L’introduzione del “pareggio di bilancio” in costituzione: le conseguenze sulla sovranità finanziaria dello stato e sulla tutela dei diritti sociali

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SOMMARIO: 1.Riforma della governance europea: dal patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact; 2.La regola del pareggio di bilancio nel contesto nazionale: modifiche all’ordinamento italiano; 3.La compromissione della sovranità finanziaria dello Stato e le conseguenze sulla tutela dei diritti sociali; 4.La Corte Costituzionale tra vincoli di bilancio e diritti sociali.

 

1.   Riforma della governance europea: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact.

Il periodo di “buio” economico e finanziario iniziato nel 2008[1] ha portato l’Unione Europea a prevedere nuove norme finalizzate a rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e di bilancio dei Paesi membri, vale a dire, la “governance economica europea”.

In primo luogo, le proposte del Consiglio europeo hanno riguardato un rafforzamento del Patto di Stabilità e Crescita quale insieme di regole costituenti un valido strumento per il coordinamento e la sorveglianza delle politiche di bilancio volto a garantire una gestione corretta delle finanze pubbliche da parte dei Paesi dell’Unione con conseguente coordinamento delle politiche di bilancio. Il PSC, storicamente nato[2] al fine di fare in modo che alcuni Stati non minassero con il loro comportamento poco avveduto la stabilità macroeconomica dell’Unione, impegnava appunto gli stessi ad evitare disavanzi eccessivi, cioè a garantire un saldo di bilancio in equilibrio o in avanzo. Tuttavia, tale accordo è stato successivamente considerato la causa della mancata crescita e per questo al centro di svariate polemiche, nonché motivo di numerose proposte di modifica da parte degli Stati finalizzate al miglioramento del quadro economico europeo[3].

Ed invero, il Patto di stabilità e Crescita non ha risolto gli squilibri macroeconomici di alcuni Paesi con conseguente ripercussione sulla stabilità dell’intera Unione europea. Di qui, gli interventi sin dal 2010 da parte del Consiglio e della Commissione volti a garantire l’efficacia delle regole del Patto di Stabilità, nonché un migliore coordinamento delle politiche economiche nazionali. Nello specifico, le Istituzioni europee hanno mirato ad un rafforzamento del Patto di Stabilità, da una parte ponendo attenzione al livello del debito pubblico di ciascun Paese[4], da un’altra cercando di garantire una maggiore automaticità nell’applicazione delle sanzioni, con lo scopo di rendere più efficace la sorveglianza di bilancio[5]. Per garantire tale automaticità, la commissione ha proposto l’introduzione di una procedura sanzionatoria denominata “di voto al contrario” (reverce voting) secondo la quale la Commissione presenta una proposta per la sanzione pertinente che viene considerata adottata a meno che il Consiglio non decida il contrario con voto a maggioranza qualificata entro dieci giorni. L’entità del deposito infruttifero o dell’ammenda potrebbe essere ridotta o azzerata dal Consiglio solo all’unanimità o sulla base di una proposta specifica della Commissione motivata da circostanze economiche eccezionali o a seguito di una richiesta motivata dello Stato membro interessato.[6]

L’intervento successivo al PSC, è stato il cd “semestre europeo”[7], mediante il quale gli Stati membri, con una serie di procedure da adottare nei primi sei mesi dell’anno,  si sono obbligati a programmare le politiche economiche e di bilancio nazionali in funzione delle preventive decisioni del Consiglio europeo. In altri termini, stante il perseverare della crisi finanziaria ingigantitasi con il caso Grecia, testimonianza questo delle debolezze di un sistema basato su un’asimmetria tra politica monetaria e politica fiscale, il “semestre europeo” doveva garantire un coordinamento delle procedure di bilancio a livello nazionale in grado di creare un raccordo della tempistica ex ante ed una più efficace vigilanza delle politiche economiche e di bilancio nei Paesi dell’eurozona e in quelli dell’Unione Europea.

Per completare il quadro sul Patto di Stabilità e Crescita, val bene menzionare il Patto per l’Euro che istituisce un coordinamento più stretto delle politiche economiche per la competitività e la convergenza, meglio noto come “Patto Europlus” del marzo 2011: trattasi di un accordo non giuridicamente vincolante adottato dai Capi di Stato e di governo dell’area euro con il quale ciascun Stato membro si è impegnato a recepire nel proprio ordinamento le regole di bilancio definite nel PSC. Costituisce, più precisamente, un patto di convergenza economica rafforzata in virtù del quale gli Stati membri hanno inteso realizzare un rafforzamento dell’attuale governance economica europea attraverso l’adozione di programmi nazionali di riforma e di stabilità, stimolando la competitività e la convergenza nei settori economici prioritari. Il Patto Europlus presenta una natura prettamente politica e ciò è confermato dalla circostanza che in esso non figurano disposizioni relative alla ratifica, nonostante gli impegni sottoscritti richiederebbero un’attività di recepimento negli ordinamenti statali sempreché non si tratti di obblighi meramente ripetitivi di altri derivanti dai Trattati istitutivi.

Un’altra manovra va sotto il nome di Six pack[8] che modifica lo stesso PSC, rafforzandolo sia nella parte preventiva che in quella correttiva in modo da prevedere un maggior rigore della regola sui disavanzi di bilancio, la definizione di obiettivi di medio termine differenziati a seconda della situazione degli stati membri e l’attribuzione di una maggiore rilevanza al parametro del debito pubblico.

Questo scenario di manovre finalizzate a raggiungere il perseguimento degli scopi dell’UE in materia di crescita sostenibile, occupazione, competitività e coesione sociale, non ha evitato negli ultimi mesi del 2011 l’aggravarsi della situazione economica di numerosi Stati con conseguente declassamento degli stessi ad opera delle Agenzie internazionali di rating. Di qui, il ricorso al Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nella Unione economica e monetaria, cd “Fiscal compact”[9], volto principalmente ad impegnare gli Stati contraenti ad introdurre la regole del bilancio in pareggio nelle proprie Costituzioni o in una normativa di rango primario. Giuridicamente è un trattato internazionale, dunque non facente parte dell’ordinamento giuridico europeo, ma a questo strettamente collegato: infatti, sia la sua interpretazione, sia la sua applicazione deve essere conforme al diritto dell’Unione Europea e ai Trattati su cui questa si fonda.[10]  Si dica per inciso che secondo alcuni autori è stata più facilmente percorribile la strada dell’adozione di un trattato internazionale, piuttosto che procedere con la modifica dell’ordinamento europeo, strada quest’ultima che avrebbe potuto trovare l’intralcio di possibili veti da parte di uno o più Stati membri[11].

Il ricorso ad un Trattato di tal genere, suscitò subito alcune polemiche provenienti da rappresentanti del Parlamento europeo che incentravano le proprie perplessità proprio sulla necessità di garantire la partecipazione del parlamento che, al contrario, non appariva garantita in modo adeguato negli accordi intergovernativi, e ciò differentemente da quanto accade nella procedura di modifica dei Trattati europei. Di qui, la modifica nella versione finale del Fiscal Compact approvata dal Consiglio Europeo il 30 Gennaio 2012, di rimandare l’attuazione del coordinamento e della governance alla legislazione secondaria, circostanza che garantisce la partecipazione del Parlamento.

Alcune disposizioni assumono rilevanza in tema di disavanzo e debito pubblico[12]: si pensi ad esempio all’art. 3 del Trattato, norma in realtà non molto innovativa rispetto al quadro normativo delineatosi a seguito delle richiamate modifiche del Patto di Stabilità e Crescita attuate con il Patto Europlus e con il successivo Six Pack. Con tale norma viene stabilito il pareggio di bilancio ed in particolare le regole fondamentali del controllo dei bilanci pubblici. Nello specifico, al Paragrafo 1, si impone che la posizione di bilancio della pubblica amministrazione della parte contraente debba essere in pareggio o in avanzo e il deficit è consentito solo se temporaneo e solamente in caso di periodo di grave crisi, peraltro soltanto nella misura in cui tale deroga non comprometta la sostenibilità del debito di lungo periodo.[13]

Il Trattato, inoltre, conferma la valenza del debito pubblico come parametro di riferimento nell’ambito della procedura per i disavanzi eccessivi: al riguardo, l’art. 4 si riferisce al “criterio del debito” e stabilisce espressamente il limite del rapporto debito pubblico/PIL individuandolo nella misura del 60%; superata tale soglia, la norma prevede un piano di rientro scandito dalla riduzione media annua pari ad 1/20[14].

Completamento logico del criterio del debito, è quanto stabilito nel successivo art. 5 secondo cui gli Stati sottoposti alla procedura per i disavanzi eccessivi sono tenuti a concordare con la Commissione europea e con il Consiglio un programma contenente tutti gli impegni e le riforme che si intende attuare al fine di conseguire il risanamento; nello stesso senso si pone l’art 6 che prevede un obbligo di informativa a carico dello Stato interessato che deve riferire agli organi istituzionali europei i piani di emissione del debito pubblico.

Con l’art. 7 del Fiscal Compact si realizza il rafforzamento della Commissione europea in quanto tale norma dispone che gli Stati dell’eurozona si impegnano a sostenere le proposte e le raccomandazioni della Commissione nel caso in cui uno Stato non abbia rispettato i limiti sul deficit nella procedura per il disavanzo eccessivo; ciò, sempreché le decisioni e le raccomandazioni non vengano respinte dalla cd “maggioranza inversa”, cioè dalla maggioranza qualificata degli Stati aderenti senza considerare il voto dello Stato interessato.

