Istigazione a delinquere: fattispecie criminosa e condotte configurabili su Internet

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Il delitto di istigazione a delinquere è previsto dall’art. 414 c.p. (all’interno del Libro II, Titolo V “Dei delitti contro l’ordine pubblico”).

L’ambito di operatività dell’art. 414 c.p. è stato esteso da rilevanti interventi legislativi, allo scopo di assicurare la repressione di una serie di gravi reati riconducibili alla portata applicativa della fattispecie criminosa.

In particolare, l’art. 15, comma 1-bis del D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modificazioni, nella Legge 31 luglio 2005, n. 155 ha aggiunto il periodo “Fuori dei casi di cui all’articolo 302, se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà”; mentre il recente art. 2, comma 1, lett. b) D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con modificazioni, nella Legge 17 aprile 2015, n. 43 ha previsto un aggravamento di pena nelle ipotesi criminose di cui ai commi 3 e 4 art. 414 c.p. “se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”, allo scopo di adeguare la disciplina normativa alle condotte criminose sempre più diffuse che si configurano nel cyberspazio.

Il bene giuridico tutelato dalla norma può essere individuato nella protezione dell’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, funzionale ad assicurare la pacifica e tranquilla convivenza della collettività.

Ciò premesso, la norma menzionata punisce la condotta di istigazione (comma 1), consistente in qualsiasi fatto diretto a suscitare e/o rafforzare l’altrui proposito criminoso (stabilendo un differente trattamento sanzionatorio a seconda che si tratti di istigazione a commettere delitti o  a commettere contravvenzioni), nonché la condotta di apologia (comma 3), consistente nell’azione diretta a provocare l’esecuzione di delitti e la violazione di norme penali, mediante la rievocazione pubblica di un episodio criminoso.

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che le ipotesi di istigazione a delinquere e di apologia di reato, rispettivamente previste dal comma 1 e 3 dell’art. 414 c.p., anche se equivalenti rispetto alla pena e sostanzialmente simili, sono strutturalmente autonome, non tanto nel contenuto, costituito dall’esaltazione del delitto in entrambe le ipotesi, quanto nel significato direzionale. Infatti, “nell’ipotesi di istigazione la spinta al reato è diretta alla persona, mentre nell’apologia la spinta è indiretta, essendo affidata al contenuto apologetico, che può produrre i medesimi risultati dell’istigazione diretta” (Cass., Sez. I, sentenza del 1986, n. 13541).

L’elemento soggettivo richiesto dall’art. 414 c.p. sia per l’ipotesi di istigazione a delinquere sia per l’ipotesi di apologia di reato consiste nel dolo generico, che si identifica con la coscienza e volontà dell’azione idonea a determinare il pericolo che la legge vuole evitare, risultando irrilevanti il fine particolare perseguito ed i motivi dell’agire (Cass., Sez. I, sentenza del 2008, n. 40684).

Per quanto riguarda la specifica configurabilità della condotta criminosa di istigazione a delinquere, è necessario, quale elemento essenziale richiesto dalla norma, che l’istigazione sia diretta a far commettere uno o più reati, dovendosi escludere la rilevanza penale di una generica illiceità del fatto istigato. Inoltre, non è necessario che il fatto istigato abbia assunto una precisa qualificazione attraverso la specificazione del “nomen iuris”, ma è sufficiente che esso contenga i presupposti che consentano il suo inquadramento in uno o più tipi di reato previsti dall’ordinamento penale, indipendentemente dal fatto che sia promossa l’azione penale, che il reato sia punibile o compreso nell’amnistia (Cass., Sez. II, sentenza del 1961, n. 822; Cass., Sez. I, sentenza del 1967, n. 1; Cass., Sez. I, sentenza del 1975, n. 4993).

La formula “pubblicamente” indicata dalla norma va interpretata nel senso che l’istigazione deve avvenire in un luogo pubblico o aperto al pubblico e deve rivolgersi a una pluralità indeterminata di persone e il reato sussiste anche quando l’istigazione, purché effettuata pubblicamente, sia diretta soltanto ad alcuni tra tutti coloro che la ascoltano o comunque la percepiscono (Cass., Sez. VI, sentenza del 1998, n. 8850).

La Suprema Corte richiede, ai fini della sussistenza dell’elemento materiale, la propalazione pubblica di propositi aventi ad oggetto comportamenti rientranti in specifiche previsioni delittuose, in modo tale da indurre altri alla commissione di fatti analoghi, tenuto conto del contesto spazio-temporale, economico-sociale e della qualità dei destinatari del messaggio (si veda la recente Cass., Sez. I, sentenza del 2015, n. 7842).

