La circolazione delle decisioni giudiziarie nel sistema del regolamento Bruxelles I bis – Seconda Parte

Redazione 16/04/19
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di Michele Angelo Lupoi*

* Associato dell’Università di Bologna

Sommario

8. L’adattamento del titolo straniero

9. L’opposizione all’esecuzione e i relativi motivi

10. (Segue) Coordinamento tra procedura esecutiva ed opposizione

11. Regole procedimentali uniformi

12. Quali regole procedurali sono applicate in Italia al procedimento di opposizione?

13. Uno sguardo al futuro (non necessariamente tranquillizzante)

8. L’adattamento del titolo straniero

L’art. 43 introduce una nuova disposizione di diritto processuale uniforme in relazione alle attività prodromiche all’inizio dell’esecuzione nello Stato di una decisione emessa in un altro Stato membro. Per garantire che il debitore abbia avuto conoscenza di tale decisione (e dunque la possibilità di opporvisi o contestarla), si richiede dunque la previa notifica o comunicazione al debitore dell’attestato rilasciato ai sensi dell’art. 53, unitamente alla decisione qualora questa non sia già stata notificata o comunicata. Per l’Italia, questo adempimento sostituisce la notifica del titolo esecutivo. Il considerando 32 mette in evidenza che l’attestato rilasciato ai sensi del regolamento, eventualmente corredato della decisione, dovrebbe essere notificato o comunicato alla persona in tempo ragionevole anteriormente alla prima misura di esecuzione, specificando che, in questo contesto, per prima misura di esecuzione dovrebbe intendersi la prima misura di esecuzione dopo la notifica o comunicazione.

La decisione non deve necessariamente essere tradotta nella lingua dello Stato d’esecuzione. Il para. 2, in effetti, prevede che il debitore possa richiedere tale traduzione qualora sia domiciliato in uno Stato membro diverso da quello dello Stato d’origine, qualora la decisione non sia redatta in una lingua a lui conosciuta ovvero nella lingua ufficiale dello Stati membro in cui è domiciliato. La tutela “linguistica” del debitore è attuata prevedendo che sinché quest’ultima non abbia ricevuto la traduzione della decisione (anche prima dell’inizio dell’esecuzione, come si desume dalla parte finale del para. 2), non possa essere attuata alcuna misura esecutiva[1]. In tale lasso di tempo è possibile attuale solo misure cautelari[2]. Le garanzie di rapidità sottese all’esecuzione di un provvedimento cautelare (emesso anche ai sensi dell’art. 40, sulla base della mera esecutività della decisione straniera) hanno peraltro indotto il legislatore europeo ad escludere in tal caso l’onere di traduzione della decisione in questione (para. 3)[3].

Una disposizione di diritto processuale uniforme è contenuta anche all’art. 54, che si occupa dell’ipotesi in cui la decisione straniera contenga un provvedimento ignoto alla legge dello Stato membro richiesto. In tal caso, il provvedimento in questione deve essere adattato, nella misura del possibile[4], a un provvedimento previsto dalla legge dello Stato di esecuzione che abbia efficacia equivalente e che persegua obiettivi e interessi analoghi. In altre parole, l’autorità esecutiva locale si dovrà sforzare di adattare tale decisione a quella più simile prevista dalla lex fori, quanto ad efficacia e ad obiettivi ed interessi perseguiti[5]. Ai sensi del considerando 28, ogni singolo Stato membro ha la prerogativa di determinare le modalità e i soggetti competenti per l’adattamento in questione. Da questo punto di vista, le indicazioni contenute nell’attestato rilasciato ai sensi dell’art. 53 dovrebbero fornire utili punti di riferimento. In generale, si osserva che la ricerca dovrebbe avere ad oggetto le “peculiarità funzionali” dei modelli previsti per i provvedimenti giudiziari e le relative finalità[6].

La norma, peraltro, chiarisce che, da tale adattamento, non possono derivare effetti che vanno oltre quelli previsti dalla legge dello Stato membro d’origine. Si tratta di un’importante precisazione, per eliminare ogni dubbio in merito al fatto che l’ambito oggettivo dell’esecuzione del provvedimento straniero è governato dalla legge dello Stato d’origine.

E’ pure previsto un “controllo” sull’adattamento del titolo esecutivo straniero: e, infatti, qualsiasi parte (il creditore, il debitore e pure, eventualmente, un terzo coinvolto nell’esecuzione) può impugnare il relativo provvedimento davanti a un’autorità giurisdizionale. In Italia, l’impugnazione in questione dovrebbe prendere la forma dell’opposizione agli atti esecutivi[7]. Non si può escludere, peraltro, che, in determinate ipotesi, si possa prospettare pure il ricorso all’opposizione (di terzo) all’esecuzione, come ad esempio nel caso in cui l’adattamento disposto dal giudice riguardi la (im)pignorabilità di un determinato bene o la (in)coercibilità di un obbligo di fare o non fare.

[1] V. Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 192.

[2] Per Farina, in www.aldricus.com, si tratta di un meccanismo farraginoso.

[3] V. Sandrini, op. ult. cit., p. 615 ss., che osserva che l’esigenza di informare compiutamente la controparte sorge solo in relazione agli atti propriamente esecutivi e riguardo alle misure meramente conservative.

[4] Come osserva Leandro, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 614, tale inciso “dà l’idea che l’adattamento può essere infruttuoso (…). Ma lo stesso inciso appare esortativo di una ricerca attenta e capillare prima di escludere l’adattamento”.