In definitiva il Fiscal Compact, costituendo un nuovo patto di bilancio, prevede una serie di disposizioni che riguardano l’introduzione negli ordinamenti nazionali di regole che impongono di perseguire il pareggio di bilancio, consentendo il mancato raggiungimento di tale obiettivo, solo ed esclusivamente in presenza di eventi eccezionali. Nello specifico, la regola secondo cui il bilancio dello stato deve essere in pareggio o in attivo, può considerarsi soddisfatta solo se il disavanzo strutturale dello Stato è pari all’obiettivo a medio termine specifico per Paese con un deficit che non eccede lo 0,5% del PIL; dall’obiettivo a medio termine, si può temporaneamente deviare solo nel caso di circostanze eccezionali; oppure di eventi che sfuggono al controllo dello Stato interessato e che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione; o in ultimo in periodi di grave recessione, sempreché tale disavanzo non vada ad inficiare la sostenibilità di bilancio a medio termine.

 

2.   La regola del pareggio di bilancio nel contesto nazionale.

In coerenza con la sopra menzionata evoluzione della governance europea e analogamente a quanto accaduto in altri Stati membri, anche l’Italia ha provveduto ad introdurre in Costituzione il principio del pareggio di bilancio e della sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni: con l’approvazione definitiva del disegno di legge costituzionale avvenuta il 18 Aprile 2012, si è giunti all’emanazione della Legge costituzionale n.1/2012, pubblicata nella G.U. del 23 Aprile 2012 ed entrata in vigore in data 1 Gennaio 2014.[15]

Sia chiaro che l’introduzione del principio del pareggio di bilancio negli ordinamenti interni con norme di rango costituzionale non costituiva un obbligo da parte del Legislatore, prevedendo il Fiscal Compact solo una preferenza per le norme costituzionali. Una preferenza, non già un obbligo, era prevista – del resto – anche nel Patto Europlus[16] e nella precedente lettera indirizzata agli Stati membri dei due governatori BCE (Trichet e Draghi) che, imponendo tagli alla spesa in alcuni settori, parlava di riforma opportuna (non necessaria) e non faceva riferimento ad un cambio in Costituzione. Ed invero, dando uno sguardo all’esperienza francese, anche il Conseil Constitutionnel ha affermato che non è affatto emerso, nelle manovre internazionali e comunitarie, un obbligo di revisione costituzionale: infatti sebbene un progetto di riforma in tal senso era stato presentato dall’allora Presidente della Repubblica, non entrò mai in vigore in quanto non superò indenne lo scrutinio delle due Camere riunite in Congresso (ai sensi dell’art. 89 III comma della Costituzione)[17] alle quali lo stesso Presidente aveva deciso di fare ricorso. Dunque, la Francia non ha provveduto ad un revisione costituzionale e ciò – è noto – non ha comportato una sua responsabilità di diritto internazionale[18]. Ecco perché, pur nella consapevolezza di una grande incidenza di tutte le vicende internazionali e comunitarie sopra richiamate, ci si sente di ritenere che la causa della modifica costituzionale in Italia, non deve essere ravvisata nella cogenza dei vincoli europei, quanto nella debolezza politica e finanziaria del nostro Paese che non ha consentito di intraprendere altre strade di riforma giuridicamente percorribili.

Probabilmente, il nostro Legislatore ha ritenuto di dover introdurre in Costituzione (non già in legge ordinaria) il pareggio di bilancio, perché ispirato dall’idea che modificando la Carta costituzionale, si sarebbero ottenute maggiori garanzie, per il futuro, sul rispetto del vincolo europeo e, quindi, maggiori garanzie sulla riduzione della spesa pubblica e del consequenziale ricorso all’indebitamento. Certo è che tale scelta ha conferito valenza giuridica ad un obbligo meramente politico, determinando così la possibilità che il vincolo del pareggio di bilancio sia evocato come parametro dei giudizi di legittimità costituzionale[19]: questa è la importante conseguenza che rende la riforma interna costituzionale certamente rilevante; rilevanza di cui non sembra potersi dubitare, atteso che solo la riforma dell’art. 81 Cost. ha determinato il suddetto effetto giuridico che certamente non si sarebbe prodotto nel caso di violazione ad opera dello Stato del diritto sovranazionale[20].

Ulteriori motivi di perplessità sul processo di costituzionalizzazione dal pareggio di bilancio emergono se sol si considera che i precetti costituzionali dovrebbero essere caratterizzati dalla non transitorietà, vale a dire che non si potrebbe ricorrere ad una revisione costituzionale per far fronte alla necessità di porre rimedio a problematiche provvisorie, seppur gravi, come quella del debito pubblico.[21] Inoltre, non può certo sfuggire l’insolita velocità nella conclusione dell’iter parlamentare, nonché la totale assenza di un dibattito politico sull’argomento.[22]

Posta, dunque, la non necessarietà della riforma (in termini di revisione della Costituzione) e la indubbia rilevanza che essa riveste con riferimento alla legislazione nazionale[23], è innegabile che la stessa sia stata attuata perché ritenuta – a torto o a ragione – lo strumento più efficace per far fronte al rischio di insostenibilità delle finanze pubbliche conseguente al perdurante ed elevato livello di debito pubblico accumulato nei decenni scorsi.

Su tale convinzione, si è proceduto allora con la riforma degli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost. adeguandoli al rispetto delle regole in materia economico-finanziaria derivanti dall’ordinamento europeo.[24]

Ciò rilevato, è doveroso entrare nel merito della discutibile riforma, dando maggiore attenzione all’art. 81 della Carta costituzionale[25], la cui vecchia formulazione si articolava in quattro commi: il primo riguardava l’autorizzazione data dal Parlamento al Governo circa l’attività che quest’ultimo intendeva svolgere con riferimento alle entrate e alle spese e per l’approvazione del rendiconto dell’attività svolta. Il primo capoverso, poi, stabiliva che l’esercizio provvisorio doveva essere subordinato ad una autorizzazione concessa mediante legge e per un periodo che non poteva andare oltre i quattro mesi. Il terzo comma dell’articolo, inoltre, stabiliva che il bilancio dello stato avesse natura solamente formale e disponeva che tramite la legge di bilancio non era possibile stabilire nuove entrate o nuove spese. Il quarto ed ultimo comma, di carattere sostanziale, prevedeva infine l’obbligo di copertura, stabilendo che ogni legge con la quale si autorizzavano nuove o maggiori spese, dovesse “indicare” i mezzi per farvi fronte.

Quest’ultima disposizione, portava a ritenere che già esisteva in costituzione l’obbligo del pareggio sostanziale di bilancio: senza ricorrere all’indebitamento e, dunque, con spese coperte con entrate reali in ossequio a quanto stabilito nel terzo comma dell’art.81, l’allocazione ottimale delle risorse doveva essere raggiunta attraverso un confronto parlamentare trasparente sulle proposte di legge che stabilivano nuove spese.[26]

In realtà, il richiamo al pareggio di bilancio era ancora più evidente  nella versione proposta inizialmente in sede di Assemblea e poi non approvata, atteso che in quella sede si faceva riferimento alla necessità per ogni nuova legge di spesa di “provvedere” ai mezzi per farvi fronte, non già (come nell’attuale formulazione) di “indicare”, termine, quest’ultimo, successivamente immesso con l’obiettivo di attenuare la rigidità del vincolo e concedere maggiore flessibilità all’azione di bilancio. Quella scelta legislativa risultava più in linea, peraltro, con la formulazione dell’art. 43 del regio decreto n. 2240 del 1923, cioè la legge di stabilità, all’epoca ancora in vigore.

Tuttavia, l’idea che il pareggio di bilancio fosse scolpito nell’art 81 della Costituzione, fu presto abbandonata: ed invero è stata la Corte Costituzionale[27] a ritenere che la norma in esame non stabiliva il rigoroso e statico principio del pareggio di bilancio, bensì quello più flessibile e dinamico dell’equilibrio di bilancio, con la conseguenza che veniva meno “il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal Legislatore costituente allo scopo di impedire che si facciano maggiori spese alla leggera senza avere prima provveduto alle relative entrate”.[28]

Con lo scopo di porre fine allo svuotamento del principio costituzionale del pareggio di bilancio, interviene la citata novella del 2012 che andando a riformulare – come anticipato – l’art. 81 della Carta fondamentale, introduce senza equivoci il principio de quo dando così risposta alla esigenza di definire regole strutturali relative all’equilibrio a regime del bilancio, alla possibilità del ricorso all’indebitamento da parte dello Stato nonché degli enti territoriali ed alla valutazione della sostenibilità dello stesso.

La nuova versione della norma stabilisce che lo Stato assicura l’equilibrio tra entrate e spese in considerazione degli effetti del ciclo economico (primo comma). Il ricorso all’indebitamento è consentito solo per la stabilizzazione del ciclo “e” nell’ipotesi in cui si verifichino eventi eccezionali previa, solo in quest’ultimo caso, autorizzazione parlamentare a maggioranza qualificata (secondo comma). Ogni legge, ivi inclusa quella di bilancio, che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte (terzo comma). Il quarto e quinto comma, ricalcano i primi due commi della vecchia formulazione e fanno riferimento l’una al bilancio e al rendiconto che devono essere presentati dal governo e approvati dal Parlamento, l’altra alla possibilità dell’esercizio provvisorio per un periodo non superiore complessivamente a quattro mesi. Ad avere contenuto innovativo è il sesto comma dell’art. 81 ai sensi del quale viene introdotta nel nostro ordinamento una legge rinforzata di attuazione dello stesso art. 81, vale a dire una legge che, nella scala gerarchica delle fonti dell’ordinamento italiano si trova ad un livello inferiore a quello della Costituzione, ma superiore a quello della legge ordinaria. La legge in questione è la numero 243 del 24/12/2012 recante “Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’art. 81, sesto comma, della Costituzione”[29].

