L’equa riparazione nella giurisprudenza della corte di appello di potenza.

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§ 1. Introduzione.
Con la legge n. 89/2001 (cd. Legge Pinto) il legislatore nazionale ha traslato in Italia il contenzioso in materia di irragionevole durata dei processi sino ad allora devoluto alla cognizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Esigenze pratiche sono alla base della introduzione della Legge Pinto: tra gli Stati che hanno ratificato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), l’Italia era infatti quello in cui risultavano il maggior numero di violazioni dell’art. 6 della Convenzione Europea[1] e l’enorme contenzioso aveva intasato la stessa Corte Europea innanzi alla quale anche la durata dei processi stava divenendo irragionevole (non inferiore a tre anni).
Con la opportuna devoluzione in Italia dei (nuovi) processi per violazione dell’art. 6 CEDU, il legislatore ha previsto e disciplinato un rito molto veloce (camera di consiglio innanzi alla Corte di Appello) che si conclude entro 4 mesi dal deposito del ricorso, con decreto motivato ricorribile in Cassazione. Per quanto riguarda la competenza per territorio, il legislatore ha opportunamente mutuato dal codice di procedura penale la “regola rotatoria” di cui all’art. 11 per cui la durata irragionevole dei processi celebrati innanzi ad autorità appartenenti al distretto di Corte di Appello di Lecce dovranno essere incardinati innanzi alla Corte di Appello di Potenza (mentre la Corte di Lecce conoscerà della durata irragionevole dei processi celebrati innanzi ad Autorità Giudiziarie “baresi”).
Le prime applicazioni giurisprudenziali della Legge Pinto avevano dimostrato significative divergenze dalla prassi giurisprudenziale della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sotto diversi aspetti: individuazione degli standard di durata ragionevole dei processi, onere della prova del danno, entità degli indennizzi, indennizzabilità del danno non patrimoniale a favore degli enti parti di un processo irragionevolmente lungo.
Con gli arresti delle Sezione Unite della Cassazione del 26.01.2004 (sentenze n. 1338, 1339, 1340 e 1341) si è fatta chiarezza su gran parte dei punti controversi: la Suprema Corte, infatti, ha stabilito il principio secondo cui in tema di equa riparazione, poiché la Legge Pinto richiama l’art. 6 della CEDU[2], la giurisprudenza nazionale ha l’obbligo di conformarsi alla giurisprudenza della Corte Europea che è l’organo appositamente preposto per l’interpretazione delle norme della CEDU e, quindi,  anche dell’art. 6. Affermato tale principio, le Corti territoriali sono dunque tenute ad applicare le coordinate ermeneutiche elaborate della Corte Europea che, in punto di standard di durata, ha fissato una sorta di “cronografo” secondo cui il primo grado di giudizio di cognizione (di un processo sia civile, sia penale che amministrativo) deve durare al massimo tre anni; il secondo grado 2 anni, il giudizio di Cassazione 1 anno. Sempre ai sensi della vincolante giurisprudenza della Corte Europea, il danno non patrimoniale non ha bisogno di essere provato dalla parte ricorrente, ma si presume sussistere in presenza di una durata irragionevole del processo e sempre che non sussistano particolare circostanze (quali la piena consapevolezza nel ricorrente della infondatezza delle proprie ragioni) le quali, se provate dalla Avvocatura dello Stato, fanno venire meno la presunzione di sussistenza di un danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo. Discorso diverso la Corte Europea ha fatto in relazione al danno patrimoniale che potrebbe derivare dalla irragionevole durata; in tale caso, infatti, il ricorrente ha il (difficile ) onere di provare non solo la sussistenza di tale forma di danno ma anche (e soprattutto) il nesso di causalità tra irragionevole durata e danno.
