in tema di risarcimento dei danni per tutelare meglio il contribuente che, oggi, purtroppo, deve rivolgersi a due giudici diversi (civile e tributario), con regole processuali diverse e con inevitabile perdita di tempo (tenuto conto della lungaggine della giustizia civile!); inoltre, si può disciplinare meglio il rapporto tra le varie giurisdizioni;

  • i giudici tributari, pagati in ritardo dal MEF, non percepiscono nulla per le sospensive, euro 15 (quindici) nette a sentenza depositata ed 1 euro a sentenza per rimborso spese (art. 13 D.Lgs. n. 545/92 e Decreto Ministeriale 05 febbraio 2016, in attuazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 6086/2014), indipendentemente dal valore della causa, prima a regime ordinario di tassazione (art. 39, quinto comma, D.L. n. 98/2011, dichiarato incostituzionale in relazione agli artt. 3 e 53 della Costituzione, con sentenza della Corte Costituzionale n. 142/2014), oggi, finalmente, soggetti a tassazione separata, anche se il MEF è contrario ai rimborsi per gli importi passati (per le cause in corso, rinvio alla favorevole sentenza della CTP di Lecce n. 1732/2016, depositata il 13/07/2016 e, invece, Risoluzione Ministeriale n. 151/E/2017 del 13/12/2017);
  • intuitivamente deleteria sotto il profilo della rappresentazione all’esterno la disposizione per cui “Il Ministro dell’economia e delle finanze presenta entro il 30 ottobre di ciascun anno una relazione al Parlamento sullo stato della giustizia tributaria nell’anno precedente anche sulla base degli elementi predisposti dal Consiglio di presidenza, con particolare riguardo alla durata dei processi e dell’efficacia degli istituti deflattivi del contenzioso” (art. 29, secondo comma, del D. Lgs. n. 545/1992, come modificato dal D. Lgs. n. 156/2015);
  • secondo le ultime statistiche rese disponibili dal MEF, nel solo terzo trimestre 2017 il Fisco ha vinto completamente nel 45,8% dei casi, vedendosi riconosciuta una pretesa di quasi 1,6 miliardi di euro, a fronte del 31% dei giudizi pienamente favorevoli ai contribuenti, per un controvalore di 877 milioni di euro (Italia Oggi di lunedì 26 febbraio 2018). Per tutto l’anno 2017 il Fisco ha vinto più del contribuente in tutti i gradi di giudizio.

In Cassazione le vittorie del fisco rappresentano oltre il 65% dei procedimenti <<ed è un po’ strano che illustri professionisti o dottrinari, quasi sempre molto preparati, che patrocinano di fronte alla Suprema Corte, possano malamente soccombere due volte su tre. Forse è anche perché l’Ufficio ed il contribuente non stanno sullo stesso piano, non combattono ad armi pari>> (articolo di Renzo Amanzio Regni, in Italia Oggi di lunedì 06 agosto 2018);

  • il valore delle cause pendenti in primo e secondo grado si aggira intorno ai 50 miliardi di euro; cifra che raddoppia sommando le cause pendenti in Cassazione (articolo di Salvatore Padula in Il Sole 24 ore di lunedì 26 febbraio 2018; Il Sole 24 Ore del 27 febbraio 2018 e del 16 giugno 2018); il 68% delle cause tributarie non supera i 20.000 euro (Italia Oggi di lunedì 06 agosto 2018);
  • cause che durano, in genere, pochi minuti e di regola senza istruttoria, perché poche volte viene nominato un consulente tecnico d’ufficio. Oggi come oggi, la legislazione rappresenta uno stimolo alla sommarietà del processo, un incitamento a risolvere tutto in una sola udienza pubblica, come se questo comportamento dovesse essere la regola. In sostanza, nell’attuale processo tributario, la discussione orale viene vista come un fastidioso optional.

Prevedere una sola udienza pubblica è insufficiente rispetto alle complessità strutturali di molte controversie;

  • per quanto riguarda la Corte di Cassazione, si fa presente che di solito arrivano 11.000 (undicimila) gravami fiscali ogni anno, mentre le supreme corti di Francia e Germania ricevono ogni anno rispettivamente 28.000 (ventottomila) e 10.000(diecimila) ricorsi tra civile e penale, contro gli 83.000 (ottantatremila) italiani, mentre nel Regno Unito la Corte suprema affronta meno di 10 cause tributarie all’anno, contro le oltre 11.000 (undicimila) della Corte di Cassazione.A tal proposito, si riporta l’interessante e condiviso intervento del Prof. Cesare Glendi, pubblicato in Quotidiano Ipsoa del 10 marzo 2018, secondo cui :

<<Urge che il potere politico provveda ad approvare una riforma seria della giurisdizione tributaria di vertice, come si predica da tempo (cfr. Ipsoa Quotidiano del 16 luglio 2016, Verso la “Sezione tributaria” della Cassazione “a cottimo”, nonché il successivo editoriale del 4 marzo 2017, La sezione tributaria-bis non basta: occorre una vera riforma al vertice della giurisdizione tributaria).

Che senso ha restringere in una sezione “cenerentola” (perché tale è considerata la Sezione tributaria così come congegnata all’interno della Suprema Corte) un contenzioso che sta per superare il 50% dell’intero contenzioso assegnato a tutte le altre cinque sezioni?>>;

  • si segnala che la Corte di Giustizia UE, Sezione III, con la sentenza del 09 novembre 2017, causa C-298/16, ha stabilito quanto segue:

<<Il principio generale di diritto dell’Unione del rispetto dei diritti della difesa deve essere interpretato nel senso che, nell’ambito di procedimenti amministrativi relativi alla verifica e alla determinazione della base imponibile iva, un soggetto privato deve avere la possibilità di ricevere, a sua richiesta, le informazioni e i documenti contenuti nel fascicolo amministrativo e presi in considerazione dall’Autorità pubblica per l’adozione della sua decisione, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione dell’accesso a dette informazioni e a detti documenti>> (in Corriere Tributario Ipsoa, n. 6 del 12 febbraio 2018);

  • infine, la giurisprudenza di legittimità ha mostrato resistenza ad ammettere che la c.d. “Legge Pinto” (n. 89/2001) per l’equa riparazione si applichi al processo tributario, salvo per i giudizi in materia di rimborso (Cassazione n. 16212 del 24 settembre 2012).

Una implicita apertura nei confronti dell’applicabilità della suddetta legge nel rito tributario proviene dal legislatore che, con il decreto legge n. 40/2010 (art. 3, comma 2-bis), ha stabilito che, ove il contribuente avesse inteso beneficiare della definizione delle liti ultradecennali pendenti in Cassazione, avrebbe dovuto rinunciare ad ogni richiesta di risarcimento ai sensi, appunto, della succitata Legge Pinto, cosa che sembra implicare l’applicazione della medesima legge alla materia tributaria. Con la riforma della giustizia tributaria sarà sicuramente prevista l’applicazione della Legge Pinto senza alcuna limitazione.

5.4.I principi della legge delega di riforma della giustizia tributaria

A oggi con l’approvazione parlamentare del PNRR(Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e l’invio dello stesso alla Comunità Europea si è messa in moto, finalmente, la riforma fiscale e la contemporanea riforma della giustizia tributaria.

Nel termine massimo di due mesi è attesa la proposta del Parlamento che, secondo il PNRR, sarà la base della legge delega da approvare entro il 31 luglio 2021. Dopo di che entrerà in campo la Commissione di esperti per la definizione dei decreti attuativi entro il 2022.Pertanto, entro il 31 luglio 2021, dovrà essere approvata la legge delega anche per la riforma della giustizia tributaria, ormai attesa da molti anni da tutti i contribuenti e professionisti.

Già nella seduta del 5 ottobre 2020, il Consiglio dei Ministri  aveva approvato la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2020 (NADEF) nella quale, tra i Disegni di Legge collegati alla decisione di bilancio, era finalmente previsto il Disegno di Legge Delega di riforma della giustizia tributaria, come da anni sollecitata da tutti i contribuenti ed i professionisti del settore.

A parere dello Scrivente, la giustizia tributaria non deve essere gestita, come oggi, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) ma dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, organismo terzo ed indipendente, come previsto dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione. Inoltre, i giudici tributari devono essere vincitori di concorso pubblico, a tempo pieno, professionali, competenti e, di conseguenza, dignitosamente retribuiti. Inoltre, si deve prevedere la figura del Giudice Tributario Monocratico (G.T.M.) e del Giudice Tributario Collegiale (G.T.C.), tutti togati e vincitori di pubblico concorso. A determinate condizioni, è prevista la figura e la funzione del Giudice Tributario Onorario (G.T.O.), che non è un giudice togato vincitore di pubblico concorso. L’organico nazionale dei giudici tributari deve essere al massimo di 1.000 unità, rispetto ai 2.730 giudici tributari di oggi. In definitiva, la figura del nuovo giudice tributario deve integrare quel modello di giudice indipendente, terzo ed imparziale, a tempo pieno, previsto dagli artt. 106, 108 e 111 della Costituzione, che deve utilizzare la fase istruttoria del processo, oggi pochissimo utilizzata; ecco perché è necessario inserire nel processo tributario la prova testimoniale ed il giuramento con abrogazione dell’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546 del 31/12/1992 e successive modifiche ed integrazioni.

La presente proposta di legge si prefigge di riformare la giustizia tributaria, un’esigenza largamente avvertita nella società e condivisa dagli addetti ai lavori nel tentativo di saldare un rinnovato legame fiduciario tra contribuenti, Fisco ed istituzioni nonché di garantire la qualità delle sentenze al fine di ridurre il contenzioso che grava, in ultimo, sulla Corte di Cassazione, come più volte denunciato in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari.

Tanto chiarito, giova precisare che un progetto di riforma non ben “studiato” sortirebbe disastrose conseguenze non solo sulla giustizia tributaria ma anche su quella civile se ad essa venisse affidato anche il peso del contenzioso tributario.

In occasione della redazione e presentazione del Disegno di Legge Delega della riforma della giustizia tributaria, di seguito lo Scrivente si permette di segnalare 40 principi e criteri direttivi che si dovrebbero prendere in considerazione in predetta legge delega per un riordino strutturale dell’organizzazione della giustizia tributaria.

Art. 1.

Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la riforma della giustizia tributaria, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi, rispettando gli artt. 106, 108 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione:

  • affidamento alla Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’organizzazione degli organi di giurisdizione tributaria e dell’inquadramento ed amministrazione dei giudici tributari, nel rispetto delle prerogative del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria;
  • deve essere istituito il ruolo autonomo della magistratura tributaria, distinto da quello delle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile e militare, sia per quanto riguarda il trattamento economico, che deve essere congruo e dignitoso, sia per quanto riguarda lo sviluppo di carriera;
  • attribuire la giurisdizione tributaria ai Tribunali tributari, alle Corti di Appello tributarie ed alla Sezione tributaria della Corte di Cassazione;
  • sopprimere le Commissioni tributarie provinciali e regionali nonché le relative sezioni distaccate, apportando le necessarie modifiche alle disposizioni vigenti in materia, comprese quelle relative al procedimento;
  • articolazione del giusto processo tributario in due gradi di giudizio da espletarsi dai Tribunali tributari in primo grado, siti nei capoluoghi di provincia, e dalle Corti di Appello tributarie in secondo grado, site nei capoluoghi sedi attuali di Corti di Appello; abrogazione dell’articolo 7, comma 4, D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992, e successive modifiche ed integrazioni, ammettendo così la prova testimoniale ed il giuramento;
  • vietare lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali nei gradi di merito ai giudici in servizio presso la Corte di Cassazione;
  • previsione dei requisiti generali e delle cause di incompatibilità di tutti i giudici tributari, analoghe a quelle previste per le altre magistrature; previsione delle tassative ipotesi di decadenza dall’incarico;
  • tutti i giudici tributari cessano la loro funzione al compimento del settantesimo anno di età;
  • il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, determina il numero delle sezioni e dei giudici, togati e non togati, che compongono i Tribunali tributari e le Corti di Appello tributarie; il numero massimo di tutti i giudici tributari è di 1.000 unità;
  • i Tribunali tributari e le Corti di Appello tributarie sono divisi in sezioni composte da un Presidente, un Vicepresidente e quattro giudici e decide con la presenza del Presidente o del Vicepresidente e due giudici togati, vincitori di concorso pubblico, in caso di composizione collegiale; è istituito presso ciascuna Corte di Appello tributaria un ufficio del massimario;
  • dotare i Tribunali tributari e le Corti di Appello tributarie di infrastrutture adeguate, a cominciare dal sistema di rappresentazione audiovisiva delle udienze da remoto, già previsto dall’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto legge n. 119/2018, convertito con legge n. 136/2018;
  • i componenti togati dei Tribunali tributari e delle Corti di Appello tributarie sono magistrati tributari vincitori di apposito concorso pubblico, ai sensi dell’art. 106, primo comma, della Costituzione;
  • i giudici onorari, non togati, sono nominati a semplice domanda degli attuali giudici tributari, da assegnare soltanto ai Tribunali tributari e decidono sempre in composizione monocratica;
  • prevedere che il reclutamento dei giudici tributari togati abbia luogo mediante due distinte procedure concorsuali da indire entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del relativo decreto legislativo;
  • il fabbisogno da coprire mediante concorso pubblico per titoli ed esami è determinato in sede di prima attuazione dai decreti legislativi di cui alla presente legge delega e, successivamente, con cadenza almeno triennale dal Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, sentiti i Presidenti dei Tribunali tributari e delle Corti di Appello tributarie, sulla base del carico di lavoro di ciascuna sede e dei tempi medi di trattazione dei giudizi;
  • prevedere che:
  1. al concorso per Presidenti dei Tribunali tributari e delle Corti di Appello tributarie possano essere ammessi solo i Presidenti di sezione dei Tribunali tributari e delle Corti di Appello tributarie;
  2. al concorso per Presidenti e per Vice presidenti di sezione dei Tribunali tributari e delle Corti di Appello tributarie possano essere ammessi solo i giudici togati che, alla data di indizione del concorso, abbiano maturato un’anzianità di servizio di almeno quindici anni;
  • prevedere per i giudici tributari togati vincitori di concorso pubblico il medesimo trattamento economico dei magistrati ordinari;
  • i giudici onorari tributari, invece, sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, in conformità alle deliberazioni del Consiglio della Giustizia Tributaria (organo di autogoverno);
  • ai giudici onorari tributari è corrisposta soltanto l’indennità di cui all’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 116 del 13 luglio 2017. I giudici onorari tributari sono competenti per le sole controversie tributarie il cui valore, determinato ai sensi dell’art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, non superi 5.000 euro e decidono sempre in composizione monocratica; il giudice onorario che interviene nelle procedure di mediazione e di sospensione non può decidere il merito;
  • l’appello avverso le sentenze del giudice onorario tributario si propone alla Corte di Appello tributaria in composizione monocratica, con la presenza di un giudice togato vincitore di concorso pubblico; il giudice togato che interviene nella procedura di sospensione non può decidere il merito;
  • prevedere per i giudici onorari tributari l’obbligo di immediata cancellazione dagli Albi o Registri ed il divieto di continuare a svolgere qualsiasi attività professionale; in caso di mancato rispetto, il giudice tributario onorario sarà escluso dalla magistratura tributaria;
  • il Tribunale tributario e la Corte di Appello tributaria, con giudici vincitori di concorso pubblico, giudicano in composizione monocratica nelle seguenti tassative controversie:
  1. di valore non superiore a 50.000 euro, secondo le disposizioni di cui agli artt. 12, comma 2, secondo periodo, e 17-bis, D.Lgs. n. 546/92;
  2. relative alle questioni catastali di cui all’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 546/92;
  3. relative ai giudizi di ottemperanza, senza alcun limite di importo;
  4. negli altri casi tassativamente previsti dalla legge.

Inoltre, la procedura di reclamo e mediazione di cui all’art. 17-bis, D.Lgs. n. 546/92 si deve svolgere presso il competente giudice onorario tributario o presso il competente giudice tributario togato monocratico e non più presso le Agenzie delle Entrate, per cui devono essere modificati i commi 4 e 5 dell’art. 17-bis citato; il giudice togato che interviene nelle procedure di mediazione e di sospensione non può decidere il merito;

