La canapa “hemp” e quella “light”: la visione giuridica

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Una panoramica dell’uso della canapa e del punto di vista della giurisprudenza su questa pianta e i suoi derivati.
Volume per approfondimenti: La disciplina dei reati in materia di stupefacenti

Indice

1. Le principali varietà di cannabis


Negli Anni Cinquanta del Settecento, il botanico svedese Linnaeus concentrò i propri Studi sulla canapa sativa. Viceversa, la prima Ricerca sulla cannabis indica risale al 1785 e reca la firma del francofono De Lamarck. Notevole è stato pure il contributo del russo Janischevsky in tema di canapa ruderalis. Allo stato attuale prevalgono le varianti ibride e sono quasi scomparse quelle “pure”. In ogni caso, la canapa è un genere di pianta angiosperma della famiglia delle Cannabeaceae, cui appartiene pure il luppolo. A prescindere dalle singole varianti, sotto il profilo finalistico esistono tipologie di canapa ad uso agroindustriale (canapa hemp), tipologie ad uso medico-terapeutico e tipologie ad uso tossicovoluttuario. Altrettanto basilare è distinguere tra il chemiotipo CBD, munito di effetti terapeutici, ed il chemiotipo THC, destinato al contesto delle droghe e degli stimolanti illeciti. Nella realtà concreta, il CBD ed il meno utile THC sono presenti in ogni specie di cannabis, ma in quantità differenti.
La marjuana è la parte più pregiata della canapa ed è estratta dai peli ghiandolari dei fiori. Dal punto di vista botanico, la marjuana è costituita dalle infiorescenze delle piante femminili, mentre dalla resina dei fusti si ottiene l’haschisch e l’olio della cannabis.
Sino ad una cinquantina d’anni fa, la canapa ad uso industriale era macerata per ottenere tessuti e cordame, ma tale impiego venne soppiantato dalle fibre sintetiche, assai meno costose e facili da lavorare. Il tessuto di canapa era molto diffuso, specialmente in Italia e nell’ex Unione Sovietica.
Purtroppo, nel TU 309/90, il lemma “canapa” è utilizzato in maniera imprecisa, con una particolare predilezione per la “cannabis sativa L”, che è quella maggiormente impiegata per finalità analgesiche. Solitamente, nel TU 309/90, il lemma canapa indica la pianta ad uso agroalimentare, mentre il sostantivo cannabis comprende tutti i cannabinoderivati con effetto psicoattivo, lecito o meno che sia. Sempre nel TU 309/90, il termine marjuana sta ad indicare lo stupefacente a base di THC. Meno confuso è il panorama delle varianti. La specie predominante, nella giuridificazione del 1990, è la canapa sativa, mentre la cannabis indica e quella ruderalis vengono catalogate, sotto il profilo botanico, come “varianti fenotipiche”.
Un altro problema è costituito dal fatto che la cannabis indica “pura” è sempre ibridata all’interno del sotto-tipo della cannabis sativa L, anche se, per tradizione, la canapa indiana è presunta ad uso solo tossicovoluttuario, mentre la canapa sativa reca svariati impieghi terapeutici, soprattutto in oncologia. Nella pratica, la canapa hemp è più alta e con meno infiorescenze, in tanto in quanto è il fusto a produrre fibre. Viceversa, la canapa indiana è più bassa e con molti peli ghiandolari, poiché ciò che conta è l’estrazione del THC e del CBD con effetti psicoattivi. Le scienze botaniche catalogano come psicotropa la canapa munita di un tenore di THC superiore allo 0,2 %.