La giurisprudenza delle Corti territoriali ha mostrato di recepire in pieno le coordinate interpretative della Corte Europea in tema di riparto dell’onere della prova, così come anche imposto dagli arresti delle Sezioni Unite prima menzionati. Sicchè oggi, chi ricorre per l’equa riparazione e, come normalmente accade, domanda il solo danno non patrimoniale, ha solo l’onere di allegare la sussistenza di tale danno e la sua derivazione dalla irragionevole durata del processo presupposto, onere tuttavia molto rigoroso nella giurisprudenza della Corte Potentina che rigetta i ricorsi in cui non si è adempiuto a tale onere di allegazione. Atteggiamento molto formale e rigoroso ha assunto la Corte di Appello di Potenza anche in relazione alla necessaria procura alle liti di cui deve essere munito il difensore che adisce tale Corte: la legge Pinto prevede che tale procura debba essere speciale ma la Corte Potentina, discostandosi dalla giurisprudenza della Cassazione sul punto, non considera speciale la procura apposta a margine o in calce al ricorso introduttivo che contenga il riferimento “al presente procedimento”. L’opinabile orientamento della Corte Potentina è forse la principale causa di rigetto dei ricorsi per equa riparazione (inammissibilità del ricorso per difetto di procura speciale). Orientamento più elastico sul punto si riscontra nella giurisprudenza della Corte di Appello di Lecce.
Per quanto concerne l’ammontare degli indennizzi, la Corte Europea ha fissato degli standard[3]: tra i 1.000 ed i 1500 € per ogni anno di irragionevole durata (ossia successivo al terzo) salva la possibilità di ottenere somme maggiori nei processi in cui la posta in gioco è elevata (ad es. cause lavoristiche o familiari, controversie dal grande valore, etc) o somme minori nei processi dalla posta in giuoco esigua.
Nelle prime applicazioni giurisprudenziali, proprio sull’aspetto del quantum dell’indennizzo si era registrata una forte distonia con gli indennizzi sino ad allora attribuiti dalla Corte Europea: la Cassazione ha però enunciato il principio secondo cui il discostamento non ragionevole dagli indennizzi attribuiti dalla Corte Europea costituisce vizio della decisione censurabile in Cassazione (SS.UU. n. 1340/2004 cit.).
§ 2. Il problema della indennizzabilità del danno non patrimoniale in favore degli enti.
La giurisprudenza della Corte Europea si era posta il problema della configurabilià del danno non patrimoniale agli enti parti di un processo irragionevolmente lungo. Il problema nasceva dalla considerazione che gli enti, essendo privi di fisicità, non possono soffrire le lungaggini processuali e quindi nulla può essere loro riconosciuto a titolo di danno non patrimoniale. Tale questione è stata tuttavia chiarita dalla Corte Europea con una decisione presa a camere riunite (la Grande Chambre)[4] ai sensi della quale il danno non patrimoniale è configurabile anche in relazione agli enti, così come alle persone fisiche (e quindi col solo limite della non manifesta infondatezza delle ragioni della parte): la sofferenza morale sarebbe infatti configurabile con riferimento alle persone fisiche che rappresentano l’ente. La giurisprudenza della Corte Europea si è poi uniformata al menzionato arresto. La Corte di Appello di Potenza, tuttavia, è costantemente orientata nel senso di non riconoscere agli enti il danno non patrimoniale, argomentando in termini di assenza di fisicità e quindi di incapacità a soffrire, e avvalora la propria tesi riferendosi a due sentenze della Cassazione[5] che, in violazione della giurisprudenza della Corte Europea, negano agli enti l’accesso al danno non patrimoniale con le medesime argomentazioni.
In attesa, quindi, di un  auspicabile e definitivo pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione sul punto, resta la non possibilità attuale di ottenere l’indennizzo per gli enti, se non attraverso il ricorso in Cassazione (che mediamente dura 2 anni in materia di equa riparazione) e successivo giudizio di rinvio innanzi alla Corte di Potenza in diversa composizione.
§ 3. Aspetti di diritto successorio nei giudizi di equa riparazione.