[5] Per Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 197, peraltro, l’adattamento sarebbe onere dell’esecutante e, nel diritto italiano, il luogo di tale adattamento sarebbe l’atto di precetto, che può delineare il contenuto del dare, del fare o del non fare di cui si domanda l’attuazione forzata.

[6] Leandro, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 614.

[7] Così pure Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 197

9. L’opposizione all’esecuzione e i relativi motivi

Come si è anticipato, il regolamento n. 1215 continua ad ammettere la possibilità di opporsi, nello Stato ad quem, al riconoscimento e all’esecuzione, contestando la sussistenza di uno o più dei motivi ostativi previsti dalla normativa comune europea. La principale differenza rispetto al passato è che, in materia di esecuzione, il debitore non debba più proporre opposizione al decreto di esecutività previamente ottenuto dal creditore ma, piuttosto, formulare un’istanza diretta di diniego di esecuzione (art. 46). Si è, in sostanza, invertito l’onere di impulso processuale, spostandolo dal creditore al debitore.

La norma che disciplina i motivi di diniego del riconoscimento della decisione straniera è oggi l’art. 45, che prevede l’istanza di ogni parte interessata (e dunque non necessariamente solo un soggetto che abbia partecipato al procedimento nello Stato d’origine) e, nella sostanza, riproduce i motivi (tassativi)[8] già previsti dagli art. 34 e 35 di Bruxelles I[9].

Senza poter entrare qui nei dettagli di ciascuno specifico motivo, in particolare, la lettera a) fa riferimento alla manifesta contrarietà del riconoscimento all’ordine pubblico dello Stato “ospite”. Invero, questo motivo di esclusione (da interpretare comunque in modo restrittivo)[10], sul piano sostanziale, ha sempre avuto un’applicazione limitata, nella materia civile e commerciale coperta dal regolamento Bruxelles I / I bis, tanto che alcuni ne avevano invocato l’abrogazione nel passaggio dalla convenzione del 1968 al regolamento del 2001. Tale opzione non è stata accolta, ma, come noto, è stato specificato che la contrarietà all’ordine pubblico debba essere manifesta.

Va rilevato che, in tempi recenti, in un clima politico più euroscettico e a fronte di una crisi di quella fiducia reciproca su cui si fonda lo spazio europeo di giustizia, l’eccezione di ordine pubblico è stata, in qualche modo, riabilitata[11]. Essa, in particolare, è stata intesa non come un ossimoro giuridico rispetto al principio del riconoscimento automatico, bensì come strumento per valorizzare, nel caso concreto, la fiducia reciproca tra gli Stati membri. In altre parole, proprio permettendo a ciascuno Stato membro di non recepire valori giuridici stranieri in insanabile contraddizione con i propri valori fondamentali si può superare il sospetto tra gli ordinamenti e valorizzare le specificità di ciascuno di essi.

Alla lettera b), viene in rilievo la mancata notifica o comunicazione dell’atto introduttivo del giudizio al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da permettere a quest’ultimo di presentare le proprie difese, eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, questi non abbia impugnato la decisione. In effetti, l’attuale formulazione dell’art. 45 lett. b) riprende la giurisprudenza della Corte di giustizia che, in precedenza, aveva affermato che il riconoscimento o l’esecuzione di una decisione pronunciata in contumacia non potessero essere negati qualora il convenuto avesse potuto proporre un ricorso avverso la decisione pronunciata in contumacia e tale ricorso gli avesse consentito di far valere che la domanda giudiziale o l’atto equivalente non gli era stato notificato o comunicato in tempo utile e in modo tale che egli potesse presentare le proprie difese[12].

Le lett. c) e d) riguardano, invece, il contrasto tra decisioni[13], ovvero uno dei motivi classici che possono escludere l’ingresso in uno Stato della decisione emessa in uno Stato diverso. Vengono, in particolare, in rilievo il contrasto con una decisione precedentemente pronunciata nello Stato richiesto e il contrasto con una decisione pronunciata tra le medesime parti in uno Stato membro diverso o in uno Stato terzo, se tale previa decisione sia passibile di riconoscimento nello Stato richiesto.

Il rischio di provvedimenti contrastanti emessi da giudici di diversi Stati membri è stato da sempre oggetto di particolari attenzioni nella normativa uniforme europea sulla giurisdizione e la circolazione delle decisioni in materia civile e commerciale. Sin dalla convenzione di Bruxelles del 1968, infatti, si sono individuati meccanismi processuali per prevenire, superare e coordinare situazioni di contemporanea pendenza in Stati membri diversi della stessa causa o di cause connesse.

In particolare, come ben noto, sin dal 1968, la litispendenza “europea” è stata risolta con un meccanismo di prevenzione temporale secca, di rigida applicazione quanto di amplia portata, in particolare sul piano oggettivo della nozione di identità di causa.

Il regolamento n. 1215, cercando di dare soluzione ad alcuni aspetti problematici di tale meccanismo di prevenzione secca, potrebbe peraltro avere gettato il seme per un aumento di decisioni contrastanti.

In materia di litispendenza, infatti, il para. 2 dell’art. 31 introduce una deroga al criterio della prevenzione secca, per l’ipotesi in cui il giudice adito per primo sia diverso da quello scelto contrattualmente delle parti. Fatta salva l’applicazione dell’art. 26 (sull’accettazione tacita della giurisdizione da parte del convenuto che si costituisce senza nulla contestare), si prevede dunque, che, qualora sia adito il giudice di uno Stato membro dotato di competenza esclusiva in forza di un accordo ex art. 25, qualunque giudice di un altro Stato membro[14] è tenuto a sospendere il procedimento fino a quando il giudice adito sulla base dell’accordo dichiara di non essere competente ai sensi dell’accordo stesso. Con tale previsione, in sostanza, si priva il giudice adito per primo del potere di pronunciarsi sulla validità e l’efficacia di una clausola di scelta delle corti di un altro Stato membro.