2. I principi attivi del THC e del CBD


In linea di massima, anche nella Giurisprudenza di legittimità, il THC determina l’uso stupefacente illecito della canapa, mentre al CBD sono associati utilizzi leciti di tipo medico o agroalimentare. Ora, gli effetti psicoattivi del THC sono di tipo quasi esclusivamente ludico-ricreativo, mentre al CBD sono riconosciute proprietà terapeutiche antinfiammatorie, analgesiche, anti-nausea, anti-emetiche, antipsicotiche, anti-ischemiche, ansiolitiche ed anti-epilettiche. Dunque, la Giurisprudenza e la Dottrina afferenti al TU 309/90 manifestano un deciso favor nei confronti dell’impiego medico del CBD.
Il THC è presente nell’haschisch (la resina delle infiorescenze), nella marjuana (le foglie essiccate, i fiori ed una parte del gambo) e nell’olio di canapa, ottenuto per estrazione con solvente organico. Il THC può essere fumato, inalato od ingerito. Se fumato, giunge assai rapidamente al cervello, mentre l’ingestione reca effetti psicotropi solamente dopo 30 o 60 minuti. Sotto il profilo tossicologico, l’emivita del THC varia a seconda delle caratteristiche fisiologiche personali dell’assuntore. P.e., il tetra-idro-cannabinolo altera in misura maggiore soggetti che già recano dispercezioni spazio-temporali, umore distimico, allucinazioni, psicosi e deliri. Nel breve periodo, il THC attiva aree del cervello munite di molti recettori. A breve termine, il THC provoca un effetto “high”, cagionato dal rilascio massiccio di dopamina, ma si rimarca, di nuovo, che molto dipende dalle peculiarità psicofisiche del singolo tossicomane. Tuttavia, è nel lungo periodo che gli effetti si fanno devastanti, in tanto in quanto il THC, specialmente a cominciare dall’età dell’adolescenza, debilita la concentrazione, la memoria e l’attitudine all’apprendimento. Pare, financo, che un utilizzo precoce e costante della marjuana generi una compromissione irreversibile della lucidità mentale, anche se tale grave danno non si manifesta subito nel breve periodo. Senza alcun dubbio, ognimmodo, il THC, se assunto sin dall’età giovanile, provoca psicosi e ideazioni di matrice schizoide.
All’opposto, il CBD non è psicoattivo, pur se genera effetti benefici se fumato od inalato sotto stretto controllo medico; anzi, nella Letteratura medico-forense, si reputa che il CBD abbia la specificità di “correggere” molti degli effetti indesiderati del THC. Di più, il CBD possiede applicazioni terapeutiche eccellenti, soprattutto con afferenza alla SLA, al morbo di Chrohn, al morbo di Alzheimer, al morbo di Parkinson, all’epilessia ed al disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Notevoli sono pure i benefici del CBD nel trattamento del dolore cronico, degli spasmi e delle artriti, pur se chi redige è nemico dei facili entusiasmi in tema di uso legale degli stupefacenti. Altrettanto vero è pure che il CBD non causa né dipendenza né astinenza, ma, a parere di chi scrive, è necessario attendere Studi di lungo periodo. Pare opportuno segnalare che, grazie alle coltivazioni professionali indoor, attualmente la canapa indiana reca concentrazioni di THC del 12 o del 20 %. Egualmente, esistono varianti di cannabis con un tenore di CBD pari anche al 18 %. Come si può notare, le nuove tecniche agricole hanno aumentato, nel bene o nel male, la presenza di principio attivo nella marjuana.

3. La canapa “hemp” (ad uso industriale)


Fondamentalmente, anche la canapa hemp appartiene al tipo botanico della cannabis sativa L, ma essa non viene utilizzata per fini tossicovoluttuari. Senza dubbio, ognimmodo, l’uso agricolo-industriale della cannabis può vantare millenni di storia. La canapa hemp, in buona sostanza, è (rectius: era) impiegata in ambito tessile, per la produzione di olio e pure per finalità alimentari/semi-terapeutiche. In epoca attuale, esiste un risveglio dell’interesse nei confronti della cannabis ad uso alimentare ed industriale, ma prevalgono la ratio terapeutica e quella ludico-ricreativa.
Negli Anni Cinquanta del Novecento, la canapa hemp serviva per la produzione di fibre, materiale plastico, cellulosa e carta. L’olio cannabinoderivato era trasformato in vernici e carburante. P.e., l’ automobile Ford Hemp Body Car recava una carrozzeria verniciata con tintura di cannabis ed il proprio motore bruciava etanolo di canapa.
Ciononostante, specialmente negli USA, permaneva l’ambiguità inquietante delle piantagioni di canapa hemp, il cui tenore drogante spesso superava i limiti consentiti, alimentando il mercato illecito della marjuana, reputata alla base di stupri ed omicidi volontari. Sicché, nel 1937, negli Stati Uniti d’ America, venne vietata la coltivazione di marjuana, sia per fini industriali, sia per fini ludico-ricreativi.
Nel contesto macro-economico italiano, le coltivazioni hemp scomparirono negli Anni Settanta del Novecento. In effetti, in primo luogo, le fibre sintetiche rendevano meglio. In secondo luogo, come nella fattispecie degli USA, le piantagioni di marjuana recavano pur sempre una sottile ambiguità in cui si confondevano l’uso hemp e quello stupefacente.