Nei processi irragionevolmente lunghi non è infrequente il decesso di una delle parti nel corso dello stesso. In tale ipotesi, se al momento del decesso il processo aveva già assunto una durata irragionevole, la giurisprudenza è pacificamente orientata nel riconoscere che nel patrimonio del defunto si è maturato il diritto alla equa riparazione e questo si trasmette jure successionis ai suoi eredi, in proporzione alle rispettive quote ereditarie.
In tali ipotesi, la giurisprudenza è tuttavia molto rigorosa nel richiedere adempimenti formali agli eredi che agiscono per ottenere la equa riparazione spettante al loro dante causa: occorre infatti fornire la prova del decesso attraverso certificato di morte (pena il rigetto del ricorso per omessa prova dell’evento morte) e la prova della qualità di erede attraverso la produzione della dichiarazione di successione o atti notori. La giurisprudenza della Corte di Appello di Potenza è ricca di ricorsi rigettati nel merito per mancata produzione del certificato di morte, omissione cui non si può neanche ovviare nel giudizio di Cassazione.
Se invece il decesso della parte processuale avviene in un periodo in cui il processo ha ancora una durata ragionevole, nulla è dovuto agli eredi jure successionis, non essendosi ancora maturato nel patrimonio del de cuius alcun diritto alla equa riparazione. Gli eredi tuttavia, succedendo nel processo, iniziano a vivere lo stesso e, se questo si dovesse protrarre per oltre tre anni (dalla data dell’apertura della successione), allora gli eredi maturano nel proprio patrimonio (quindi jure proprio e non jure successionis) il diritto alla equa riparazione che, in questo caso, non spetterà loro in proporzione alle rispettive quote ereditarie ma equitativamente a ciascuno di essi secondo gli standard risarcitori fissati dalla Corte Europea e prima esposti.
Un interessante contrasto tra la giurisprudenza della Corte Europea e quella della Corte di Potenza è rappresentato dalla individuazione del soggetto nei cui confronti è dovuta la equa riparazione: la Corte territoriale, con un argomentare molto formalistico, afferma che solo alla parte processuale stricto sensu intesa è dovuta la equa riparazione, ossia a tutti e soli i soggetti che si siano formalmente costituiti in giudizio. Diverso è l’avviso espresso dalla Corte Europea[6] secondo cui l’equo indennizzo compete a tutti i soggetti comunque coinvolti nel processo, ossia ai destinatari diretti degli effetti dello stesso, a prescindere dalla loro formale costituzione in giudizio.
Tale contrasto giurisprudenziale non è di poco momento atteso che è frequente, almeno nei processi civili, che al decesso della originaria parte processuale non faccia seguito la formale costituzione in giudizio dei suoi eredi, come consentito dall’art. 300 c.p.c., ed il processo formalmente continui nei confronti della parte deceduta “processualmente ancora in vita”.
In tali ipotesi nessun dubbio che i destinatari diretti della sentenza siano gli eredi della parte processuale (non costituiti in giudizio), ciononostante la Corte di Appello di Potenza nega loro il diritto alla equa riparazione perché non hanno mai assunto la qualità formale di parte processuale, pur essendo succeduti nel processo ex art. 110 c.p.c.   
 


[1] Ai sensi dell’art. 6 CEDU (diritto ad un equo processo) “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale…”
[2] Ai sensi dell’art. 2 comma I L. 89/2001, infatti, “Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali…sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo I, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”.
[3] Si veda, per tutte, Corte Europea, sentenza 10.11.2004 (Riccardi Pizzati c. Italia).
[4] Sentenza 06.04.2000, B. Comingersoll SAB c. Portogallo.
[5] Cass. 10 aprile 2003 n. 5664; Cass. 30 settembre 2004 n. 19647 (pubblicate su Giust. Civ. 2005, I, 59)
[6] Corte Europea, sentenza 20.07.2004, W.K. c. Italia).

Lucarini Giuseppe

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