Ius soli, ius sanguinis e modelli alternativi di cittadinanza

Scarica PDF Stampa
Uno sguardo alla L. 5 Febbraio 1992, n.91

La questione della cittadinanza e della sua concessione da parte di Stati democratico costituzionali a soggetti “stranieri” è tornata ad essere, soprattutto alla luce delle ondate migratorie recentemente abbattutesi sui paesi dell’Unione Europea (ed in particolar modo sulla nostra penisola), uno fra i più controversi temi che hanno animato il dibattito filosofico e politico degli ultimi anni.

I classici modelli di cittadinanza ancora oggi costituiscono un riferimento primario per qualunque attività di studio concernente i valori e gli elementi fondanti di uno Stato democratico costituzionale, il quale ha il dovere, oltre che l’obbligo, di garantire a tutti gli individui (indipendentemente dall’attribuzione dello status di cittadino o meno) quei diritti imprescindibili che trovano massima espressione e compiutezza nella Dichiarazione universale dei diritti umani[1].

Per sapere tutto su questo argomento leggi anche “Immigrazione, asilo e cittadinanza” a cura di Paolo Morozzo della Rocca.

Il modello francese: lo ius soli

Il primo modello da porre sotto osservazione è quello francese. In relazione a questa concezione, il criterio di appartenenza che lega un soggetto ad uno Stato è determinato dallo ius soli: ciò significa che un individuo viene considerato cittadino francese per il solo fatto di essere nato nel territorio della Repubblica francese.

Affinchè tale modello possa radicarsi nella legislazione vigente di un dato Stato, risulta fondamentale un’apertura ed una disposizione da parte di quest’ultimo all’accoglienza di soggetti provenienti da qualsiasi parte del mondo, con poche, o quasi nulle, caratteristiche comuni in termini di lingua, cultura e tradizioni.

L’attribuzione della cittadinanza, dunque, secondo la tradizione francese, avviene sulla base del possesso di determinati requisiti de facto, ossia lo ius soli o addirittura, la semplice residenza. Se si pone sotto lente d’ingrandimento quest’ultima via d’accesso, appare chiaro come la Francia abbia completamente lasciato alla storia, nell’accordare o meno la cittadinanza ad un dato soggetto, concetti quali discendenza, genealogia o etnia.

Per certi versi il modello francese funge da monito e mette in guardia dal pericolo (più che mai attuale) di legare a doppio filo il concetto di cittadinanza con quello di nazionalità; infatti la concessione della prima dovrebbe basarsi su regole democratiche (cristallizzate in norme di rango costituzionale), non facendo neanche il minimo riferimento alle “origini” che un essere umano possa o meno “vantare”.

Il modello tedesco: lo ius sanguinis

Diametralmente opposto al modello francese vi è quello tedesco, il quale considera elemento necessario per la concessione della cittadinanza, lo ius sanguinis: può essere considerato cittadino tedesco a tutti gli effetti solo chi è figlio, a sua volta, di cittadini tedeschi.

Va da se che la visione tedesca in merito alla cittadinanza affonda le proprie radici su un elemento che risulta essere, invece, del tutto assente nella concezione francese, ossia l’etnia, l’omogeneità.

Risulta innegabile come il considerare centrale l’elemento dell’omogeneità nell’attribuzione o meno della cittadinanza sia incidente anche sulle finalità che il potere politico intende portare a compimento in un dato momento storico; basti pensare alla concezione di tale status giuridico durante il regime nazista.[2]

L’intenzione non è certo quella di paragonare la passata realtà tedesca, piegata alle macabre “logiche” del nazismo, a quella attuale, che a contrario, si è spesso rivelata un mirabile esempio di inclusività. Preme però porre l’accento su come un concetto che all’apparenza può apparire innocuo, ossia quello dell’omogeneità, sia stato invece preso spesse volte a pretesto, nel recente passato, per compiere i crimini più aberranti nei confronti dell’umanità. In una società in complessa ed in continua evoluzione come la nostra, la disomogeneità culturale e la convivenza delle differenze sono dei fenomeni che debbono essere presi in degna e seria considerazione.

Il modello interazionistico

 

Rispetto alla visione francese ed a quella tedesca della cittadinanza, spicca, fra gli altri, un terzo modello, definito interattivo o interazionistico, secondo il quale i requisiti per l’acquisto della cittadinanza non devono ricercarsi nella discendenza, nell’etnia o nell’omegeneità culturale di un dato gruppo di individui, bensì nel dato di fatto che questi ultimi condividono uno schema di convivenza comune in una situazione di contiguità[3]. Il modello propone una partecipazione attiva dei soggetti nella costruzione di una comunità politica, basata sul valore dell’inclusività e dell’attuazione del bene comune.

Punti di pregio del modello interattivo o interazionistico alla luce della recente realtà europea.

In accordo con quanto detto sinora, anche semplicemente osservando il tratto multiculturale della società odierna, il modello interazionistico sembra essere il più spendibile sul piano pratico, dal momento che tiene nella dovuta considerazione i differenti stili di vita delle persone e le scelte che essi compiono, le quali devono, tuttavia, essere finalizzate ad una pacifica convivenza all’interno della comunità.