Tale legge, in via preliminare, permette l’adeguamento automatico della normativa nazionale agli eventuali cambiamenti di quella europea, senza la necessità di modificare la stessa legge n. 243, evitando così possibili ingolfamenti derivanti dall’esigenza di rispettare il quorum imposto dalla legge rinforzata.

Dopo una serie di definizioni che la legge non manca di fornire, assume rilevanza per quel che interessa in questa sede, l’art. 3 primo comma, che introduce il principio del pareggio dei bilanci[30] con la precisazione che tale obiettivo impegna tutte le pubbliche amministrazioni.

In definitiva, l’art. 81 della Costituzione introduce una regola, quella di cui al secondo comma, abbastanza rigida dovendola interpretare nel senso di divieto di presentare un saldo negativo tra entrate e spese, al netto di quelle di natura meramente finanziaria, tra cui quelle per il rimborso dei prestiti già contratti, cioè evitare l’indebitamento, se non al fine di rinnovare tali prestiti. Nello stesso tempo, tuttavia, la norma consente di ricorrere all’indebitamento in presenza di eventi eccezionali ed al fine di considerare gli effetti sul ciclo economico.

Quest’ultima disposizione, in realtà, ha diviso la dottrina tra chi ritiene che per ricorrere all’indebitamento debbano sussistere contestualmente entrambe le situazioni richiamate dalla norma (considerare gli effetti del ciclo economico più il verificarsi di eventi eccezionali) facendo leva sul dato letterale[31], e chi al contrario è dell’avviso che richiedere la contestuale presenza dei due presupposti sarebbe troppo rigoroso per cui, ai fini del ricorso all’indebitamento, è richiesto almeno uno dei presupposti i quali si pongono, dunque, in rapporto alternativo, non già cumulativo.[32]

Ictu oculi, potrebbe sembrare adeguata l’interpretazione volta a consentire il ricorso all’indebitamento in presenza di un’autorizzazione adottata dalle due camere a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti a fronte di eventi eccezionali; e che l’esercizio di tale autorizzazione trovi, però, un altro limite nel fatto che l’indebitamento può essere contratto solo per considerare gli effetti sul ciclo economico scaturiti dall’evento eccezionale che si intende fronteggiare. Se si considera poi, il disposto di cui al’art 5 della Legge 243/2012[33], si dovrebbe giustificare la suddetta interpretazione perché sembrerebbe che solo in presenza di eventi a carattere eccezionale e connotati dalla particolare gravità sarebbe consentito il ricorso a manovre di contrazione del debito per fini ulteriori rispetto alla considerazione del ciclo economico, con la conseguenza che al di fuori degli eventi definiti nella legge 243, il ricorso all’indebitamento sarebbe consentito solo alla presenza congiunta dei due requisiti di cui all’art 81,secondo comma.

Tuttavia, sia consentito di rilevare che un’interpretazione in tal senso, cozzerebbe con i vincoli europei ed in particolare con il Fiscal Compact che consente di deviare rispetto agli obiettivi di bilancio solo in presenza di “circostanze eccezionali”, secondo la definizione fornita dall’art 3, par 3, lett a) e b) del Trattato. Tenendo presente tale disposizione, appare più adeguata un’interpretazione dell’art. 81 cpv volta a ritenere sufficiente il solo requisito del verificarsi di eventi eccezionali al fine del ricorso all’indebitamento, la cui misura sarà determinata dalla gravità di tali eventi: solo se questi si rivelano di particolare gravità, la legge rinforzata consentirà un ricorso all’indebitamento in misura tale da eccedere quanto necessario per considerare gli effetti del ciclo economico.

Alla luce di quanto detto, sebbene le scelte di politica economica continuino ad essere di spettanza statale – atteso che i vincoli europei introdotti nell’ordinamento interno incidono sui limiti di spesa ma non sull’allocazione delle risorse – è evidente che lo Stato sia fortemente vincolato sulle spese che gli è consentito compiere, tanto che si ritiene che tale normativa impedisce al soggetto pubblico di ricorrere all’indebitamento anche quando questo sia necessario per trarne un vantaggio in termini di crescita economica per le future generazioni[34].

Tornando alla citata legge n. 1/2012, giova precisare – come anticipato – che le modifiche da questa introdotte non si limitano all’art. 81, ma investono anche gli artt. 97, 117 e 119 della Costituzione e ciò al fine di rendere coerente tutte le regole di finanza delle pubbliche amministrazioni e conseguentemente armonizzarle con l’ordinamento europeo.

In particolare, l’art. 97 viene dotato di un nuovo comma che prevede una responsabilizzazione di tutte le pubbliche amministrazioni nell’assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. Tramite questa modifica, si cerca di assicurare la solvibilità nel tempo del debito e si estende all’intero sistema il vincolo di bilancio che per il livello centrale di governo opera grazie all’art. 81.

Il vincolo di coerenza con l’ordinamento europeo in merito ai suddetti principi certamente denota l’avvenuta intensificazione dei vincoli europei alle politiche nazionali di bilancio; tuttavia la locuzione “in coerenza” con la quale si esprime il Legislatore all’incipit della norma, lascia intendere anche che in astratto restano fermi importanti elementi di flessibilità che consentono un certo margine di manovra a livello nazionale.

La conformità, ad esempio, è evidente laddove, in ossequio alle regole del Patto di Stabilità e Crescita “l’equilibrio di bilancio è individuato nell’obiettivo di medio termine, in relazione al deficit strutturale (non nominale) depurato dagli eventuali effetti negativi del ciclo economico e al netto di misure temporanee e una tantum, mentre il percorso di convergenza entro lo scostamento massimo ora consentito dal Trattato (0,5 del PIL) tiene conto della sostenibilità complessiva delle finanze di ciascuno Stato, oltre che di eventuali deviazioni dovute a circostanze eccezionali”[35].

Ad ogni buon conto, il suddetto vincolo di coerenza dovrà essere rispettato da ogni amministrazione pubblica[36] dotata di un proprio bilancio. Di qui, la previsione di vincoli finanziari anche a carico degli Enti pubblici territoriali, al fine di non rendere vano l’impegno assunto a livello nazionale.

Non sfugge come la circostanza dell’applicazione dei limiti di spesa al complesso delle amministrazioni pubbliche, si pone in contraddizione con i principi di decentramento fiscale di cui all’art. 119 Cost., vale a dire con l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa in capo alle Regioni e agli Enti locali. Dunque, in linea teorica bisognerebbe optare in via alternativa o per la limitazione della spesa pubblica oppure per l’autonomia e la responsabilità locale. Al riguardo, la legge rinforzata n. 1/2012, cercando di conciliare le due esigenze, stabilisce l’introduzione per tutte le pubbliche amministrazioni di regole sulla spesa che consentano di salvaguardare gli equilibri di bilancio, nonché la riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo nel lungo periodo, in coerenza con gli obiettivi di finanza pubblica (art 5, I comma, lett. e))[37].  

Quanto all’art. 117 Cost., invece, è stato modificato nel terzo comma così spostando la materia della “armonizzazione dei bilanci pubblici” dalla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni alla competenza esclusiva dello Stato al quale, dunque, non è più affidata solamente la definizione dei principi fondamentali in materia, ma anche la normativa di dettaglio, anche di natura regolamentare. Con la riforma di tale articolo, la normativa ordinaria ha ottenuto una copertura costituzionale esplicita, atteso che già nel 2011 con il D.Lgs. del 23 Giugno n. 118 attuativo della Legge delega n. 42/2009 in tema di federalismo fiscale, aveva già introdotto disposizioni in materia di armonizzazione dei bilanci degli enti territoriali ai fini del consolidamento dei bilanci delle pubbliche amministrazioni nel loro complesso.

Con riferimento all’art 119 Cost., norma che attribuisce agli enti territoriali autonomia finanziaria, cioè di entrata e di spesa, viene modificato il primo e il sesto comma per cui nel nuovo sistema l’esercizio dell’autonomia finanziaria viene subordinato al rispetto dell’equilibrio dei bilanci e viene specificato anche che le autonomie territoriali  sono obbligate a contribuire ad assicurare l’osservanza degli obblighi europei. Inoltre si pongono ulteriori vincoli, rispetto a quelli già esistenti nella versione dell’art 119 post riforma del titolo V, all’indebitamento delle autonomie territoriali: nello specifico, l’indebitamento deve essere accompagnato dalla contestuale definizione di piani di ammortamento e deve rispettare la condizione che per il complesso degli enti di ciascuna regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio[38].

Proprio in relazione alle autonomie territoriali, la riforma sembra mostrare maggiore rigidità, atteso che per esse l’equilibrio di bilancio è espressamente individuato dall’art. 9, I comma, della Legge 243/2012 “in presenza di un saldo non negativo in termini di competenza e di cassa tra le entrate finali e le spese finali e tra le entrate correnti e le spese correnti, incluse le quote di capitale delle rate di ammortamento dei prestiti”. In tal caso, dunque, si prevede il conseguimento del pareggio connesso ad un complessivo risparmio pubblico, senza alcun riferimento all’andamento del ciclo economico e in assenza di una disciplina riguardante quegli eventi eccezionali che, a livello centrale, giustificano il ricorso all’indebitamento[39].