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4. L’uso alternativo della canapa sino al 2016


A partire dagli Anni Novanta del Novecento, la canapa hemp è stata riscoperta, anche in Italia, per la produzione di tessuti, pannelli isolanti, calcestruzzi, carta, combustibili, cosmetici, olio e farine. Gli ambienti radical chic insistono, in maniera ossessiva, nel decantare le applicazioni alternative della marjuana, ma, surrettiziamente, l’intento è e rimane quello della legalizzazione per finalità tossicovoluttuarie. Tant’è che, nel 1997, l’Associazione dei coltivatori di canapa ha ottenuto una Circolare dal sapore decisamente anti-proibizionista. Nella Normativa collaterale al TU 309/90, la cannabis indica stupefacente veniva giustapposta alla cannabis sativa L, detta anche canapa da tiglio, ovverosia ad uso industriale ed agroalimentare. Tuttavia, nella realtà concreta, ormai le specie sono ibridate e, dunque, non hanno senso i lemmi pseudo-botanici “indica” e “sativa”.
Provvidenzialmente, in ogni caso, è stato l’Art. 5 bis del Reg. (CE) n. 1251/99 del 17 maggio 1999, il quale proibiva la coltivazione e la commercializzazione di canapa contenente un tenore di THC superiore allo 0,2 %. Analogamente, nel 2002, la Circolare UE NC 5302 10 00 ribadiva il limite dello 0,2 % di THC e legalizzava, nel Cataloga europeo, ben 62 varietà di cannabis hemp, tra cui la tipologia della Carmagnola, originaria del Piemonte e largamente diffusa in tutta Europa. In buona sostanza, le due summenzionate Circolari UE del 1997 e del 2002 venivano a mitigare il proibizionismo rigido e rigoroso della L. 162/1990 e della consimile, successiva L. 49/2006. Di nuovo, Bruxelles imponeva i propri parametri in maniera liberticida e senza alcun rispetto per l’ autonomia legislativa nazionale interna.
Il panorama de jure condito si complicò ulteriormente con la Sentenza 32/2014 della Consulta, la quale, unitamente alla L. 79/2014, ripristinava le 4 tabelle del 1990 e reintroduceva la distinzione tra sostanze pesanti (cocaina, eroina ed ecstasy) e sostanze leggere (i cannabinoderivati). Per il vero, la L. 79/2014 separa, in maniera confusa ed immotivata, il delta-9-trans-tetra-idro-cannabinolo, inserito nella tabella I, dal delta-9-THC, non formalmente inserito nella tabella II. Inoltre, nel confuso panorama sorto dopo Consulta 32/2014, il lemma cannabis non viene più congiunto all’ attributo “indica”. Ora, nelle tabelle vanno inseriti i principi attivi, dunque il THC e non la tipologia botanica, peraltro ormai non più individuabile nella sua forma pura e primigenia. Inoltre, si consideri pure il fatto che sia Consulta 32/2014 sia la L. 79/2014 non menzionano il limite dello 0,2 % di tenore drogante previsto e giuridificato dalle Circolari dell’ UE del 1997 e del 2002. Entro tale nebuloso scenario legislativo, rimane, prezioso e fermo, soltanto l’ Art. 26 L. 79/2014, il quale consente la coltivazione e la trasformazione “della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali”.
Anche sotto il profilo giurisprudenziale, dopo Consulta 32/2014, si confondono sovente i lemmi cannabis, cannabis sativa, cannabis indica e marjuana. P.e., Cass., sez. pen. IV, 18 gennaio 2013, n. 10618 postula la liceità della canapa sativa L con un tenore drogante pari all’8,48%. Altrettanto confusa è Cass., sez. pen. VI, 8 ottobre 2015, n. 46074, a parere della quale “[non conta più la misurazione del grado di THC] perché la cannabis è [sempre e comunque] una sostanza stupefacente, con riferimento a tutte le sue varianti (indica, sativa L …) e alle diverse forme di presentazione (foglie, infiorescenza, olio e resina). Perciò, tutte le specie di cannabis, nessuna esclusa, sono assoggettate alla disciplina [proibizionistica] di settore [ex Art. 73 TU 309/90]”. Provvidenzialmente, AssoCanapa chiese ed ottenne la L. 242/2016 per chiarire i confini precettivi della cannabis hemp.