  • al di fuori dei casi di cui al n. 22), i Tribunali tributari e le Corti di Appello tributarie decidono sempre in composizione collegiale, con tre giudici togati vincitori di concorso pubblico; il giudice togato che interviene nelle procedure di mediazione e di sospensione non può decidere il merito;
  • deve essere specificamente regolamentato il procedimento disciplinare e devono essere tassativamente previste le sanzioni disciplinari;
  • a tutti i giudici tributari, sia vincitori di concorso pubblico sia onorari, si applicano le attuali disposizioni normative concernenti il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali;
  • prevedere la possibilità della difesa personale soltanto dinanzi al giudice onorario tributario, in composizione monocratica, per le controversie con valore calcolato, al netto di eventuali sanzioni e interessi, non superiore a 5.000 euro;
  • confermare i meccanismi di mediazione tributaria e gli istituti deflattivi del contenzioso vigenti alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui alla presente legge delega;
  • garantire la possibilità di patrocinare davanti ai Tribunali tributari, anche in composizione monocratica, ed alle Corti di Appello tributarie ai soggetti appartenenti alle medesime categorie per le quali la legislazione vigente, alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui alla presente legge delega, consente l’assistenza tecnica;
  • prevedere percorsi di formazione permanente per tutti i giudici tributari, togati e non togati, assunti in base alle procedure di cui alla presente legge delega, così articolati:
  1. la Scuola superiore di formazione dei giudici tributari, istituita presso il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, provvede alla formazione iniziale dei nuovi giudici e, successivamente, al periodico, programmato ed obbligatorio aggiornamento professionale, anche mediante percorsi di alta specializzazione, soggetto a specifica valutazione finale;
  2. al termine del periodo di formazione iniziale di cui alla lettera a), il giudice è tenuto a svolgere un periodo, di almeno dodici mesi, di tirocinio retribuito presso una sezione di Tribunale tributario. L’immissione in ruolo è subordinata alla valutazione positiva del tirocinio da parte del Presidente della sezione, sentiti gli altri componenti togati della sezione stessa;
  • salva la competenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione alle sole questioni di giurisdizione, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione giudica le impugnazioni delle sentenze delle Corti di Appello tributarie. La suddetta Sezione è composta da trentacinque giudici, non facenti parte dei Tribunali tributari e delle Corti di Appello tributarie, ripartiti in cinque sottosezioni, in ragione delle seguenti materie:
  • IMPOSTE SUI REDDITI;
  • IVA;
  • ALTRI TRIBUTI;
  • RISCOSSIONE;

I Collegi sono composti dal numero fisso di tre membri. I giudizi si svolgono esclusivamente con rito camerale;

  • prevedere che il Consiglio superiore della magistratura, al fine della definizione del contenzioso pendente in materia tributaria dinanzi alla Corte di Cassazione, possa nominare giudici ausiliari esclusivamente tra i magistrati ordinari in quiescenza da non più di due anni che abbiano svolto nella loro carriera effettive funzioni di legittimità per almeno dieci anni;
  • prevedere che il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria sia formato da undici componenti eletti dai giudici tributari togati e da quattro componenti eletti dal Parlamento, due dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, scelti per metà tra i Professori di Università in materie giuridiche o economiche, tra gli Avvocati, i Dottori Commercialisti ed i Consulenti del Lavoro iscritti all’Albo da oltre venti anni;
  • prevedere che la sede del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria sia stabilita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma;
  • il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria indica le cause di incompatibilità e di ineleggibilità ed i criteri per la relativa verifica, le regole relative alle elezioni dei giudici tributari togati, quelle per la valutazione dei candidati e delle liste elettorali, la sede delle operazioni elettorali, il periodo entro il quale deve avere termine la valutazione dei candidati e la promulgazione dell’elenco definitivo dei candidati alle elezioni, le regole per la proclamazione degli eletti, per la valutazione di eventuali reclami sull’eleggibilità e per l’assunzione delle funzioni;
  • il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, in corso alla data di entrata in vigore della presente legge delega, dovrà provvedere all’emanazione di tutti i Regolamenti di attuazione entro tre mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti delegati;
  • il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria indica le proprie attribuzioni ed i princìpi come Organo di Vigilanza sull’attività della magistratura tributaria, adottando anche le regole per le proprie convocazioni e deliberazioni;
  • prevedere che il personale amministrativo assegnato alle segreterie delle soppresse Commissioni tributarie provinciali e regionali transiti nei ruoli del personale amministrativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri e sia assegnato alla qualifica funzionale corrispondente a quella del personale adibito alle medesime funzioni, nonché prevedere che il transito del personale di cui al presente numero abbia luogo, per metà della consistenza effettiva, alla data di entrata in vigore del relativo decreto legislativo e, per la restante metà, decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge;
  • abrogare il decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 545 e apportare al decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 le modificazioni necessarie ad adeguarli alle disposizioni dei decreti legislativi di cui alla presente legge delega;
  • previsione di un limitato periodo transitorio di un anno intercorrente tra il momento in cui verrà indetto il primo concorso pubblico per i nuovi giudici tributari togati e l’insediamento di questi ultimi, nel quale:
  1. prevedere che le Commissioni tributarie provinciali e regionali esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge continuino ad operare per la definizione del contenzioso tributario relativo ai soli procedimenti iscritti prima della citata data di entrata in vigore;
  2. prevedere che, in ogni caso, le Commissioni tributarie provinciali e regionali cessino dalle loro funzioni decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, con riassegnazione dei procedimenti tributari ancora pendenti ai Tribunali tributari ed alle Corti di Appello tributarie;
  3. se sono magistrati, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del decreto o dei decreti delegati approvati, devono optare per la magistratura tributaria o per quella ordinaria, amministrativa, contabile o militare; in ogni caso, i magistrati conservano l’anzianità di servizio ai fini pensionistici, se optano per la magistratura tributaria;
  4. se non sono magistrati, i giudici tributari oggi in servizio devono optare per la magistratura tributaria o per quella onoraria;
  5. nel caso di cui alla lettera d), se optano per la magistratura tributaria, dovranno presentarsi a sostenere gli esami di idoneità alla nuova attività di giudice tributario se vorranno essere inclusi nei ruoli dei nuovi giudici togati, sostenendo l’esame scritto e trovando una sensibile agevolazione nel sostenimento dell’orale, oppure dovranno sostenere solo l’esame orale, senza sconti, di materie giuridiche, tributarie, processuali, contabili ed amministrative;
  6. nel caso di cui alla lettera d), se optano, invece, per la magistratura tributaria onoraria, proseguono la propria attività senza necessità di superamento di esami di ammissione, ma devono rispettare le tassative condizioni previste dalla presente legge delega e dal decreto o dai decreti delegati approvati;
  7. i giudici tributari onorari sono sempre tenuti alla formazione obbligatoria valida per tutti i giudici tributari e dovranno conseguire i crediti formativi necessari, a pena di decadenza dalla funzione di giudice tributario;
  • il decreto legislativo o i decreti legislativi devono entrare in vigore il 01 gennaio 2022.