 Alla luce delle modifiche apportate al quadro normativo italiano, occorre sottolineare come sia più giusto parlare di “equilibrio di bilancio”, quale concetto certamente compatibile con la presenza dell’indebitamento, piuttosto che di “pareggio di bilancio”, quale concetto più rigoroso che non si concilia affatto con la presenza dell’indebitamento, in quanto – nonostante la richiamata Legge costituzionale n.1/2012 menzioni espressamente nel titolo quest’ultima locuzione – i novellati articoli della Costituzione fanno riferimento all’ “equilibrio dei bilanci” e anche la Legge rinforzata n. 243/2012 si pone in questo senso non solo in generale, ma anche con riferimento allo Stato, agli enti territoriali, nonché alle amministrazioni pubbliche non territoriali.[40]

Tuttavia, il dibattito sulla dicotomia di cui sopra non deve essere enfatizzato: infatti, se lo si rapporta al contesto normativo in esame (art. 3, lett. a) e b) del Fiscal Compact in coerenza con l’art 3 della legge 243/2012), l’utilizzo di espressioni diverse, non sta a significare che il Legislatore abbia voluto attenuare il rigore degli obiettivi stabiliti ab origine; piuttosto le due espressioni possono essere considerate come equivalenti, cioè indicatrici di un unico fenomeno.

 

3.   La compromissione della sovranità finanziaria dello Stato e le conseguenze sulla tutela dei diritti sociali.

Se è vero che il processo di integrazione europea a cui gli Stati dell’eurozona sono chiamati è necessario al fine di evitare il vertiginoso incremento della spesa pubblica e del conseguente indebitamento, è altresì vero che si registra un modello di governo dell’economia e della finanza caratterizzato da un eccessivo controllo, preventivo e successivo, a livello europeo sulle singole politiche nazionali che fa scemare i poteri dei Governi e dei Parlamenti con riferimento alla politica economica ed in particolare a quella di bilancio. Ed infatti, le nuove regole della governance economica europea e le consequenziali riforme attuate nei vari Stati membri, hanno alimentato – e continueranno ad alimentare – dibattiti in tema di forte ridimensionamento, se non addirittura di annullamento, della sovranità statale in subjecta materia.[41]

Quanto all’Italia, è evidente il depauperamento della sovranità finanziaria statale –  intesa questa come facoltà dello Stato di riconoscere i propri debiti e le eventuali forme di pagamento volte alla estinzione degli stessi – che si è avuto con la novella costituzionale del 2012[42]. L’’indirizzo politico nazionale è stato sovrastato dalle decisioni europee, così che – come è stato giustamente rilevato – il binomio Parlamento-Governo è costretto dai vincoli sovranazionali a svolgere un’attività sempre più di tipo “recettizio-normativa” piuttosto che di tipo “politico normativa”[43]. In questo senso, l’iter di approvazione della legge di bilancio di cui all’art 81, primo comma della Costituzione, appare in spregio alla sovranità statale, come una mera ratifica dei vincoli europei.

Il problema non è di poco conto se sol si considera che la nostra Costituzione, per come è stata formulata, non contempla una vera e propria separazione tra Stato e mercato, con la conseguenza che le norme di carattere economico trovano un limite nei valori sociali; viceversa, il modello ripreso dall’Unione europea è quello tedesco, nella cui Costituzione la materia economica è del tutto autonoma, per cui non è previsto il dovere di adattare le scelte economiche all’ utilità e dignità sociale.[44]

Dunque, la nostra Carta fondamentale è caratterizzata ormai dalla configgente  compresenza dei principi di matrice europea legati ai vincoli di bilancio e dei diversi, preesistenti principi caratterizzanti lo Stato democratico, con la conseguenza che occorre, a livello interno, operare un bilanciamento tra i primi e i secondi senza che questo si risolva nella compromissione del sacrosanto principio dell’eguaglianza sostanziale, vero fondamento dei diritti sociali.[45]

In linea generale, infatti, i diritti de quibus, quali ad esempio il diritto al lavoro di cui all’art 4, il diritto alla salute di cui all’art. 32, il diritto all’istruzione e all’educazione rispettivamente previsti negli artt. 33 e 34, ricalcano tutti una situazione di difficoltà individuale e sociale, meritevole pertanto di essere rimossa proprio in ossequio al sopra richiamato principio di cui all’art. 3, secondo comma, della Costituzione.

Tuttavia, è ben noto come ai fini di un effettivo riconoscimento, i diritti sociali necessitano di un intervento positivo da parte dello Stato con la conseguenza che ogni pretesa sugli stessi è possibile solo nel caso in cui siano poste in essere, ad opera del potere pubblico, le condizioni necessarie per il loro soddisfacimento.  In altri termini, l’attuazione dei diritti sociali è lasciata alla discrezionalità del Legislatore con la conseguenza che, per la natura stessa delle prestazioni da erogare e per il diverso grado di azionabilità della pretesa da parte del singolo, essi sono condizionati ad una ponderazione di carattere politico che dovrà valutare l’entità della spesa che lo Stato è chiamato a sostenere per il riconoscimento di tali diritti, affinché tale spesa non diventi insostenibile a tal punto da compromettere l’equilibrio di bilancio[46].

Dunque, nonostante i diritti sociali godano di tutela costituzionale, il livello di protezione degli stessi varia in funzione del momento storico, in quanto dipendente dalle dinamiche politiche del periodo di riferimento. Vi è da dire, però, che anche tale natura condizionata presenta dei limiti, nel senso che sussiste sempre un’area di soddisfacimento dei diritti sociali che deve essere sempre garantita: sul punto, la Corte Costituzionale – che già negli anni ottanta aveva parlato in termini di contenuto minimo essenziale – si è nuovamente espressa sulla portata del nucleo indefettibile dei diritti sociali[47]. Al riguardo, si riscontra un limite al sacrificio dei diritti sociali nei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali sui quali lo Stato – a seguito della nota riforma del Titolo V della Costituzione – ha assunto una competenza legislativa esclusiva ex art. 117, II comma, lett. m) Cost., ciò significando che lo Stato deve provvedere alla definizione dei LEP, mentre alle Regioni è riservata la competenza legislativa in merito alla erogazione degli stessi potendo assicurare prestazioni anche oltre il livello essenziale, sempre che riescano ad erogarle nel rispetto dell’equilibrio economico. E’ evidente come tale impostazione, in un contesto di crisi economica nel quale tutte le pubbliche amministrazioni sono tenute al rispetto dei limiti di spesa, rischia di compromettere la tutela dei LEP e conseguentemente l’uniformità di trattamento sul territorio nazionale imposto dal principio di uguaglianza. Significativo è il contesto sanitario, in merito al quale l’OCSE[48] ha rilevato notevoli disparità tra le Regioni nell’assicurare la qualità dell’assistenza medica, in quanto il modello di tutela della salute tende più all’obiettivo del contenimento della spesa sanitaria che a quello della qualità dell’assistenza. Inoltre, stante la crisi economica, la razionalizzazione della spesa sanitaria ad opera dello Stato ha finito per pregiudicare, soprattutto nel Sud del Paese, molti Servizi Sanitari Regionali (SSR) che non riescono ad assicurare neanche i Livelli essenziali.[49]

In definitiva, i livelli essenziali di prestazione si dovrebbero porre al di fuori dell’area che comprende i diritti finanziariamente condizionati, non potendo essere sacrificati in nome di esigenze di bilancio. La Corte Costituzionale, infatti, si è sempre appellata a tali livelli essenziali, nonché al principio di gradualità delle risorse economiche, al fine di salvaguardare la tutela dei diritti sociali anche nelle situazioni di carenza delle risorse[50].

 Ciò posto, e rinviando l’esame sulla giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale sulla tutela dei diritti sociali al paragrafo successivo, è evidente come la riforma costituzionale del 2012 – così come descritta in precedenza – rischia seriamente di comprimere la tutela effettiva dei diritti sociali, sia a livello statale che a livello locale: ciò perché, in estrema sintesi, la costituzionalizzazione del vincolo di bilancio va in un certo senso ad apportare una sostanziale modifica alla nostra Carta fondamentale che prima coordinava le scelte economico-finanziarie con i diritti e i poteri dell’individuo, mentre ora è di gran lunga più orientata alle procedure di bilancio e al potere di spesa.

Dunque, alla luce della modifica introduttiva del pareggio di bilancio, bisogna giungere ad una interpretazione della normativa volta a risolvere il conflitto tra vincoli europei e i “diritti a prestazione”: in particolare è da chiedersi, come operare un bilanciamento tra le due esigenze che rischia di incidere sulla nostra forma di Stato sociale i cui caratteri hanno certamente subìto un’alterazione.[51]

Per concludere, lasciando per un attimo da parte i profili di criticità[52] di una riforma che – in quanto etero imposta – non ha certo valorizzato le nostre Istituzioni con conseguenti ripercussioni negative per la collettività nazionale, non può essere sottaciuto come la scelta di costituzionalizzare il vincolo di bilancio è la conseguenza giuridica di una passata politica interna poco avveduta che ha lasciato traccia nel nostro debito pubblico e che, necessariamente, ha finito per pregiudicare (per chi di più, per chi di meno) il nostro standard di vita.

Ci si può solo auspicare che tale ripercussione sia limitata nel tempo e che, in questo senso, la riforma costituzionale sia utile a rispondere alle richieste dei finanziatori del nostro debito pubblico, nonché ad impiegare con attenzione le risorse di cui disponiamo, magari conseguendo l’ulteriore risultato di non far andare esenti da responsabilità chi di queste risorse fa un cattivo uso.

 

4.     La Corte Costituzionale tra vincoli di bilancio e diritti sociali.

In passato, la Corte Costituzionale ha sempre cercato di tracciare un equilibrio tra la garanzia dei diritti sociali e le esigenze di bilancio. Per operare il controllo sulle leggi che danno attuazione ai diritti “che costano”, si è fatto riferimento, a volte, al principio di gradualità nell’attuazione delle riforme legislative;[53] altre volte al principio di costituzionalità provvisoria di una determina disciplina che, pertanto, necessitava di uno sviluppo o di una riforma[54]; altre volte ancora, si è fatto ricorso al principio  di attuazione parziale-incostituzionale con riferimento ad un diritto sociale che si riconosce in astratto, senza assicurarlo in concreto[55]. In generale, la Consulta ha sempre cercato di assicurare il contenuto minimo essenziale dei “diritti a prestazione”, sulla base della considerazione che tali diritti prima di essere condizionati, sono espressione di valori costituzionali e, dunque, diritti inviolabili.

Come già rilevato in precedenza, la novella costituzionale del 2012 rischia di pregiudicare il riconoscimento concreto dei diritti sociali a causa del cambiamento delle priorità imposto dall’Unione europea: è doveroso chiedersi, in via preliminare, se sia giusto che la Consulta nelle sue decisioni, sia influenzata dalle logiche finanziarie; in altri termini, se sia giusto che i vincoli di bilancio siano da considerare così penetranti da precludere – o quanto meno limitare – l’adozione di sentenze costituzionali che risultano pregiudizievoli per le casse dello Stato; in sintesi, se la novella del 2012 abbia introdotto limiti alla giurisdizione costituzionale[56].

In linea teorica, la risposta non può che essere negativa, atteso che l’art. 81 della Costituzione impone l’obbligo di copertura solo alla legge, non anche ad altri atti giuridici (al riguardo la vecchia e la nuova formulazione dell’articolo in esame non differiscono). Peraltro, anche una sentenza di un giudice comune può determinare costi e non per questo tale atto giuridico deve preventivamente indicare la relativa copertura. Come è stato rilevato in dottrina, “un giudice costituzionale che si considerasse vincolato a non adottare decisioni costose, ritenendole riservate alla rappresentanza politica, confesserebbe di credere in un deficit della propria legittimazione, così compiendo un sostanziale suicidio istituzionale”.[57]

Quanto detto, porta a ritenere che l’art 81 Cost. non si applica alle pronunce della Corte Costituzionale e ciò è confermato dall’ art 17, tredicesimo comma, della legge n. 196/2009[58] laddove è previsto espressamente che le sentenze della Corte e di tutti gli organi giurisdizionali che determinano costi aggiuntivi, debbano essere coperti dal Governo e dal Parlamento (non già dagli stessi organi giurisdizionali), a nulla rilevando che tale previsione legislativa è anteriore alla novella del 2012, perché – come anticipato – sotto tale aspetto non v’è differenza tra la vecchia e la nuova formulazione dell’art. 81.

Se in linea teorica, dunque, la riforma introduttiva del pareggio di bilancio in Costituzione nessun limite ha imposto alla Corte Costituzionale sull’emanazione delle sentenze onerose per lo Stato, sul piano pratico ci può essere, anzi si ritiene doverosa, una considerazione da parte dei giudici della Consulta volta a valutare gli effetti materiali delle proprie pronunce quando queste siano molto costose. Di qui, la tecnica del bilanciamento, invocata in dottrina, tra principio del “pareggio di bilancio” e “tutela dei diritti sociali” con la precisazione – è il caso di aggiungere – che sarebbe opportuno far ricorso a tale tecnica cum grano salis, per non rischiare di frustrare un principio cardine del nostro ordinamento giuridico: quello della certezza del diritto.[59]

Ciò detto, non resta che dare uno sguardo ad alcune importanti e recenti pronunce della Corte Costituzionale, al fine di comprendere se questa abbia di fatto tenuto conto o meno dei vincoli di bilancio imposti dall’Europa per il tramite del Legislatore Costituzionale.

Rilevante, al riguardo, è la sentenza n. 70 del 30/04/2015 in materia di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, venticinquesimo comma, del D.L. n. 201 del 6/12/2011 (cd. Salva Italia) convertito con modificazioni dalla legge n. 214 del 22/12/2011 che ha escluso – per gli anni 2012 e 2013 – l’applicazione della perequazione automatica per i trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS.

Dunque, facendo ricorso a tale norma, prima che fosse dichiarata la sua incostituzionalità, si giustificava una mancata liquidazione delle quote di incremento della pensione che sarebbero spettate a titolo di perequazione automatica con riferimento agli anni 2012-2013.

Con la suddetta declaratoria di incostituzionalità, però, muta il quadro giuridico di riferimento sulle misure della perequazione che deve, allora, essere ricondotto alla disciplina ricavabile dall’art 69 primo comma della Legge n. 388 del 23/12/2000 la quale prevede, con riferimento alla fascia di importo dei trattamenti pensionistici compresa tra tre e cinque volte quello minimo INPS, l’applicazione della perequazione nella misura del 90%.

Per quanto riguarda le motivazioni, i giudici hanno ritenuto che – determinando la mancata attribuzione per due anni della perequazione automatica una lesione permanente all’importo della pensione – la norma fosse lesiva di diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale che trovano il fondamento in precise disposizioni costituzionali, quali l’art. 36 (diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto) e l’art 38, secondo comma (diritto a che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria). Quest’ultimo diritto è da intendersi connesso al principio di solidarietà e al principio di uguaglianza sostanziale di cui rispettivamente agli artt. 2 e 3 della Costituzione.

Evidente appare il riflesso finanziario che la sentenza in esame provoca, stimato in oltre sedici miliardi di euro[60] tutti da rimborsare dall’INPS ai pensionati interessati, ragion per cui tale decisione ha implicazioni molto gravi per il bilancio dello Stato di cui la Corte non sembra aver tenuto conto, in spregio al dettato dell’art 81 Cost. Di qui, un motivo di forte perplessità che vale la pena evidenziare: probabilmente, in questo caso, un bilanciamento diritti-costi   sarebbe stato doveroso perché avrebbe evitato una vera e propria voragine nel bilancio che ora si dovrà coprire. Del resto, un siffatto bilanciamento è necessario ogni qual volta i costi di una sentenza debbono necessariamente essere compensati dalla riduzione di altri diritti sociali, cioè limitando le prestazioni in materia di istruzione o sanitaria. (Se lo Stato è costretto a perequare le pensioni, è possibile che tolga risorse alle giovani generazioni). Con ciò, sia chiaro, non si intende dire che i giudici, per salvaguardare lo Stato, dovevano sacrificare indistintamente diritti e principi costituzionalmente garantiti, assumendo il principio del pareggio di bilancio come super-valore costituzionale capace di prevalere in modo assoluto; ma ben potevano operare una distinzione tra pensioni di importo modesto e pensioni di importo consistente, tutelando maggiormente i titolari delle prime. Del resto una tutela ad essi limitata emerge anche dalla lettura delle motivazioni, anche se poi, nel dispositivo si finisce con il salvaguardare tutti i titolari di trattamenti previdenziali nella stessa misura, probabilmente in nome del sacrosanto principio di uguaglianza di cui all’art 3 Cost.[61] Dunque, ben avrebbe fatto la Corte ad emettere una sentenza additiva di principio con la quale, cioè, i giudici stabilivano il principio della rivalutazione, lasciando però al Governo e al Parlamento il compito di scegliere come provvedere.[62] Una sentenza in tal senso avrebbe garantito, oltre al rispetto del principio di uguaglianza, anche la conformità al disposto di cui all’art 81 Cost., eluso – se non addirittura violato – con la sentenza emessa.

La suddetta perplessità non può che rafforzarsi se si considera la reazione del Governo alla sentenza in esame, sfociata nell’emanazione del D.L. 21/05/2015 n. 65, recante “disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzia TFR”, convertito con modificazioni in Legge 17/07/2015 n. 109[63]. In particolare l’art. 1, modificando il testo dell’art. 24 venticinquesimo comma della Legge 214 del 22/12/2011, prevede – in sostanza – un rimborso limitato e parametrato al trattamento pensionistico; o addirittura un rimborso negato quando lo stesso trattamento sia superiore a sei volte quello minimo INPS. E’ evidente come l’esecutivo abbia inteso porre rimedio alla lesione accertata dalla Corte Costituzionale, in modo parziale e graduale in nome dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica.

Tale mossa governativa, apre le porte ad un’altra seria perplessità: in assenza di un’additiva di principio, è lecito dubitare se la normativa d’urgenza – certamente adeguata alle esigenze di bilancio – possa considerarsi rispettosa della sentenza 70/2015 e dei dettami costituzionali in essa richiamati. Ed invero, la pronuncia in esame, statuendo che il diritto alla rivalutazione della pensione spettasse a tutti i titolari del trattamento pensionistico, non consentiva al Governo quel margine di manovra che, invece, lo stesso si è preso nel momento in cui ha negato il diritto alla rivalutazione ai titolari di pensioni cospicue; e questo mancato integrale rispetto della sentenza non è privo di rilevanza, atteso che potrebbe costituire, in futuro, un pericoloso precedente che, sminuendo le pronunce della Corte Costituzionale, metterebbe in serio rischio il ruolo della stessa, quale giudice posto a garanzia del rispetto dei principi e delle norme costituzionali.

Altra questione rilevante portata all’attenzione della Corte Costituzionale è quella relativa al blocco della contrattazione collettiva. E’ recentissima la decisione della Consulta[64] la quale ha stabilito che bloccare troppo a lungo la contrattazione collettiva è illegittimo. Ed invero, tutti i dipendenti dello Stato da oltre cinque anni non hanno più avuto un rinnovo contrattuale e, dunque, nessun adeguamento degli stipendi, così che per effetto dell’inflazione lo stipendio ha perso una parte del potere d’acquisto (10%). E’ stato altresì stabilito – ed è questo che qui rileva – che tale illegittimità del blocco della contrattazione collettiva è “sopravvenuta” con la conseguenza che la relativa dichiarazione decorre dalla pubblicazione della sentenza e la illegittimità vale per il futuro ma non per il passato.

La parte motiva della sentenza evidenzia una violazione della libertà dell’azione sindacale (art. 39, I comma Cost.) connessa ad altri valori costituzionali nella misura in cui il sacrificio contrattuale, consistente nella sospensione delle procedure negoziali, può essere giustificato solo per un limitato periodo di tempo e dunque non può essere protratta ad libitum, ma al contrario deve essere ben definita.

Così statuendo, è stata riaperta la strada alla contrattazione collettiva con la conseguenza che spetterà ora al Governo e al Parlamento individuare le risorse per provvedere al rinnovo contrattuale entro il 2016, ma allo stesso tempo i dipendenti pubblici non possono pretendere alcun arretrato.

E’ evidente come in tal caso i giudici della Consulta, mostrandosi più prudenti rispetto alla precedente sentenza n. 70/2015, (forse proprio in considerazione dell’accesso dibattito che quest’ultima pronuncia aveva innescato in ambito politico) abbiano operato il sopra menzionato bilanciamento tra diritti fondamentali e vincoli finanziari, evitando così un buco che avrebbe costituito una grave violazione dell’equilibrio di bilancio. La decisione che ha portato a ritenere legittimo il blocco solo per il passato, vietandolo però pro futuro, non è certo il frutto di una considerazione ottimista sulla fine della crisi economica; appare, viceversa, una decisone rispettosa di tutti i principi costituzionali che necessariamente devono essere bilanciati, nonché saggia perché ha evitato anche il verificarsi di conseguenze negative in capo ad altri soggetti titolari di diritti ai quali magari venivano, per necessaria compensazione, tagliate le risorse.

In conclusione, in uno Stato in crisi economica qual è il nostro, è importante che tutti gli organi istituzionali e giudiziari, ciascuno nel rispetto del proprio ruolo, agiscano nella stessa direzione, interagendo l’uno con l’altro e ponendosi tutti in un’ottica collaborativa al fine di rispettare certamente i vincoli di bilancio, ma senza che ciò comporti una compromissione dei valori fondamentali dell’individuo. Solo mantenendo ferma la tutela di questi ultimi, infatti, si potrà raggiungere – sebbene nella consapevolezza che ci vorrà parecchio tempo e parecchia pazienza soprattutto per le classi deboli – l’obiettivo comune: la fine del “buio” economico.

 

 

 


[1] Per un approfondimento sul tema, vedasi G. DI GASPARE, “Teoria e critica della globalizzazione finanziaria: dinamiche del potere finanziario e crisi sistematiche”, Cedam Padova 2011.

[2] Approvato nel 1997 dal Consiglio europeo di Amsterdam a seguito della adesione di undici Paesi: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi bassi e Spagna. Successivamente esteso anche a Cipro, Estonia, Malta, Slovacchia e Slovenia, tutti facenti parte della Eurozona, e poi anche a Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Ungheria, che non hanno adottato la moneta dell’Unione.

[3] Con riferimento al valore precettivo del PSC, cfr G. DELLA CANANEA “Il patto di stabilità e le finanze pubbliche nazionali” in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, n. 4, 2001, pagg. 561 e ss e R. PEREZ, “Il Patto di stabilità e crescita: verso una Patto di flessibilità”, in Giorn. dir. amm., n. 2, 2004, 1000: entrambi gli autori pongono in evidenza il passaggio dal divieto di disavanzi pubblici eccessivi, inteso in senso negativo, agli obiettivi che il PSC statuisce in positivo, imponendo il raggiungimento di determinati risultati in termini di gestione di conti pubblici.

[4] Trattasi, più precisamente, di un intervento in via preventiva attuatosi con Regolamento n. 1466/1997 per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio, nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche.

[5] E’ un intervento in via correttiva posto in essere con Regolamento 1467/1997 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi. Sull’automaticità delle sanzioni, cfr H. J. HAHN, “The stability Pact for Monetary Union. Compliance with Deficit Limits as a Constant Legal Duty”, in Common Market Law Revue, 1998, pagg. 77 e ss.

[6] La procedura sanzionatoria de qua si è attuata con la proposta di regolamento relativo all’effettiva applicazione della sorveglianza di bilancio nell’area dell’euro. (COM(2010) 524 definitivo).

[7] Per un approfondimento sul semestre europeo, nonché sulle ragioni e sugli obiettivi della riforma della governante europea, cfr. ministero dell’economia e delle finanze, dipartimento della ragioneria generale dello stato, “La modifica della Legge di contabilità e finanza pubblica alla luce del nuovo semestre europeo (Legge n. 39 del 2011)”, note brevi, aprile 2011 in www.mef.gov.it in cui è riportato il calendario secondo cui si svolge il “semestre europeo”, introdotto dal Consiglio ECOFIN del 7 Settembre 2010: nel mese di gennaio, la Commissione elabora un’analisi annuale con la quale formula le proposte strategiche per la crescita; nel mese di marzo, la Commissione stila un rapporto e lo trasmette al Consiglio, che indica le ccdd linee guida, vale a dire i principali obiettivi di politica economica dell’Unione Europea e le strategie di riforma per conseguirli; nel mese di aprile, gli stati membri – sulla base delle comunicazioni fornite – comunicano alla commissione i propri obiettivi di medio termine e le principali azioni di riforma che intendono adottare; nei mesi di giugno e luglio, il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri finanziari forniscono indicazioni specifiche ad ogni Paese, con possibilità anche di invitare lo stato membro a rivedere il programma presentato qualora non ritenuto idoneo al conseguimento degli obiettivi di medio termine indicati; infine, nei mesi successivi ciascuno Stato, in considerazione delle decisioni del Consiglio e della Commissione, predispone il bilancio e le misure idonee al loro conseguimento.

[8] Trattasi di un intervento costituito da cinque regolamenti e una direttiva, tutti pubblicati sulla G.U.U.E. 23 Novembre 2011 n. 306 a cui si rinvia. Diverso è il più recente “two Pack”: trattasi di due regolamenti UE, il n. 472 e il n. 473 del 21 Maggio 2013 del Parlamento europeo e del Consiglio europeo che costituiscono un ulteriore rafforzamento della sorveglianza di bilancio per gli Stati membri soggetti alla procedura di deficit o con difficoltà a mantenere la stabilità finanziaria.

[9] Sottoscritto il 2 Marzo 2012 da tutti gli Stati dell’Unione ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica ceca, il Trattato – entrato in vigore il 1 Gennaio 2013 – si articola in sei titoli di cui il Titolo III è interamente riservato al Fiscal compact. L’art 1 stabilisce che il patto di bilancio è stipulato tra le parti contraenti per l’adozione di una politica di bilancio comune ispirata ad un maggior rigore e ad un rafforzamento del ruolo delle istituzioni coinvolte.

[10] Le norme dei Trattati sono sempre tenute al rispetto del diritto dell’Unione: si pensi, ad esempio, al Trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità (TMES) firmato in data 2 Febbraio 2012 da venticinque Stati membri, in relazione al quale è stata la Corte di Giustizia a statuire il rispetto delle norme in esso contenute al diritto dell’Unione con la Sentenza 27/11/2012, Thomas Pringle/Governement of Ireland, Ireland and Attorney General, (causa C-370/2012).

[11] In tal senso, cfr. G. BONVICINI – F. BRUGNOLI (a cura di), “Il Fiscal Compact”, in Quaderni IAI, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012; Per completezza cfr. L.S. ROSSI “Fiscal Compact e Trattato sul Meccanismo di Stabilità. Aspetti istituzionali e conseguenze dell’integrazione differenziata nell’UE”, in Il Diritto dell’Unione Europea, n. 2, 2002, 296.

[12] F. NUGNES,“Il Fiscal Compact. Prime riflessioni su un accordo ricognitivo”, in www.forumcostituzionale.it, 6 Marzo 2012

[13] Per un analisi più specifica e approfondita, si veda “Il trattato sul Fiscal Compact”, 94/DN 16 Aprile 2012, XVI    Legislatura a cura di Davide Capuano in www.senato.it

[14] Così è stabilito nella versione definitiva dell’art 4, in assonanza con quanto previsto nell’art. 2 del regolamento CE n.1466/1997 così come modificato dal regolamento UE 1177/2011. Nella vecchia formulazione antecedente al 15 Dicembre 2011 non si richiamava il suddetto regolamento con la conseguenza che le modalità di riduzione del debito erano meno flessibili in quanto non connessi alla realtà economica valutabile da Commissione e Consiglio: vedasi l’art. 2,par. 4 del citato regolamento UE 1177/2011.

[15]Con riferimento al ruolo dell’Italia nella riforma della governance europea, al ruolo del Parlamento italiano nell’attuazione della riforma costituzionale, nonché alla tecnica redazionale adoperata dal Legislatore interno, si rinvia a C. BERGONZINI, “Parlamento e decisioni di bilancio”, Franco Angeli Editore, 2014.

[16]Al riguardo, non v’è timore di essere smentiti, atteso che esso statuisce in via generale che “ciascun paese conserverà la competenza di scegliere gli interventi politici specifici che si riveleranno necessari per conseguire gli obiettivi comuni, ma si presterà particolare attenzione alle possibili misure elencate […]” e, nello specifico sulla disciplina del bilancio, che “Gli Stati membri partecipanti si impegnano a recepire nella legislazione nazionale le regole di bilancio dell’UE fissate nel patto di stabilità e crescita. Gli Stati membri manterranno la facoltà di scegliere lo specifico strumento giuridico nazionale cui ricorrere ma faranno sì che abbia una natura vincolante e sostenibile sufficientemente forte (ad esempio costituzione o normativa quadro). Anche l’esatta forma della regola sarà decisa da ciascun paese (ad esempio potrebbe assumere la forma di «freno all’indebitamento», regola collegata al saldo primario o regola di spesa), ma dovrebbe garantire la disciplina di bilancio a livello sia nazionale che subnazionale”.