5. La svolta della L. 242/2016


Dopo una ventina d’anni di aporie ermeneutiche, la L. 242/2016 ha finalmente delineato i confini precisi della coltivazione lecita, o meno, della canapa. Anzitutto e soprattutto, la L. 242/2016 ammette soltanto la piantagione e la cura delle 62 varietà di cannabis contemplate dal Catalogo europeo come vegetali “non ad uso stupefacente”. In secondo luogo, la L. 242/2016 in conformità all’Art. 5 bis Reg. (CE) n. 1251/99 del 17 maggio 1999, impone che la canapa hemp denoti un tenore drogante non superiore allo 0,2 %. Solo in tal caso, ex Art. 3 L. 242/2016, il coltivatore non deve annunciarsi alla PG e reca esclusivamente gli obblighi di conservare i cartellini della semente e di archiviare le fatture di acquisto.
Il tenore drogante della cannabis non è matematicamente prevedibile e, ex L. 242/2016, può eccedere sino allo 0,6 %. Oltre tale limite, ex comma 5 Art. 4 L. 242/2016, l’agricoltore è tenuto ad allertare l’AG, che dispone la distruzione della canapa munita di un potenziale effetto psicotropo. Si tenga pure presente che, ex comma 1 Art. 2 L. 242/2016, l’impiego della cannabis hemp è limitato alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati ad uso industriale.
Si noti, ognimmodo, che, sotto il profilo della ratio, il limite dello 0,2 % di THC è fissato, nella L. 242/2016, ai fini dell’ottenimento dei contributi europei e, dunque, la potenziale tossicovoluttuarietà della sostanza costituisce sì un problema, ma di secondaria importanza e delegato alla diligenza dei controlli della PG. D’altra parte, anche la misurazione del THC segue standards internazionali diversi da quelli previsti nel TU 309/90. Pure, del resto, il comma 3 Art. 4 L. 242/2016 richiama “modalità di prelevamento, conservazione ed analisi dei campioni […] stabilite ai sensi della vigente normativa dell’UE”. Dunque, ciò che veramente conta, con attinenza al limite dello 0,2 % di THC, è l’ammissione o, viceversa, la decadenza dall’ottenimento dei fondi UE. Il possibile effetto psicoattivo, nella ratio della L. 242/2016, non costituisce la problematica principale. A titolo di corollario, è utile segnalare che, ex L. 242/2016, la concentrazione di THC negli oli è ammessa sino allo 0,5 %, mentre, per le farine, il limite massimo è dello 0,2 %