La norma si applica a condizione che, dopo la proposizione della causa in un foro diverso da quello scelto dalle parti, essa sia “duplicata” nel foro “contrattuale”, al quale, a questo punto, la corte previamente adita deve cedere il passo, sospendendo il procedimento, per quanto attiene la decisione sulla validità, l’efficacia e l’ambito della clausola di proroga. Una volta poi che il giudice indicato dalla clausola abbia affermato la propria giurisdizione, il giudice concorrente, ancorché adito per primo ai sensi del para. 3, dovrà dichiararsi incompetente.

Nell’ipotesi contemplata dalla disposizione in esame, peraltro, il giudice indicato nella clausola, una volta adito, deve potersi pronunciare sulla validità e sulla efficacia della clausola stessa a prescindere dal fatto che il giudice adito per primo abbia già deciso di sospendere il procedimento (così recita il considerando 22). Si giunge così a contemplare la possibilità che entrambi i processi procedano per la propria strada e conducano a un conflitto di decisioni. A decisioni contrastanti si può giungere anche qualora il primo giudice ritenga “prima facie” inesistente un accordo di cui all’articolo 23 e decida di non sospendere il suo procedimento. Il giudice adito per secondo, per contro, potrà giungere a valutazioni discordanti e a sua volta fare procedere il giudizio instaurato avanti a sé, in applicazione dell’art. 31.

In altre parole, tentando di risolvere un problema, il legislatore europeo potrebbe averne prodotto un altro. D’altro canto, sulla base di una valutazione prognostica, le situazioni problematiche non dovrebbero superare quelle in cui l’art. 31 sarà applicato in modo corretto da entrambi i giudici coinvolti. Anche su questo piano, peraltro, viene messa alla prova la fiducia reciproca su cui si fonda lo spazio giudiziario europeo.

Infine, alla lettera e), si prevede un (limitato) controllo del giudice dello Stato di esecuzione rispetto alla corretta applicazione di (specifiche) norme sulla giurisdizione da parte del giudice di origine. Il controllo sulla c.d. competenza indiretta, in particolare, viene in rilievo qui rispetto alle disposizioni del capo II, sez. 3, 4 e 5 nella misura in cui il contraente dell’assicurazione, l’assicurato, il beneficiario di un contratto di assicurazione, la parte lesa, il consumatore o il lavoratore sia il convenuto; ovvero con le disposizioni del capo II, sez. 6. In sostanza il riconoscimento o l’esecuzione possono essere rifiutati se il giudice d’origine abbia violato le norme del regolamento in materia di contratti di assicurazione o conclusi dai consumatori o di lavoro dipendente[15] nonché i criteri di competenza esclusiva dell’art. 24. Fuori da queste ipotesi, il divieto di riesame della giurisdizione del primo giudice, anche sul piano dell’ordine pubblico, resta assoluto.

Il considerando 29, inoltre, sul presupposto che l’esecuzione diretta nello Stato membro richiesto di una decisione emessa in un altro Stato membro senza dichiarazione di esecutività non dovrebbe compromettere il rispetto dei diritti della difesa, afferma che tra i motivi per chiedere in rigetto dell’esecuzione dovrebbe figurare anche la mancata possibilità di presentare le proprie difese qualora la decisione sia stata resa in contumacia nell’ambito di un’azione civile collegata a un procedimento penale nonché i motivi che possono essere invocati sulla base di un accordo tra lo Stato membro richiesto e uno Stato terzo a norma dell’art. 59 convenzione di Bruxelles del 1968.

Anche nel nuovo sistema, si conferma, in ogni caso, che la decisione straniera non può essere riesaminata nel merito in sede di riconoscimentoopposizione all’esecuzione in un altro Stato membro (art. 52).

[8] La Corte di giustizia, nel regime del regolamento n. 44, ha, infatti, escluso che il giudice adito possa negare o revocare la dichiarazione di esecutività di una decisione per un motivo diverso da quelli espressamente indicati dal reg. stesso (come ad esempio, nella fattispecie, l’esecuzione della decisione stessa nello Stato membro d’origine: v. Gorte giust., c. Prism Investments BV c. van der Meer.

[9] Per Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 194, tale identità ha reso meno efficace l’abolizione dell’exequatur.

[10] V., ad esempio, i casi Hendrikman, Régie nationale des usines Renault, Krombach.

[11] Guarnieri, op. cit., p. 183, ne parla in termini di baluardo attorno al quale è costruita la difesa dell’identità di ciascuno Stato membro. V. anche Requejo Isidro, On the abolition of exequatur, cit., p. 286 ss., per la quale, a p. 287, l’eccezione dell’ordine pubblico “works to protect and to increase mutual trust”.

[12] C. Apostolids c. Orams. Al riguardo, la Corte aveva pure osservato che si può esperire un ricorso contro una decisione solo se l’autore del ricorso abbia avuto la possibilità di conoscere il contenuto della stessa, mentre la semplice conoscenza dell’esistenza di questa non è a tal fine sufficiente: ed in effetti, perché il convenuto abbia la possibilità di esperire un ricorso efficace che gli consenta di far valere i propri diritti, occorre che egli possa prendere cognizione della motivazione della decisione contumaciale per poterla contestare utilmente. Poiché, dunque, la norma qui in esame non implica che il convenuto sia tenuto ad attivarsi oltre la misura della normale diligenza nella tutela dei propri diritti (per esempio informandosi del contenuto di una decisione adottata in un altro Stato membro), ne consegue che, per considerare che il convenuto contumace abbia avuto la possibilità di impugnare una decisione contumaciale emessa contro di lui, egli deve aver avuto conoscenza del contenuto di tale decisione, il che presuppone che questa gli sia stata notificata o comunicata, ancorché in modo irregolare ma tuttavia in tempo utile per consentirgli di presentare le sue difese dinanzi al giudice dello Stato di origine (caso ASML Netherlands).