[17]Per dovere di completezza si ritiene opportuno riportare per esteso il testo della norma citata: “le projet de rèvision n’est pas prèsenté au rèfèrendum lorsque le Prèsident de la Rèpublique dècide de la soumettre au Parlement convoqué en Congrès; dans ce cas, le projet de rèvision n’est approuvé que s’il réunit la majorité des trois cinquièmes des suffrages exprimés. Le Bureau du Congrès est celui de l’Assemblée nationale”.

[18]Per un’analisi dettagliata dell’esperienza francese, si rinvia a I. CIOLLI, “I Paesi dell’Eurozona e i vincoli di bilancio. Quando l’emergenza economica fa saltare gli strumenti normativi ordinari”, in rivista AIC n. 1/2012 pagg. 9 e ss.

[19]M.PASSALACQUA, “Pareggio di bilancio contro intervento pubblico nel nuovo art. 81 della Costituzione” in www.uniss.it secondo cui l’inserimento del vincolo del pareggio di bilancio in costituzione non è risolutivo in quanto appare estremamente difficile per la Corte Costituzionale censurare efficacemente la violazione di questo obbligo percorrendo la via del ricorso incidentale.

[20]In questo senso, cfr A. WEBER, Die Reform der Wirtschafts- und Währungsunion in der Finanzkrise, in EUZW, n. 24/2011, 940, secondo il quale la necessità di rivedere le Costituzioni degli Stati membri è derivata da una debolezza del quadro normativo euronitario. In senso contrario, G.L. TOSATO, “La riforma costituzionale del 2012 alla luce della normativa dell’Unione: interazione fra livelli europeo e interno”, in www.cortecostituzionale.it per il quale la riforma è stata irrilevante perché il principio del pareggio di bilancio è già presente in un ordinamento, quello sovranazionale, prioritario rispetto a quello interno.

[21] Per approfondire la tematica sul dibattito relativo al processo di costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, cfr N. LUPO, “Costituzione europea, pareggio di bilancio ed equità tra le generazioni”, Notazioni sparse in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 25/10/2011.; C. GORETTI, “Pareggio di bilancio e credibilità della politica fiscale: il ruolo del fiscal council nella riforma costituzionale italiana” in www.astrid-online.it 20/01/2012; F. BILANCIA “Note critiche sul c.d. pareggio di bilancio”, D. CABRAS, “Su alcuni rilievi critici al c.d. pareggio di bilancio” e G. BOGNETTI, “Il pareggio di bilancio nella Carta costituzionale” tutti in www.rivistaaic.it n. 2/2012.

[22] In tal senso A. BRANCASI, “L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: un esempio di revisione affrettata della Costituzione” in www.forumcostituzionale.it.

[23] Del resto, le menzionate due caratteristiche (non necessarietà e rilevanza) della riforma sono state affermate nel saggio della relazione conclusiva presentata al 58° Convegno di Studi amministrativi (“Dalla crisi economica al pareggio di bilancio: prospettive, percorsi e responsabilità”, Varenna, Villa Monastero, 20-22 settembre 2012) di M. LUCIANI, reperibile sul sito www.camera.it. Precisamente, quanto alla non necessarietà, nel saggio si fa espresso riferimento alla lettera dei governatori BCE, al Patto Europlus e al Fiscal Compact e si evidenzia come in nessuno di questi emerge un autentico dovere giuridico di revisione costituzionale; con riferimento, invece, alla rilevanza, si sottolinea come l’attuata riforma modifica radicalmente il regime della legislazione nazionale.

[24] Per un’analisi dettagliata degli articoli novellati dalla riforma costituzionale del 2012 e sulle conseguenze della stessa, soprattutto con riferimento agli Enti territoriali minori, si rinvia a F. GUELLA, “Sovranità e autonomia finanziaria negli ordinamenti composti La norma costituzionale come limite e garanzia per le dimensioni della spesa pubblica territoriale”, Collana della Facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Trento, pagg. 515 e ss. Rimanendo sul piano generale, in un passaggio l’Autore definisce l’equilibrio di bilancio introdotto in Costituzione come un’obbligazione di risultato, vale a dire un obiettivo comune che si concilia con una quota di autonomia nel come raggiungerlo, atteso che una stretta proceduralizzazione è intervenuta solo nel sistema di controllo finale, non sulle modalità di realizzazione. 

[25] In tema di tutela costituzionale del principio del pareggio di bilancio di cui all’art. 81 Cost prima e dopo la novella 2012, si veda l’esaustivo articolo di G. SCACCIA, “La giustiziabilità della regola del pareggio di bilancio”, Rivista n. 3/2012 del 25/09/2012, reperibile all’indirizzo www.rivistaaic.it

[26] Così G. DI GASPARE “Innestare un sistema di equilibrio della finanza pubblica ritornando all’art. 81 della Costituzione”, in Le procedure finanziarie in un sistema istituzionale multilivello, G. Di Gaspare – N.Lupo (a cura di), Milano 2006, 201.

[27] Sent. n. 1 del 1966 reperibile all’indirizzo www.giurcost.org/decisoni/1966.0001s-66.html; Per una nota a tale       sentenza cfr V. ONIDA, “Portata e limiti dell’obbligo di indicazione della copertura finanziaria nelle leggi che importano maggiori o nuove spese”, in Giur. Cost. 1966, 1-1. Per un approfondimento sulla originaria formulazione dell’art. 81 Cost., cfr A. BARTOLE, “Art. 81” in Comm. Alla Cost., G. Branca (a cura di) Bologna – Roma 1979; V. ONIDA, “Le leggi di spesa in Costituzione”, Milano 1969.

[28]  Così G. EINAUDI, “Lo scrittoio del presidente”, Einaudi, Torino 1956, 205.

[29] Pubblicata in G.U. del 15 Gennaio2013 in conformità al dettato della legge costituzionale che ne prevedeva l’approvazione entro il 28 Febbraio 2013. Le disposizioni costituzionali ivi contenute hanno trovato applicazione a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014.

[30] Il motivo per cui si parla di “bilanci” non già di bilancio, va rinvenuto nel fatto che la norma impone il rispetto del principio da parte di ogni singolo bilancio, a tutti i livelli e per ogni comparto della pubblica amministrazione. In questo senso, cfr M. BOCCACCIO “L’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione e la legge rinforzata n. 243/2012” , Note e Studi 1/2014 in www.assonime.it

[31] Così D. DE GRAZIA, “L’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione (tra vincoli europei e zelo del Legislatore)”, in Giur. Cost. 2012, 2497.

[32] In tal senso A. BRANCASI, “Il principio del pareggio di bilancio in Costituzione” in Quad. cost. 2012, 1; M. LUCIANI, “Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini”, in www.astrid-online.it/rassegna il quale ritiene che le ipotesi di indebitamento siano appunto due: la prima legata allo scopo di considerare gli effetti del ciclo economico, la seconda legata al fare fronte al verificarsi di eventi eccezionali. A rendere alternative le due condizioni, non cumulative, è l’inciso presente nella norma “previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti”.

[33] Precisamente nella parte in cui recita che la stessa legge deve provvedere alla “definizione delle gravi recessioni economiche, delle crisi finanziarie e delle gravi calamità naturali quali eventi eccezionali ai sensi dell’art 81, secondo comma Cost., al verificarsi dei quali sono consentiti il ricorso all’indebitamento non limitato a tenere conto degli effetti del ciclo e il superamento del limite massimo degli scostamenti negativi cumulati, sulla base di un piano di rientro”.

[34] D. DE GRAZIA, “L’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione (tra vincoli europei e zelo del Legislatore)”, op. cit., 2513.

[35] Così T.F. GIUPPONI, “Vincoli di bilancio, Stato costituzionale e integrazione europea: una nuova occasione di dialogo tra Corti?”, reperibile all’indirizzo www.forumcostituzionale.it.

[36] Secondo il Sistema europeo dei conti nazionali e regionali (SEC95) nel concetto di pubbliche amministrazioni sono comprese “tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finalizzata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionale la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e della ricchezza del Paese”.

[37] In questo senso, cfr. G. PISAURO, “La regola del pareggio di bilancio e la politica fiscale nella Grande Recessione: fondamenti teorici, economici e pratici”, in R. BIFULCO, O. ROSELLI (a cura di) “Crisi economica e trasformazione della previsione giuridica, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio tra internazionalizzazione economica, processo di integrazione europea e sovranità nazionale”, Giappichelli, Torino, 2013, 126 e ss.

[38] Alcuni principi costituzionalizzati ad opera della legge n.1/2012, erano già presenti nel nostro ordinamento grazie alla legge n. 196 del 31 Dicembre 2009, novellata nel 2011 per coordinarla con il semestre europeo del settembre 2010.

[39] Cfr, amplius, T. F. GIUPPONI, “Vincoli di bilancio, Stato costituzionale e integrazione europea: una nuova occasione di dialogo tra Corti?”, op. cit.

[40] Come anticipato, la distinzione tra “pareggio di bilancio” e “equilibrio di bilancio” era stata già in precedenza messa al centro della sentenza n.1/1966 della Corte Costituzionale, laddove i giudici optarono, con riferimento alla vecchia formulazione dell’art 81 Cost., per il principio statico e meno rigido dell’equilibrio di bilancio. Ora, con riferimento alla nuova normativa, non potendo approfondire in questa sede il dibattito tra le due locuzioni riportate, si rinvia a A. BRANCASI, “Il principio del pareggio di bilancio in Costituzione”, in www.osservatoriosullefonti.it il quale afferma che una situazione di pareggio è scarsamente significativa quando tra le entrate sono iscritte risorse da reperire mediante la contrazione del debito pubblico. Si veda, altresì, T.F. GIUPPONI, “Il principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio e la sua attuazione”, in Quad. cost., 2014, 1, 58.