6. La marjuana light


Talune varietà di canapa tra le 62 consentite nel Catalogo europeo contengono molto CBD, ancorché un tasso di THC “legale”, ovverosia inferiore allo 0,2 %. Ora, il CBD non rientra nei principi attivi proibiti dalle tabelle allegate al TU 309/90 e, anzi, sotto il profilo medico-forense, il CBD non è catalogato alla stregua di una sostanza stupefacente. La conseguenza fondamentale, dunque, è la commerciabilità legale di cannabis sativa L contenente poco THC e molto CBD. Esistono tipologie botaniche di marjuana con meno dello 0,2 % di THC e quasi il 20 % di CBD. La conseguenza è che né il TU 309/90 né la L. 242/2016 possono impedire di trinciare le infiorescenze della marjuana light affinché le medesime possano essere fumate.
Taluni Precedenti di legittimità, tra il 2016 ed il 2018, ammettevano la commerciabilità del CBD, dunque della marjuana light, mentre altre Sentenze, sia di merito sia di legittimità, contestavano il reato di immissione in commercio di prodotti pericolosi ex DLVO 206/2005. La Suprema Corte, in tema di marjuana light, si rese conto della pericolosa lacuna presente nella L. 242/2016 in tema di libera commercializzazione del CBD.
Secondo un primo orientamento, sostenuto da Cass., sez. pen. VI, 27 novembre 2018, n. 56737, “la L. 242/2016 non consente la commercializzazione dei derivati della canapa da essa non previsti (haschisch e marjuana light) in quanto la normativa disciplina esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola […] soltanto per fini commerciali […] tra i quali non rientra la commercializzazione al dettaglio dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina. Quindi, la detenzione e commercializzazione di questi derivati rimangono sottoposte alla disciplina di cui [all’ Art. 73] TU 309/90”. Analogo è pure il proibizionismo manifestato da Cass., sez. pen. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003 nonché da Cass., sez. pen. IV, 13 giugno 2018, n. 34332.
Secondo un diverso orientamento, prevalente in Dottrina, non ponendo limiti ostativi al CBD la L. 242/2016, la conseguenza pratica è la perfetta liceità della commercializzazione della marjuana light, purché il THC contenuto nella “canna” non superi lo 0,6 %. Dopotutto, sempre alla luce della L. 242/2016, la resina e le foglie non psicoattive della marjuana altro non sono se non “prodotti della filiera agroindustriale della canapa”. Né, peraltro, va obliato che il CBD non è inserito come sostanza proibita nelle tabelle allegate al TU 309/90. D’altronde, nell’Art. 2 L. 242/2016, nulla vieta che siano qualificati come “prodotti agroalimentari” le foglie, le infiorescenze, gli oli e le resine della marjuana, purché essa sia priva o quasi priva di efficacia drogante. Anzi, la L. 242/2016 esclude il CBD dalla precettività dell’Art. 73 TU 309/90, generando quindi una lacuna forse scomoda, ardita e scabrosa, ma senz’altro lecita, valida ed impeccabile.
Anche Cass., 4 dicembre 2018, n. 14017 (anticipata da Cass., sez. pen. VI, 29 novembre 2018, n. 4920) afferma che “la fissazione del limite dello 0,6 % di THC (fissato dall’Art. 4 comma 5 L. 242/2016) rappresenta, nell’ottica del Legislatore, un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni. La percentuale dello 0,6 % di THC costituisce, quindi, il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti”. Viceversa, dubbi seri provengono da Cass., sez. pen. III, 8 febbraio 2019, n. 8654, la quale, ex comma 1 Art. 618 Cpp, ha adito le Sezioni Unite, nel 2019, ai fini della qualificazione della rilevanza penale, o meno, della marjuana light, a base di CBD, ma con un THC inferiore allo 0,6 %.