5.5. Attuale stato dei lavori parlamentari e della Commissione interministeriale MEF-Giustizia in merito alla riforma della giustizia tributaria.

Per una maggiore chiarezza espositiva e per avere quadro completo delle proposte di legge inerenti la riforma strutturale della giustizia tributaria al vaglio del Legislatore, si segnalano le seguenti proposte e disegni di legge.

 

SENATO DELLA REPUBBLICA

Disegni di Legge

(assegnati alle Commissioni Seconda e Sesta)

 

  1. 243 VITALI ED ALTRI;

 

  1. 714 CALIENDO ED ALTRI;

 

  1. 759 NANNICINI ED ALTRI;

 

  1. 1243 ROMEO ED ALTRI;

 

  1. 1661 FENU ED ALTRI;

 

  1. 1687 MARINO.

 

CAMERA DEI DEPUTATI

 Proposte di Legge

(assegnate alla Commissione Seconda – Giustizia)

 

  1. 1521 MARTINCIGLIO;

 

  1. 1526 CENTEMERO ED ALTRI;

 

  1. 840 SAVINO;

 

  1. 2283 COLLETTI – VISCOMI;

 

  1. 2526 DEL BASSO – DE CARO.

 

In sintesi, gli undici progetti di legge sopra citati si possono distinguere in progetti che prevedono:

– la modifica con legge ordinaria della struttura della giustizia tributaria, abrogando il D.Lgs, n. 545/1992;

– una Legge Delega (come la citata Legge delega n. 23/2014);

– le modifiche con Legge ordinaria sia della struttura giudiziaria sia del processo tributario, abrogando il D.Lgs. n 545/1992 e modificando il D.Lgs. n. 546/1992.

Inoltre, lo stesso Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, nella seduta del 22 ottobre 2019, ha sollecitato la riforma della giustizia tributaria in base ai seguenti principi:

 

  1. la trasformazione del giudice speciale tributario in un giudice a tempo pieno, professionalmente competente, con un trattamento economico congruo e dignitoso, non più dipendente dal MEF e pienamente presidiato dai principi di imparzialità, terzietà ed indipendenza, come contemplati dall’art. 111, comma 2, della Costituzione;

 

  1. il completamento della revisione delle regole di diritto procedurale e sostanziale, mediante un provvedimento legislativo volto anche ad una generale definizione delle liti fiscali pendenti (c.d. pace fiscale).

 

In ultimo, per maggior completezza espositiva, si segnala che in data 12 aprile 2021, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, e la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, hanno firmato il decreto con cui viene istituita una commissione interministeriale sulla giustizia tributaria, con il compito di analizzare e formulare proposte di intervento, per far fronte al contenzioso arretrato e ridurre la durata dei processi.

La Commissione entro il 30 giugno 2021, presenterà ai Ministri una relazione sull’esito dei lavori svolti e le proposte di intervento formulate; tale “riforma strutturale”– si legge nella nota congiunta dei due Ministeri- rientra  rientra “tra le priorità d’azione indicate dal Governo ed è coerente con le indicazioni dell’Unione europea”.

Il coinvolgimento del Mef è dovuto al fatto che la giustizia tributaria rientra nelle competenze del Ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre il Ministero della Giustizia è coinvolto sul fronte del ricorso in Cassazione; giova segnalare il dato allarmante del contenzioso tributario presso la Suprema Corte che rappresenta una delle componenti principali dell’arretrato accumulato: 50.000 i ricorsi pendenti stimati a fine 2020, con una percentuale di riforma delle decisioni di appello del 45%.

Il dialogo appare fondamentale per sciogliere i nodi in capo alla Commissione interministeriale Mef- Giustizia per realizzare una riforma del contenzioso tributario «strutturale» ma allo stesso tempo snella, in linea con i principi del Piano nazionale di ripresa e resilienza del Governo di Mario Draghi.

La Commissione è composta da 16 componenti – tra magistrati ordinari e tributari, docenti universitari, professionisti e dirigenti dell’Amministrazione finanziaria e del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria- che devono avere come principale obiettivo della riforma l’istituzione della figura di un giudice tributario “professionalizzante”: terzo, imparziale, selezionato con pubblico concorso e adeguatamente retribuito.

Tale obiettivo, però, deve essere inserito in una riforma più ampia che attui degli interventi anche sulla fase del merito (nelle Ctp e Ctr) per diminuire l’afflusso di ricorsi in Corte di Cassazione, dove nel 2020 si è raggiunto un carico insostenibile (54mila pendenze), che rallenta le performance non solo della sezione tributaria.

Difatti, i continui ricorsi bagatellari – il 46,1% dei procedimenti presentati in Ctp e Ctr nel 2020 hanno un valore che non supera i tremila euro – non dovrebbero neanche arrivare in giudizio, ma essere definiti con istituti deflattivi appositamente potenziati, come la mediazione. Invece,queste cause di valore sostanzialmente irrilevante percorrono tutti i gradi di giudizio, arrivando fino alla Cassazione dove – per l’ampio numero di arretrati – si fermano anche per 3-4 anni. Il risultato è una giustizia fiscale in stallo, con una gravosa incidenza sul mondo dell’impresa.

Inoltre, la riforma della giustizia tributaria non può essere sganciata da una riforma sistemica fiscale.

5.6. Conclusioni

In conclusione, si osserva che la riforma della giustizia tributaria, necessaria per dare attuazione al PNRR, dovrà essere un’opera di raccolta e razionalizzazione della attuale caotica legislazione fiscale in un Testo Unico, integrato e coordinato con le disposizioni normative speciali, da far a sua volta confluire in un unico Codice Tributario.

Difatti, vige una giungla di 800 leggi fiscali da sfoltire per semplificare tasse e dichiarazioni (oggi, per esempio, sono necessarie 64 pagine di istruzioni per il quadro RU).

La necessaria ed urgente riforma strutturale della giustizia tributaria deve correggere le attuali anomalie esistenti, che pregiudicano il diritto di difesa dei contribuenti.

Come ampiamente esposto nella presente relazione, ciò può essere realizzato tenendo in considerazione le direttrici di fondo esposte nel precedente paragrafo, attuando in via principale una

totale sostituzione degli attuali giudici tributari con i giudici professionali, consentendo di raggiungere gli obiettivi di autonomia, indipendenza e professionalità previsti dagli arttt. 106, 108 e 111 della Costituzione.

I tempi sono maturi per la radicale ed urgente riforma strutturale della giustizia tributaria, ormai un passaggio necessario per una giustizia tributaria a tutela dei diritti costituzionali del contribuente.

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Note

[1] DE MITA E., Contributo unificato iniquo per il processo tributario, in “NORME E TRIBUTI”, Sole 24 ore del 13 novembre 2016, p.15.

[2] ibidem

Avv. Villani Maurizio

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