[41] In realtà, come ritiene R. PEREZ, “Cessioni di sovranità e poteri di bilancio” Relazione al 58° Convegno di studi amministrativi, Dalla crisi economica al pareggio di bilancio: prospettive, percorsi e responsabilità, Varenna 20-22 Settembre 2012, 4, la riduzione dei poteri in materia di bilancio per gli Stati membri è progressiva e si suddivide in tre tappe: la prima iniziata con il Trattato di Roma del 1957 che prevede disposizioni in materia di bilancio e di moneta unica; la seconda avutasi con i Trattati di Maastricht e di Amsterdam, rispettivamente del 1992 e del 1997, contenenti numerose disposizioni finanziarie; in ultimo, la terza ed ultima collegata alla crisi dei debiti sovrani iniziata nel 2007. Sul tema, cfr pure V. ONIDA, “Le leggi di spesa nella Costituzione” Milano 1969, pagg. 218 e ss, secondo cui si può affermare che oggi, l’autonomia di bilancio per molti Stati membri, non esiste più.

[42] Cfr G. DI GASPARE, “L’art. 81 della Costituzione, abdicazione della sovranità finanziaria dello Stato?” in www.amministrazioneincammino.luiss.it, secondo cui la vera novità della nuova formulazione dell’art. 81, non risiede nella reintroduzione del pareggio di bilancio, poiché – come rileva – il Fiscal compact non ha bisogno di tale innovazione per essere efficace nel nostro ordinamento, bensì nella costituzionalizzazione della perdita della sovranità finanziaria dello stato italiano.

[43] Si veda, al riguardo, l’l’esaustivo articolo di C. GOLINO, “I vincoli di bilancio tra dimensione europea e ordinamento nazionale”, reperibile all’indirizzo www.amministrazioneincammino.luiss.it. Sul tema della progressiva cessione di quote di sovranità economica da parte delle Istituzioni interne in favore di quelle europee, cfr G. RIVOSECCHI, “L’indirizzo politico finanziario tra Costituzione italiana e vincoli europei”, Cedam, Padova 2007.

[44] Cfr C. GOLINO, “I vincoli di bilancio tra dimensione europea e ordinamento nazionaleop. cit., che rimanda, con riferimento alla Costituzione economica tedesca, a N. WIMMER – T. MULLER, “Wirtschaftsrecht. International – Europaisch – National”, 2. Auflage 2012.

[45] Proprio in tema di principi comunitari ed uguaglianza sostanziale, tipica invece della nostra Costituzione, F. SALMONI, “Legalità costituzionale e forma di Stato: aspetti teorici e profili pratici di due concetti apparentemente in crisi”, in Rivista di diritto Costituzionale, 2004, 127,  rileva che invece di essere l’ordinamento comunitario a conformarsi ai principi fondamentali dell’ordinamento nazionale, è quest’ultimo che si modella sul primo     valorizzando l’eguaglianza formale e il principio di non discriminazione.

[46] Cfr F. MERUSI, “I servizi pubblici negli anni ottanta”, in Quad. reg. n. 1,1985, 39 e ss. a cui è da attribuire l’espressione “diritti finanziariamente condizionati”.

[47] Il richiamo è alla sent. n. 10/2010 inerente questioni di legittimità costituzionale sollevate avverso il D.L, 78/2010 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”.

[48]Rapporto Reviews of Health Care Quality: Italy 2014, Raising Standards pubblicato in data 15/01/2015.

[49]Così E. CAVISINO, I livelli essenziali di assistenza e la Costituzione, relazione al Convegno nazionale Anaao Assomed, Napoli 26 Settembre 2015.

[50]Per un approfondimento sulla tematica dei livelli essenziali di prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali, cfr. M. LUCIANI, “I diritti costituzionali tra Stato e Regione (a proposito dell’art. 117 co. 2 lett. m) della Costituzione) in San. Pubbl., 2002, 1025; L. TRUCCO, I livelli essenziali delle prestazioni e la sostenibilità finanziaria dei diritti sociali, reperibile all’indirizzo www.gruppodipisa.it; A. SPADARO, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo modello sociale europeo: più sobrio, solidale, sostenibile), reperibile all’indirizzo www.rivistaaic.it 4/2011.

[51]Sull’argomento, cfr C. GOLINO, “Il principio del pareggio di bilancio: evoluzioni e prospettive”, CEDAM 2013 in cui l’Autore, evidenziando le criticità della riforma costituzionale del 2012, è dell’avviso che la logica meramente economica dell’Unione sia del tutto inadeguata per uscire dalla crisi, per cui occorre che a livello interno si recuperi un’identità europea costruita sul welfare e dunque – più che sui bilanci in pareggio – sulla tutela dei diritti, sulla solidarietà e sulla assistenza sociale.

[52]Per un’analisi più approfondita al riguardo, cfr M. PASSALACQUA, “Pareggio di bilancio contro intervento pubblico nel nuovo art. 81 della Costituzioneop. cit. e M. NARDINI, “La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio secondo la teoria economica. Note critiche” in www.amministrazioneincammino.luiss.it

[53]Il riferimento è alla Sent. n. 205 del 30/05/1995 con la quale la Corte Costituzionale dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 12 giugno 1984, n. 222 (Revisione della disciplina dell’invalidità pensionabile), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione.

[54]Il principio fu invocato dalla Consulta nella sentenza n. 826 del 1988 in materia di telecomunicazioni con la quale i giudici costituzionali rilevarono il carattere della temporaneità della legge vigente, dunque la necessità di emanare di lì a poco (non oltre ogni ragionevole limite temporale) una nuova normativa che avrebbe giustificato la precedente, a pena di incostituzionalità di quest’ultima.

[55]Si rinvia alla lettura della nota sentenza n. 215 del 1988 in tema di integrazione scolastica degli alunni disabili con la quale si sancisce il diritto alla integrazione per i portatori di handicap in modo pieno ed incondizionato, ed esteso non solo alla scuola dell’obbligo ma a tutte le scuole di ogni ordine e grado.

[56]In tema di effettive conseguenze della riforma costituzionale, si veda G. SCACCIA, “L’equilibrio di bilancio fra Costituzioni e vincoli europei”, in www.osservatoriosullefonti.it in cui l’Autore rigetta l’idea di uno smantellamento dello Stato sociale e, anzi, è dell’idea che le norme europee,internazionali e costituzionali che pongono vincoli alle decisioni di bilancio, siano “debolmente prescrittive, porose a valutazioni e apprezzamenti di ordine politico se non appositamente costruite per ammettere continue eccezioni alla regola che hanno appena posto”, con la conseguenza che il relativo controllo costituzionale è destinato ad essere poco energico e incapace di influire sulle relazioni tra i soggetti politici di vertice, per cui non si alterano gli equilibri della forma di governo.  L’ Autore, in questo senso, richiama il giurista tedesco J. Isensee secondo cui il vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione appartiene al regno dell’apparenza (Shein) e non a quello della realtà (Sein). Ciò non significa, tuttavia, che a seguito della novella, le scelte di bilancio non subiscano limiti effettivi di ordine costituzionale: oltre ad essere aumentate notevolmente le questioni di legittimità costituzionale proposte in riferimento alla violazione dell’art. 81 Cost., La Corte ha mostrato negli ultimi due anni di voler esercitare un controllo più restrittivo rispetto al passato, rendendo l’articolo 81 una clausola generale di ragionevolezza finanziaria delle leggi.   

[57]Le parole sono di M. LUCIANI, “L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità” Relazione al Convegno “Il principio dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012”, Roma 22 Novembre 2013, reperibile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it

[58]La norma citata recita:”Il Ministro dell’economia e delle finanze, allorché riscontri che l’attuazione di leggi rechi pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, assume tempestivamente le conseguenti iniziative legislative al fine di assicurare il rispetto dell’art 81, quarto comma, della Costituzione. La medesima procedura è applicata in caso di sentenza definitive di organi giurisdizionali e della Corte Costituzionale recanti interpretazioni della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori oneri, fermo restando quanto disposto in materia di personale dall’art. 61 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.

[59]Di questo avviso, M. LUCIANI, “L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità”, op. cit. che, al riguardo, si esprime in termini di “bilanciamento ineguale”, volendo dire che se si bilanciano esigenze finanziarie e diritti fondamentali, le prime soccombono sempre salvo dimostrare che il loro sacrificio implica il parallelo sacrificio di altri (controinteressati) diritti fondamentali.

[60]Calcolo stimato da A. MISANI, “Pensioni, la voragine potrebbe superare i sedici miliardi” reperibile sul sito www.nens.it

[61]Così S. CECCANTI che, nel suo articolo “Una sentenza che lascia due seri motivi di perplessità”, inserito nell’ampio dibattito sulla sentenza 70/2015 pubblicato su www.federalismi.it, evidenzia la discrepanza tra motivazioni e dispositivo, sostenendo che mentre le prime “hanno come perno il minimo vitale dei diritti sociali, la tutela dei titolari di trattamenti previdenziali modesti, il secondo finisce almeno nell’immediato, per rimuovere il limite esistente per tutti i pensionati”. 

[62]Così, S. CASSESE, “Pensioni, le strade possibili della Corte costituzionale”, articolo di commento alla sentenza 70/2015 reperibile all’indirizzo www.corriere.it

[63]Pubblicata in Gazzetta ufficiale 20/07/2015 n. 166.

[64]Sentenza del 24 Giugno n. 178, resa dalla Corte Costituzionale in relazione alle questioni di legittimità costituzionali sollevate con le ordinanze R.O. n. 76/2014 e n. 125/2014.

Valentini Federico

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