Pertanto, ciò che conta è la sussistenza di una concreta forza suggestiva o persuasiva della condotta istigatrice idonea ad incidere sull’altrui sfera volitiva.

In tale prospettiva, l’interprete deve verificare che la condotta incriminata sia assistita dal cd.”dolo istigatorio”, consistente nella coscienza e volontà di turbare l’ordine pubblico o la personalità dello Stato, in virtù di una forza suggestiva e persuasiva tale da rendere concreto e attuale il pericolo di adesione al programma illecito, stimolando nei destinatari la commissione dei fatti criminosi diffusi (Cass., Sez. I, sentenza del 1997, n. 10641; Cass., Sez. I, sentenza del 2008 n. 40684).

Il reato di istigazione a delinquere non è configurabile nella forma del tentativo e si perfeziona nel momento e nel luogo in cui venga commesso pubblicamente un fatto di istigazione percepibile da un numero indeterminato di persone, a nulla rilevando la prova concreta della sua effettiva comprensione.

Particolarmente interessante è il caso in cui il delitto in esame sia commesso con il mezzo della stampa, ove il momento consumativo si perfeziona nel momento e nel luogo di pubblicazione dello stampato, ossia quando “lo stampato è uscito dalla sfera di privata disponibilità dell’impresa tipografica per essere messo a disposizione di una cerchia più o meno vasta di persone che abbiano la possibilità di prendere cognizione dello scritto, senza che esplichi alcuna rilevanza il fatto che ciò si verifichi effettivamente” (Cass., Sez. I, sentenza del 1978, n. 1636).

La natura del delitto di istigazione a delinquere è stata al centro di un contrasto interpretativo, che ha alimentato un vivace dibattito giurisprudenziale.

In particolare, una prima tesi ritiene che il reato in esame abbia natura di pericolo concreto, richiedendo, ai fini della punibilità del fatto, la sussistenza di un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti (a titolo esemplificativo, si veda Cass., Sez. I, sentenza del 2001, n. 26907; Cass., Sez. I, sentenza del 2012, n. 25833).

Ne consegue che “l’esaltazione di un fatto di reato o del suo autore finalizzata a spronare altri all’imitazione o almeno ad eliminare la ripugnanza verso il suo autore non è, di per sé, punibile, a meno che, per le sue modalità, non integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, il cui accertamento, riservato al giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato” (Cass., Sez. I, sentenza del 2001 n. 26907).

Un diverso orientamento, invece, qualifica il delitto in esame alla stregua di un reato formale di mera condotta, con evento di pericolo presunto, configurabile indipendentemente dalle conseguenze derivanti dalla condotta tipica e dalla commissione o meno, d opera delle persone istigate, del reato voluto dall’istigatore.

A sostegno di tale tesi si sostiene che “la norma che sanziona penalmente l’istigazione a delinquere va inquadrata fra quelle che tendono alla protezione di beni e valori essenziali alla pacifica convivenza associata ed all’ordinato funzionamento del sistema democratico (fra i quali rientra il rispetto delle leggi, specie penali), che viene posto in pericolo da ogni azione diretta a far sorgere o rafforzare in altri un proposito criminoso” (Cass., Sez. II, sentenza del 1976, n. 576; Cass., Sez. II, sentenza del 1985, n. 428).

Per quanto riguarda la specifica configurazione del reato di apologia, invece, l’elemento oggettivo richiesto dall’art. 414, comma 3 c.p. si identifica nella rievocazione pubblica di un episodio criminoso diretta e idonea a provocare la violazione delle norme penali, nel senso che “l’azione deve avere la concreta capacità di provocare l’immediata esecuzione di delitti o, quanto meno, la probabilità che essi vengano commessi in un futuro più o meno prossimo” (Cass., Sez. I, sentenza del 1997, n. 11578).

Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza, la fattispecie criminosa prevista dall’art. 414, comma 3 c.p. costituisce una figura di reato formale o di mera condotta, con evento di pericolo presunto che costituisce di per se stessa esposizione a pericolo dell’ordine pubblico, a prescindere dal concreto accertamento della sussistenza della situazione lesiva e si perfeziona nel momento stesso dell’attuazione pubblica della condotta criminosa, a partire dal quale sorge il pericolo, presunto dalla legge, che altri possano commettere ulteriori delitti, traendo spunto dalla percepita apologia (Cass., Sez. I, sentenza del 1975, n. 10804).

Ai fini dell’integrazione del delitto, “non basta l’esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole possa apparire alla generalità di persone dotate di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell’agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di altri reati e, specificamente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato” (Cass., Sez. I, sentenza del 1999, n. 8779).

Pertanto, non è sufficiente l’espressione di un giudizio positivo su un fatto delittuoso né occorre la glorificazione del fatto delittuoso, ma è necessaria l’esaltazione di un’attività violatrice delle norme penali mediante forme di manifestazione del giudizio che, per la loro forza di suggestione o persuasione (integranti il cd.”dolo istigatorio”), siano idonei a far sorgere il pericolo di altri reati del genere di quello oggetto dell’apologia, così incidendo su specifiche situazioni dalle quali derivi un pericolo diretto ed immediato per l’ordine e la sicurezza pubblica (a titolo esemplificativo, si vedano Cass., Sez. I, sentenza del 1974, n. 4506; Cass., Sez. I, sentenza del 1980, n. 1850).

Rispetto alle fattispecie criminose punite dall’art. 414 c.p., si registra una recente pronuncia della Cassazione che ha ricostruito gli estremi della condotta di apologia dello Stato Islamico su Internet, aggravata dalla finalità di terrorismo, mediante la pubblicazione di un documento, denominato “Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare“, avente contenuto propagandistico, al fine di incentivare l’arruolamento e rafforzare l’organizzazione terroristica IS.

In particolare, con sentenza del 2015, n. 47489 i giudici ermellini, valorizzando le argomentazioni ermeneutiche della giurisprudenza costituzionale, secondo cui “l’apologia, per le modalità in cui viene realizzata, integra un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero” (Corte Costituzionale, sentenza n. 65 del 1970), precisano che l’apologia può avere ad oggetto anche un reato associativo (ivi compreso il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale di cui all’art. 270 bis c.p.), “cosicché il pericolo concreto può concernere non solo la commissione di atti di terrorismo, ma anche la partecipazione di taluno ad un’associazione di questo tipo (art. 270 bis c.p., comma 2)”.

In tale prospettiva, la Suprema Corte, dopo aver escluso “la tesi secondo cui il documento sollecitava solo un’adesione ideologica dei potenziali lettori allo Stato islamico e alle sue caratteristiche di Stato sociale, attento al benessere dei suoi cittadini”, attribuisce rilevanza penale ex art. 414 c.p. alla diffusione dello scritto in esame, liberamente accessibile su Internet, in quanto realizzato con uno stile talmente incisivo da presupporre ed accettare la natura combattente e di conquista violenta dell’organizzazione terroristica (cioè l’esecuzione di atti di terrorismo), nonché suscitare interesse e condivisione nella diffusione del modus operandi di espansione dell’IS, anche mediante l’uso delle armi, in funzione della conquista militare della civiltà occidentale, in considerazione del fatto che “il documento presentava personaggi ufficialmente classificati come terroristi nei documenti internazionali e conteneva diversi link a siti internet facenti capo all’organizzazione terroristica”.

Pertanto, anche alla luce della piena equiparazione tra sito web e stampa riconosciuta dalle recenti S.U., secondo cui anche la testata giornalistica telematica, funzionalmente assimilabile a quella tradizionale in formato cartaceo, rientra nella nozione di “stampa” di cui alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 1, e, pertanto, non può essere oggetto di sequestro preventivo in caso di commissione del reato di diffamazione a mezzo stampa (ne avevamo parlato in questo articolo), le prospettate modalità di diffusione del documento in esame sono senz’altro idonee ad integrare gli elementi costitutivi del reato di apologia, atteso che “l’accesso ai siti era libero, senza che esistesse alcun filtro di accesso” e che lo stesso soggetto agente “era consapevole della potenzialità diffusiva della pubblicazione sui siti internet, tanto da sollecitarla su un altro sito chiedendo di aiutarlo ad espandere (questo lavoro) e farlo leggere ad altri fratelli o sorelle“.

In definitiva, la “rievocazione pubblica” dell’episodio criminoso richiesto dal delitto di apologia risulta perfettamente integrata dalle modalità virtuali di diffusione telematica del documento, senz’altro idonee a far sorgere il pericolo di esecuzione di reati, in considerazione della forza suggestiva e persuasiva propria dello scritto, in cui il “discorso apologetico” risulta pienamente connotato dal “dolo istigatorio”, volto a proporre il fatto delittuoso come un modello da imitare, provocando la commissione del delitto, aggravato da finalità di terrorismo.

Dott. Alù Angelo

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