[13] Situazione che si verifica quando dalle due decisioni derivino conseguenze giuridiche che si escludono reciprocamente: Corte giust., c. Hoffman.

[14] Ancorchè adito sulla base di un titolo di giurisdizione stabilito dal diritto interno: Villata, L’attuazione degli accordi, cit., p. 151.

[15] Il riferimento alle norme sulle controversie in materia di lavoro dipendente è una novità del regolamento n. 1215.

10. (Segue) Coordinamento tra procedura esecutiva ed opposizione

Del coordinamento tra l’immediata eseguibilità della decisione straniera e la possibilità per il debitore di chiedere il rigetto della relativa esecuzione ai sensi della successiva sez. 3 si occupa l’art. 44. Si prevede in particolare che, dopo la proposizione di tale istanza, il giudice dello Stato membro richiesto possa:

a) limitare il procedimento a misure cautelari: in sostanza, per bilanciare gli interessi contrapposti delle parti, si possono disporre misure provvisorie (ad esempio, di natura conservativa) senza ancora compiere i veri e propri atti esecutivi (ad esempio, il pignoramento e la vendita dei beni del debitore);

b) subordinare l’esecuzione alla costituzione di una garanzia (la “cauzione” del diritto italiano);

c) sospendere il procedimento di esecuzione. L’applicazione della norma presuppone un coordinamento tra la procedura esecutiva e il giudizio relativo al diniego dell’esecuzione che potrà realizzarsi, in Italia, solo su istanza della parte interessata (di norma, il debitore).

Il para. 2, inoltre, prevede che il procedimento di esecuzione sia sospeso se l’esecutività della decisione sia sospesa nello Stato membro di origine. Anche in questo caso, si presuppone l’istanza della parte interessata, che dovrà fornire la prova di tale “sospensiva”.

11. Regole procedimentali uniformi.

Nella tradizione della convenzione del 1968 e del regolamento n. 44, neppure il regolamento n. 1215 detta regole uniformi sul procedimento per il riconoscimento o per l’opposizione all’esecuzione di un provvedimento emesso in un altro Stato membro: la normativa europea si limita a disciplinare aspetti specifici, come i documenti da allegate all’istanza[16], lasciando poi ad ogni Stato l’individuazione del modello procedurale applicabile.

In effetti le norme comuni europee continuano a limitarsi.

Pur senza menzionarlo espressamente, il sistema comune europeo presuppone che il procedimento si svolga nel contraddittorio tra le parti, come si desume dal riferimento alla “domanda”, alla possibilità di agire per il riconoscimento o il diniego al riconoscimento, alla legittimazione ad impugnare riconosciuta ad ogni parte e così via[17].

Per quanto riguarda la competenza, in base a quanto previsto dagli artt. 47 e 75, lett. a), l’Italia ha indicato come organo giudiziario di riferimento il Tribunale (superando una storica tradizione che vede nella Corte d’appello il giudice – di primo e unico grado – competente in materia di “vaglio” delle decisioni straniere).

Si tratta di una competenza funzionale, che ha come oggetto l’accertamento delle situazioni che, in base al diritto comune europeo, escludono il riconoscimento o l’esecuzione di una decisione straniera nello Stato.

I motivi di opposizione all’esecuzione relativi all’efficacia del titolo straniero, d’altro canto, come si è visto, possono cumularsi (senza confondersi) con quelli più schiettamente collegati al diritto ad agire in executivis ai sensi dell’art. 615 c. p. c. Tale sovrapposizione è espressamente prevista dal considerando n. 30, che comunque chiarisce che i motivi “interni” non possono essere usati per negare il riconoscimento in quanto tale. In altre parole, al giudice dello Stato di esecuzione resta precluso qualsiasi riesame nel merito della decisione straniera (ad esempio, rispetto alla originaria esistenza del credito fatto valere o alla legittimazione attiva o passiva delle parti coinvolte). In sede di opposizione all’esecuzione potranno però essere fatti valere motivi estintivi, modificativi o impeditivi di tale diritto venuti in essere successivamente al formarsi del titolo e compatibilmente con l’onere (e la possibilità) per la parte interessata di fare valere tali fatti nello Stato d’origine, ad esempio, in sede di impugnazione.

A questo riguardo, si pone il dubbio se il giudice competente funzionalmente al riconoscimento dell’efficacia nello Stato del titolo straniero possa avere “per attrazione” la competenza anche sui motivi di opposizione derivanti dalla contestazione del diritto ad agire in via esecutiva oppure se si debba configurare una scissione di competenze tra giudice dell’opposizione alla efficacia del titolo straniero e giudice dell’opposizione all’esecuzione tradizionale, ove non coincidenti[18].

In alcuni ordinamenti, in effetti, sono attribuite competenze diverse per i due diversi profili e questo crea il rischio di procedimenti paralleli[19]. In Italia, avere individuato come giudice dell’opposizione all’esecuzione ai sensi del regolamento il Tribunale riduce la rilevanza pratica della questione. Questione che, però, si può porre, ad esempio, in caso di opposizione a precetto su cui, in base ai criteri ordinari, sia competente il Giudice di pace. Per tale strada, si può configurare anche nel nostro ordinamento un concorso di procedimenti afferenti a due diversi profili, con la conseguente necessità di disporre meccanismi di coordinamento per evitare pronunce contrastanti.

Anche nel regolamento Bruxelles I bis, come già nell’art. 41 di Bruxelles I, si dispone che la parte che chiede il diniego dell’esecuzione di una decisione emessa in un altro Stato membro non è obbligata ad avere un recapito postale nello Stato membro richiesto, né è tenuta ad avere un rappresentante autorizzato nello Stato membro richiesto, a meno che tale rappresentante sia obbligatorio indipendentemente dalla cittadinanza o dal domicilio delle parti. In questo modo si garantisce parità di trattamento tra creditore e debitore.

L’art. 48, dal canto suo, prevede che l’autorità giurisdizionale dello Stato richiesto statuisce sulla domanda di diniego dell’esecuzione senza indugio. Si tratta evidentemente di una norma programmatica, che sollecita il giudice nazionale a provvedere sull’istanza il più rapidamente possibile, magari creando corsie privilegiate per la trattazione e la decisione di queste istanze. La norma, peraltro, fornisce all’interprete anche un importante fattore di valutazione ai fini dell’individuazione del modello procedimentale da applicare in questo contesto: sul punto v. infra[20].

L’art. 51, inoltre, prevede la sospensione (facoltativa)[21] del procedimento (anche di impugnazione: v. infra) per l’ipotesi in cui la decisione straniera sia stata impugnata con un mezzo di impugnazione ordinario nello Stato d’origine (o se il termine per una tale impugnazione non sia ancora decorso). In quest’ultimo caso, l’autorità giurisdizionale può fissare un termine entro il quale l’impugnazione deve essere depositata.

Ai sensi dell’art. 49, d’altro canto, la decisione emessa sull’istanza di riconoscimento o di opposizione all’esecuzione può essere impugnata. In Italia, coerentemente con la scelta del giudice di prima istanza, tale impugnazione va proposta in Corte d’appello.

Per la prima volta, inoltre, il legislatore ha previsto un’ulteriore (ed eventuale) grado di giudizio, per l’impugnazione della decisione emessa sulla prima impugnazione: ai sensi dell’art. 50, tale ulteriore riesame è possibile unicamente dietro indicazione dello Stato membro interessato alla Commissione, ex art. 75, lett. c). Tradizionalmente, nel diritto italiano, non si prevede un terzo livello di giudizio in materia di riconoscimento di decisioni straniere: in questo contesto, però, si è confermata (anche per coerenza con il precetto dell’art. 111, comma 7° Cost.) la possibilità di ulteriormente impugnare la decisione della Corte d’appello in Cassazione.

[16] Ai sensi dell’art. 47, para. 3, una copia della decisione e, se necessario, una traduzione o traslitterazione della stessa. Tale produzione non è peraltro sempre necessaria: l’istante può esserne dispensato se la corte ne sia già in possesso oppure se sia irragionevole chiedere al richiedente di ottemperarvi. In questo caso, il giudice adito può chiedere il deposito di tali documenti all’altra parte (ovvero il creditore). Ai sensi dell’art. 57, 1. Le traduzioni o le traslitterazioni richieste ai sensi del presente regolamento sono effettuate nella lingua ufficiale dello Stato membro interessato oppure, ove tale Stato membro abbia più lingue ufficiali, nella lingua ufficiale o in una delle lingue ufficiali dei procedimenti giudiziari del luogo in cui è invocata una decisione emessa in un altro Stato membro o in cui è presentata la domanda, conformemente alla legge di quello Stato membro. Ai fini dei moduli di cui agli artt. 53 e 60, le traduzioni o le traslitterazioni possono essere altresì effettuate in qualunque altra lingua ufficiale delle istituzioni dell’Unione che lo Stato membro interessato abbia dichiarato di accettare. Qualsiasi traduzione ai sensi del regolamento n. 1215 è effettuata da una persona a tal fine abilitata in uno degli Stati membri.

[17] V. anche Leandro, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 619.

[18] Su questo dilemma v. Leandro, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 622.

[19] V. Linton, op. cit., p. 280.

[20] V. pure Leandro, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 619,

[21] Per Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 194, il giudice del paese di destinazione deve compiere al riguardo una sommaria delibazione sia sulla fondatezza dei motivi di opposizione, sia sul contenuto della decisione estera.

12. Quali regole procedurali sono applicate in Italia al procedimento di opposizione?

In Italia, rispetto al sistema di Bruxelles I, dottrina e giurisprudenza erano giunte a ritenere che il procedimento per il riconoscimento o l’esecuzione seguisse le forme del rito ordinario, per quanto strutturato secondo modalità lato sensu riferibili al procedimento monitorio (e alla relativa opposizione) per l’ipotesi della richiesta di exequatur. Rispetto al riconoscimento, dunque, si riteneva che la domanda introduttiva dovesse avere la forma della citazione[22], mentre l’opposizione all’exequatur veniva assimilata, sul piano procedimentale, all’opposizione a decreto ingiuntivo[23]: anche qui, in effetti, il debitore era chiamato a “contestare” un provvedimento emesso nei suoi confronti inaudita altera parte. Non si riteneva, peraltro, inammissibile la proposizione della domanda con ricorso, purché l’atto fosse notificato alla controparte entro i termini perentori all’uopo previsti[24]. Tale soluzione interpretativa, probabilmente obbligata de iure condito, implicava tempistiche particolarmente lunghe per l’esperimento di un procedimento ordinario dinanzi alla Corte d’appello.

Oggi, però, i termini della questione sono cambiati.

L’art. 30 del decreto legislativo n. 150 del 2011 (sulla c.d. semplificazione dei riti), dal 7 ottobre 2011, prevede l’applicazione del rito sommario di cognizione (o meglio del modello ad hoc di tale rito tratteggiato dalla normativa speciale) alle “controversie aventi ad oggetto l’attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria di cui all’articolo 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218”. E’ stata così colmata una lacuna della legge di riforma del diritto internazionale privato e processuale la quale, in effetti, non aveva esplicitato il modello procedimentale da applicare al procedimento per il riconoscimento e l’esecuzione di una sentenza straniera. La scelta del legislatore del 2011 è innovativa perché in precedenza, per via interpretativa, il modello procedurale di riferimento era stato individuato nel processo ordinario di cognizione[25], introdotto con citazione[26] e definito con sentenza collegiale. Il decreto legislativo del 2011 ha dunque cambiato rotta, in favore di un rito più deformalizzato e snello, con una valutazione generale ed astratta circa la tendenziale semplicità istruttoria dei procedimenti in questione. La relazione di accompagnamento al decreto, in effetti, afferma che le controversie in questione sono state ricondotte al rito sommario di cognizione, aderendo all’indicazione in tal senso formulata dalle competenti commissioni parlamentari, in espressa considerazione del fatto che esso, nel suo pratico svolgimento, è caratterizzato da un thema probandum semplice, cui consegue ordinariamente un’attività istruttoria breve, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte o delle questioni giuridiche da trattare e decidere.

Per quanto ci interessa qui, parte della dottrina, dopo l’entrata in vigore del decreto n. 150, per cercare di proporre una soluzione più efficiente alla questione, si è espressa a favore dell’applicazione del modello sommario semplificato anche ai procedimenti di opposizione previsti dai vari regolamenti europei quando essi abbiano ad oggetto l’accertamento della (in)esistenza dei requisiti ostativi al riconoscimento e alla esecuzione di provvedimenti giurisdizionali civili pronunciati da giudici di un diverso Stato[27], dal momento che si tratta delle regole procedimentali previste in via generale dall’ordinamento italiano per risolvere tale tipo di questioni.

Il problema si pone poiché, come si è visto, le normative regolamentari in questo ambito si limitano a prevedere i principi fondamentali e le norme strutturali del sistema europeo di circolazione delle decisioni nei vari contesti, lasciando poi agli Stati membri il compito di completare tale struttura, con le disposizioni processuali di dettaglio: purtroppo, sinora, il legislatore italiano non ha mai dettato norme integrative delle discipline generali europei, creando, con tale criticabile insensibilità, dubbi interpretativi di un certo rilievo: in effetti, dove altri ordinamenti si sono premutati di introdurre discipline specifiche di raccordo, l’Italia non ha ancora saputo o voluto disporre interventi di tal tipo, rimettendo agli operatori e agli interpreti la determinazione delle regole procedurali di riferimento.

Si afferma che l’estensione della disciplina del nuovo rito sommario al riconoscimento delle sentenze eurounitarie sarebbe sorretta da argomenti “plurimi”[28]. Si è osservato, ad esempio, che appare ormai obsoleta ed ingombrante la scelta del rito deputato alla tutela di merito dei diritti soggettivi rispetto a un procedimento in cui il giudice è chiamato a un mero controllo estrinseco circa la regolarità procedurale della sentenza straniera, in un contesto che viene qualificato di giurisdizione oggettiva[29]. In quest’ottica, anzi, si mostrerebbe irragionevole assoggettare il controllo sulle decisioni provenienti dagli altri Stati membri (e soggette a minori “limiti” di accesso) a un rito come quello ordinario, prevedendo invece un rito più informale per le sentenze degli Stati terzi[30]. In tale linea di pensiero, si ritiene che la “rubrica” dell’art. 30 non ne vincoli l’ambito applicativo, considerando troppo formalistico il richiamo al riguardo della massima “ubi lex voluit”[31]. La posizione qui in esame, in effetti, non ritiene l’art. 30 del decreto del 2011 una norma a natura eccezionale ai sensi dell’art. 14 disp. prel. c. c.: nulla dunque ne impedirebbe un’applicazione estensiva, anche per via analogica. D’altro canto, come è stato rilevato, vi è omologia tra procedimenti aventi tutti ad oggetto l’accertamento dei requisiti di riconoscibilità di provvedimenti stranieri, con una lacuna da colmare rispetto alle decisioni coperte dai regolamenti europei[32].

Chi scrive condivide la tesi interpretativa appena analizzata: essa, infatti, garantisce l’attuazione del principio di equivalenza tra la tutela interna e quella europea a situazioni analoghe[33], eliminando una evidente disparità di trattamento processuale a svantaggio della seconda. Peraltro, una volta che di tale interpretazione si siano accettati i presupposti teorici, essa appare agevolmente applicabile a tutti quei procedimenti di riconoscimento ed esecuzione previsti dai regolamenti europei per i quali l’Italia ha indicato la competenza della Corte d’appello[34]. In tali casi, in effetti, l’applicazione dell’art. 30 del decreto n. 150 è del tutto lineare.

Un discorso a parte va fatto rispetto al regolamento n. 1215 del 2012 di cui si parla in queste pagine.

Anche tale regolamento si limita a stabilire alcune regole quadro ad hoc, lasciando poi ad ogni Stato l’individuazione del modello procedurale applicabile al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni provenienti dagli altri Stati membri. Tra tali “norme quadro”, ho già segnalato l’art. 48, alla cui stregua l’autorità giurisdizionale dello Stato richiesto statuisce sulla domanda di diniego dell’esecuzione senza indugio, anticipando che tale norma fornisce all’interprete italiano anche un importante fattore di valutazione ai fini dell’individuazione del modello procedimentale da applicare in questo contesto.

E’ vero che il regolamento n. 1215 ha eliminato il procedimento di exequatur: è dunque venuto meno, nella materia civile e commerciale, il richiamo analogico al procedimento monitorio, strutturato con una fase inaudita altera parte ed una successiva di opposizione.

Nel nuovo regime, piuttosto, come si è visto, si prospetta la possibilità, per il debitore, di proporre opposizione all’esecuzione della decisione straniera, proponendo quello che si configura come un procedimento di accertamento negativo, di cui, però, il regolamento n. 1215 non detta alcuna disciplina specifica. Nel nuovo sistema, inoltre, è venuta meno la competenza della Corte d’appello a pronunciarsi in materia di riconoscimento e di opposizione all’esecuzione.

La disciplina del regolamento n. 1215 è peraltro successiva all’art. 30 del decreto n. 150. Quest’ultima norma non ha natura eccezionale e il “sotto-rito” dalla stessa enucleato può essere elevato a modello di riferimento per ogni situazione processuale in cui, in mancanza di norme ad hoc, si debba esaminare la sussistenza o la mancanza di elementi ostativi all’ingresso nel nostro ordinamento di decisioni giudiziarie straniere.

In sostanza, nel contesto del regolamento n. 1215 del 2012, è possibile prospettare un ulteriore “sotto-rito” rispetto a quello previsto dall’art. 30 del decreto n. 150 e in cui il modello sommario semplificato non è seguito avanti alla Corte d’appello bensì avanti al Tribunale, per le opposizioni all’esecuzione della decisione straniera proposte dal debitore per fare valere la sussistenza di uno dei motivi di diniego di cui all’art. 45.

Tale soluzione interpretativa consente, in effetti, di dare attuazione al disposto dell’art. 48 del regolamento (v. supra), essendo evidente che il rito sommario abbia tempistiche ben più celeri rispetto a quello ordinario.

[22] Cass., sez. un., 12 gennaio 2010, n. 253, in Giust. civ., 2011, 1, I, p. 227; Campeis, De Pauli, La disciplina europea del processo civile italiano, Padova, 2005, p. 401.

[23] Cass., 1 agosto 1997, n. 7151, in Riv. dir. int.. priv. proc., 1998, p. 570.

[24] Cass., 12 gennaio 2010, n. 253, cit.

[25] Cass., 14 gennaio 2003, n. 365, in Riv. dir. int.. priv. proc., 2003, p. 201. Si escludeva, invece, l’applicazione delle norme del procedimento camerale: App. Ancona, 21 luglio 1999, in Riv. dir. int. priv. proc., 2000, p. 169; contra App. Venezia, 9 aprile 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 890; App. Napoli, 14 gennaio 1998, in Giur. nap., 1998, p. 122.

[26] App. Perugia, 10 gennaio 2002, decr., in Riv. dir. int. priv. proc., 2003, p. 218; App. Venezia, 26 novembre 1997, in Dir. com. sc. int., 1998, p. 233.

[27] Abbamonte, in Commentario alle riforme del processo civile dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, 2013, p. 384 ss.; Marino, Attuazione delle sentenze e provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione, in Riordino e semplificazione dei procedimenti civili. Commentario al decreto legislativo 1° settembre 2011 , n. 150, a cura di Santangeli, Milano, 2012, p. 916 ss.; Consolo, Il nuovo rito sommario (a cognizione piena) per il giudizio di accertamento dell’efficacia delle sentenze straniere in Italia dopo il d.lgs. n. 150/2011 , in Riv. dir. int. priv. proc., 2012, p. 523, afferma che gli argomenti che fanno propendere con forza per l’estensione della disciplina del nuovo rito sommario al riconoscimento delle sentenze comunitarie siano “plurimi”

[28] Consolo, Il nuovo rito sommario (a cognizione piena), cit., p. 523.

[29] Consolo, op. loc. cit.

[30] Consolo, op. loc. ult. cit.

[31] Consolo , op. loc. cit.

[32] Consolo , op. cit., p. 524.

[33] Consolo, op. loc. ult. cit.

[34] Il riferimento è, in primis, al regolamento n. 2201 del 2003.

13. Uno sguardo al futuro (non necessariamente tranquillizzante).

Come si è visto, il regolamento n. 1215 ha introdotto un “metodo ibrido” per la circolazione delle decisioni tra gli Stati membri dell’Unione. Si tratta sicuramente di un “passo in avanti” nell’attuazione del principio del riconoscimento automatico ma, al contempo, è l’espressione di un atteggiamento prudente rispetto alla direzione intrapresa a livello politico dalla Commissione europea.

Il generale superamento di ogni controllo “a valle” della decisione resa in un altro Stato membro è stato in effetti considerato prematuro. Tale prudenza appare condivisibile[35].

A ben vedere, alla fiducia reciproca elevata a pilastro dello spazio europeo di giustizia a livello politico non necessariamente fa riscontro una fiducia effettiva nel caso concreto. In effetti, è ormai evidente che le norme comuni europee in questo ambito e la relativa attività interpretativa svolta dalla Corte di giustizia, nel valorizzare, a livello “politico”, la fiducia reciproca come canone ermeneutico delle regole che governano lo spazio europeo di giustizia, hanno dimostrato di non riuscire a tutelare in modo adeguato la violazione di diritti fondamentali da parte del giudice di origine nel caso concreto[36].

Emblematica a questo riguardo (peraltro con riferimento al regolamento n. 2201 del 2003) mi sembra la recente decisione della Corte di giustizia nel caso C-386/17, del 16 gennaio 2019 (nomi delle parti omessi per motivi di privacy), in risposta a una questione di interpretazione pregiudiziale proveniente dalla Cassazione italiana[37].

Nella fattispecie, tra due coniugi (marito italiano e madre romena), era stato inizialmente proposto un procedimento in Italia sulla separazione e sulla responsabilità genitoriale sul figlio della coppia. In seguito, la madre aveva instaurato un procedimento di divorzio in Romania, nel quale aveva chiesto anche l’affidamento del medesimo minore. Il giudice romeno, pur adito per secondo, non aveva accolto l’eccezione di litispendenza sollevata ai sensi dell’art. 19 del regolamento del 2201, per poi emettere una sentenza, poi passata in giudicato, con la quale aveva affidato il figlio minorenne in via esclusiva alla madre. Tutto questo prima che fosse definito il procedimento italiano previamente instaurato, nel quale il minore stesso era stato affidato in via esclusiva al padre. Dopo il passaggio in giudicato della sentenza romena di divorzio, poi, la Corte d’appello di L’Aquila aveva dichiarato inammissibile la domanda del padre di affidamento del figlio minore in quanto la questione era già stata decisa in senso contrario in via definitiva in Romania.

La Cassazione, a quel punto, aveva proposto alla Corte di giustizia una questione interpretativa delle norme sulla litispendenza eurounitaria, in sostanza chiedendo se potesse essere negato il riconoscimento di un provvedimento emesso all’estero in caso di violazione di tali norme, sul piano dell’ordine pubblico processuale. Si trattava di un tentativo di garantire il rispetto di un diritto fondamentali nel caso concreto, a fronte di quello che appariva un evidente “errore” nell’applicazione delle norme sulla litispendenza da parte del giudice straniero.

La Corte di giustizia, però, non ha ritenuto fondati i dubbi espressi dalla Cassazione, in sostanza attribuendo alla “fiducia reciproca” tra le autorità giurisdizionali un valore assorbente rispetto al rispetto delle regole uniformi nel caso concreto. Come conseguenza, il procedimento di separazione italiano, pur preventivamente instaurato, ha dovuto “cedere” al riconoscimento della decisione romena di divorzio (dal contenuto diametralmente opposto a quello dei provvedimenti sino a quel momento emessi in Italia) resa nel giudizio iniziato per secondo ma deciso in tempi più brevi.

Questa pronuncia a mio avviso conferma l’affermazione di esordio del mio ragionamento. Il rischio che si prospetta, nell’attuale contesto socio-politico, è quello di una “crisi di rigetto” rispetto a norme comuni europee percepite come non adeguate a garantire le specificità dei singoli Stati membri[38].

In un’Europa connotata dal diffondersi di movimenti “sovranisti”, il funzionamento dello spazio europeo di giustizia non attira l’attenzione dei demagoghi e non è un tema spendibile in una campagna elettorale. Resta il fatto che prima o poi qualcuno potrebbe ritenere inaccettabile la cessione di sovranità orizzontale causata dal riconoscimento automatico delle decisioni[39] e che dunque, in un mutato assetto politico delle istituzioni dell’Unione, si possa assistere a inversioni di tendenza rispetto alle attuali scelte politiche. In altre parole, quella che appariva come la marcia inarrestabile verso l’affermazione universale del principio di automatico riconoscimento nell’ambito dello spazio europeo di giustizia potrebbe avere una battuta di arresto e forse anche fare dei passi indietro.

Personalmente, non lo ritengo uno scenario tranquillizzante. Al contempo, ritengo che ci debba essere piena consapevolezza del fatto che, allo stato, alla fiducia reciproca affermata come principio non corrisponde, nei fatti, una fiducia effettiva: fiducia che, d’altro canto, non si costruisce con le affermazioni altisonanti o con la retorica, ma operando fattivamente sulla realtà.

In altre parole, il principio dell’automatico riconoscimento non va né rinnegato né annacquato ma va attuato costruendo in concreto quella fiducia che di tale principio è il presupposto e l’ossatura.

In particolare, molti interpreti sostengono che tale fiducia si possa conseguire aumentando il livello di armonizzazione ed uniformazione del diritto (anche processuale)[40]. Si deve poi garantire che negli Stati membri la magistratura sia democratica e indipendente. Inoltre, appare necessario sviluppare i contatti tra autorità giurisdizionali e i network tra operatori del diritto di Stati membri diversi. Il primo passo per la fiducia, in effetti, parte dalla conoscenza reciproca.

La risposta ai dubbi e alle perplessità che si sono qui tratteggiati sta dunque nell’aumentare i contatti e i confronti, non nella (ri)costruzione di barriere.

[35] Per una posizione critica rispetto alla “fiducia reciproca”, v. Storskrubb, op. cit., p. 331; Requejo Isidro, op. cit., p. 289.

[36] V. Düsterhaus, op. cit., p. 27, che scrive: “So far, the EU’s apex court may have played an ambiguous role as it seemed to promote trust and recognition to the detriment of individual scrutiny”. V. anche Linton, op. cit., p. 275 ss.

[37] Cass., 20 giugno 2017, n. 15183.

[38] Per una prospettiva interessante, v. StorskrubB, op. cit., p. 312, che propone un paragone tra automatico riconoscimento e multiculturalismo.

[39] V. Storskrubb, op. cit., p. 312.

[40] Come evidenzia Düsterhaus, op. cit., p. 72, “common rules foster confidence”. V. anche Storskrubb, op. cit., p. 298.

Redazione

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