7. Cass., SS.UU., 30 maggio 2019, n. 30475, Castignani, in tema di cannabis light


Dopo tre anni di incertezze applicative, alcuni importanti punti fermi, in tema di marjuana light, sono stati finalmente posti da Cass., SS.UU., 30 maggio 2019, n. 30475, imp. Castignani.
In primo luogo, Sezioni Unite Castignani, nelle Motivazioni, ha precisato che “l’ambito di applicazione della L. 242/2016 […] qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune [europeo] delle specie di piante agricole, ai sensi dell’Art. 17 della Direttiva 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002”. Ora, la suesposta precisazione non chiarisce se costituisca illecito di rango amministrativo o penale la coltivazione di specie non contemplate nel Catalogo dell’ UE, ancorché denotanti un tenore di THC non superiore allo 0,2 %. Analoga è la lacuna, su questo tema, presente nella Circolare 23/05/2018 del Ministero delle politiche agricole in tema di florovivaismo domestico.
Una seconda pecca di Sezioni Unite Castignani del 2019 consta nel più che nebuloso asserto: “la L. 242/2016 elenca tassativamente i derivati della coltivazione [di canapa] che possono essere commercializzati”. Anche in tal caso, si tratta di un’affermazione ambigua, in tanto in quanto la L. 242/2016 ha legalizzato “alimenti e cosmetici per uso umano”, ma nulla è stato previsto in tema di foraggio animale o alimenti “atipici” o pericolosi per la salute. Anzi, Sezioni Unite Castignani, di nuovo, non specifica alcunché con attinenza a foraggi, alimenti o altri prodotti simili derivati dalla coltivazione di marjuana light non psicoattiva, ma non rientrante nelle 62 varietà autorizzate dal Catalogo dell’ UE. Dunque, in Sezioni Unite Castignani del 2019, non si specifica se violare siffatto Catalogo europeo costituisca un illecito penalmente rilevante, oppure una semplice infrazione amministrativa.
In terzo luogo, le Motivazioni di Sezioni Unite Castignani del 2019 sostengono che la L. 242/2016 non sia applicabile a foglie, infiorescenze, olio e resina della canapa sativa L, allorquando, viceversa, il comma 1 Art. 1 L. 242/2016 giuridifica espressamente la coltivazione della cannabis sativa L. Anzi, nella pratica, quasi tutti gli alimenti ed i cosmetici cannabinoderivati provengono dalla macinazione e dalla trasformazione proprio della canapa sativa. Dunque, l’interprete si trova davanti ad una conclamata antinomia che confonde ancor di più il panorama normativo.
In quarto luogo, in sede motivativa, Sezioni Unite Castignani del 2019 statuisce che “integrano il reato di cui all’Art. 73 TU 309/90 le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotto derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. Pertanto, non è violata la L. 242/2016 qualora il coltivatore metta in vendita una variante non conforme al Catalogo europeo, ma con un tenore drogante di THC non superiore allo 0,2 %. A tal proposito, Cass., SS.UU., 29 novembre 2007, n. 47472 hanno escluso la c.d. “efficacia drogante” al di sotto della presenza di più dello 0,2 % di THC. Viceversa, Cass., sez. pen. VI, 10 novembre 2015, n. 5254 invita alla contestualizzazione, poiché, nel concreto, capita che un tenore drogante superiore allo 0,2% non sia “offensivo nel concreto” nei confronti della suprema ratio della tutela della salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. . Invece, Cass., SS.UU., 28605/2008 propendono per una lettura matematicamente rigoristica del limite massimo legale dello 0,2 % di THC. La panoramica esegetica è ulteriormente confusa dalle Sezioni Unite Di Salvia, le quali, seguendo una certa Giurisprudenza della Consulta, ammettono qualunque forma di vendita della canapa light, purché la concentrazione di THC non superi lo 0,2 %.
La verità è forse che, nella tossicologia forense italiana, non sono ben nitidi i lemmi “tenore drogante”. Cass., SS.UU., 29 novembre 2007, n. 47472 hanno utilizzato la ratio quantitativo-ponderale, ovverosia “la dose media singola va intesa come la quantità di principio attivo per singola assunzione, idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo […]. Per il THC, la dose media singola, così valutata, va individuata in 25 mg, in quanto tale quantità […] è senza dubbio idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo in un soggetto abituato costantemente al consumo [di THC]”. Tuttavia, il criterio ponderale è stato messo in dubbio da Cassazione 8393/2013, ovverosia “manca ogni riferimento parametrico per legge o per decreto […] Sulla questione della rilevanza del concetto di effetto drogante permane un contrasto nella Giurisprudenza di questa Corte, anche successivamente alla decisione delle Sezioni Unite n. 9973 del 1998”. In addenda, si consideri pure che taluni Precedenti di legittimità utilizzano il limite dello 0,2 %, mentre altre Sentenze giungono allo 0,6 % di THC. Taluni hanno sottolineato che la L. 242/2016 prevede una forbice di principio attivo tra lo 0,2 % e lo 0,6 %, ma è pur vero che la L. 242/2016 non si occupa di tenore drogante ex Art. 73 TU 309/90, bensì di limiti legali per l’ottenibilità degli incentivi dell’ UE. P.e., in tema di coltivabilità, la Circolare del 31/07/2018 del Ministero dell’ Interno fissava un limite dello 0,5 %, ma non nell’ottica di un’eventuale offensione della ratio ex comma 1 Art. 32 Cost in tema di tutela della salute

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Dott. Andrea Baiguera Altieri

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