Altro merito da attribuire al modello interazionistico è la sua naturale apertura ad una maggiore collaborazione fra gli Stati, nell’ottica di una cittadinanza comune[4].

Restando alla realtà europea, può essere utile richiamare le vicende referendarie britanniche per sottolineare come appare ormai chiaro che in molti paesi, una volta pilastri di un sentire comune e “comunitario”, la tendenza sia quella di un ritorno vigoroso alla sovranità nazionale. Tale fenomeno, che in larga misura, ma con modalità differenti, riguarda molti stati facenti parte dell’Unione, si pone nettamente in controtendenza rispetto ai principi fondamentali su cui si basa il modello interazionistico. Ma la chiusura dello Stato nella propria sovranità nazionale, nei suoi “particolari” interessi economici, spesso attraverso spinte di natura populista, può essere considerata realmente la soluzione alle sfide ed alle emergenze dei nostri tempi? La risposta, almeno alla luce di quanto sopra esposto, non può che essere negativa.

Brevi considerazioni sulla cittadinanza intesa come “premio” nel recente caso Ramy e necessità di una  riforma delle legge 5 febbraio 1992, n.91

 

Il principio su cui si basa la cittadinanza italiana è quello dello ius sanguinis[5], anche se è previsto l’acquisto iure soli[6] in alcuni casi tassativi. Tra gli altri, vi è anche un caso di ottenimento della cittadinanza per meriti speciali: la legge, infatti, dispone che lo straniero può ottenere lo status di cittadino italiano “quando rende eminenti servizi all’Italia o quando ricorre un eccezionale interesse dello Stato”.[7]

A Ramy Shehata e Adam El Hamami, i due ragazzi di origine egiziana che lo scorso marzo hanno chiamato i soccorsi, evitando la strage di San Donato Milanese e la morte in un bus di cinquanta persone per mano di un attentatore, è stata concessa la cittadinanza italiana proprio sulla base di questo atto di eroismo. La suddetta vicenda non ha fatto altro che porre in evidenza come la cittadinanza “premio” sia stata concessa a due bambini, nati e cresciuti in Italia, che, de facto, erano in tutto e per tutto “cittadini” del nostro paese già da prima della concessione “ufficiale” dello status in questione. Se si riflette attentamente, la concessione della cittadinanza a Ramy e Adam ha palesato tutta l’inadeguatezza, rispetto alla società attuale, della legge italiana sulla cittadinanza. Questa legge necessita, senza più il minimo dubbio, di una riforma sostanziale, in termini di adeguamento delle norme che la compongono alle esigenze di quasi un milione di minori stranieri che stanno formandosi nelle scuole italiane[8] e che contribuiscono, giorno dopo giorno, allo sviluppo del nostro paese senza poter però affermare di essere a pieno titolo cittadini dello Stato “ad ogni effetto di legge”.

Volume consigliato

Note

[1] La Dichiarazione universale dei diritti umani venne adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948. Questo documento consta di 30 articoli e un preambolo che vanno a cristallizzare i diritti individuali, civili, politici, economici e sociali di ogni essere umano.

[2] Lungi dal voler effettuare scomodi parallelismi, a titolo esemplificativo, si rinvia al terzo capitolo del Mein Kampf (Membri dello Stato e cittadini), ADOLF HITLER, La mia battaglia, Gherardo Casini, Roma, 2010, pp. 51 e ss.

Nel succitato capitolo, possiamo riscontrare, seppur in termini teorici, un preludio a quella che poi risulterà essere, nei fatti, la visione della Germania nazista riguardo al “problema” della cittadinanza.

[3]Il chiaro riferimento è all’opera di M. LA TORRE, cittadinanza e ordine politico, Giappichelli editore, Torino 2004, p.298.

[4] Per un approfondimento sul tema della cittadinanza che valica i confini nazionali, G. PECES-BARBA, Educacion para la ciudadania y derechos umanos, Espasa, Madrid, 2007.

[5] Risulta essere cittadino italiano per nascita, in virtù dell’art.1 L. n.91/92, il figlio di padre o madre cittadini.

[6] Sono due i casi di acquisto della cittadinanza iure soli, previsti dall’art 1 c. 1 (lett. b) e c. 2 L. n. 91/92.

[7] Art 9, comma 2, L. n. 91/92.

[8] “E’ un dato ormai consolidato che gli studenti di origine migratoria sono parte integrante della popolazione scolastica nazionale, rendendo di fatto la scuola italiana sempre più multietnica e multiculturale.” Si esprime cosi il MIUR nella statistica che redige nell’anno 2016/2017 relativa agli alunni con cittadinanza non italiana. Per una lettura approfondita si rinvia al link: https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/FOCUS+16-17_Studenti+non+italiani/be4e2dc4-d81d-4621-9e5a-848f1f8609b3?version=1.0

 

Dott. Andrea Cubello

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento