Illecito erariale da lesione all’immagine pubblica

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Corte dei Conti – Giudizi di responsabilità amministrativa per danno erariale – Sezione Giurisdizionale Sicilia – Sentenza n. 3227 del 2006 – Rapporti fra procedimento penale e contabile – Danno all’immagine – Configurabilità – Colpa grave del dirigente apicale – Sussistenza.
 
Con la sentenza n. 3227/2006, la Sezione Giurisdizionale Sicilia della Corte dei Conti ha ravvisato il requisito soggettivo della colpa grave nel comportamento di un dirigente di vertice dell’Amministrazione dell’Interno, condannato con sentenza penale irrevocabile per favoreggiamento ad appartenenti a sodalizio di tipo mafioso.
I giudici contabili hanno riscontrato che tale condotta ha determinato una diminuzione di potenzialità della capacità operativa dell’ente ed ingenerato nei cittadini la convinzione di una distorta organizzazione dei pubblici poteri; di conseguenza, essi hanno condannato il convenuto al relativo risarcimento liquidato in via equitativa ex art. 1226 c.c..
La decisione che si commenta offre lo spunto per una breve riflessione, dalla prospettiva giuscontabile, sulla fattispecie del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.
Per quanto concerne il danno all’immagine, esso si qualifica come ipotesi di danno proprio della giurisprudenza contabile, da intendersi come pregiudizio da clamor fori o da strepitus fori ossia come lesione all’immagine ed al prestigio della Pubblica Amministrazione dimostrabile mediante specifici elementi idonei a comprovare l’effettivo avvenuto discredito della Pubblica Amministrazione in conseguenza della condotta posta in essere dal responsabile (Francaviglia, 2006).
La provenienza esclusivamente interna all’Amministrazione alla quale appartiene il soggetto agente della condotta lesiva dell’immagine e del prestigio dell’Amministrazione stessa evoca nell’ambito della responsabilità patrimoniale, la distinzione tra illeciti propri ed illeciti comuni, tipica della responsabilità penale; così come nell’illecito penale esistono reati che possono essere posti in essere solo dai dipendenti pubblici, allo stesso modo nella responsabilità patrimoniale esistono danni che possono essere realizzati solo da dipendenti e/o amministratori pubblici (Longavita, 2006).
I giudici della Corte dei Conti accogliendo la definizione data dalla giurisprudenza ordinaria, qualificano il danno all’immagine subito dall’amministrazione pubblica alla stregua di danno esistenziale quale “forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione dell’integrità psico-fisica”.
“La lesione della possibilità di svolgere tali tipi di attività rappresenta un danno ingiusto ex art. 2043 c.c. e l’ingiustizia del danno ne determina necessariamente la risarcibilità “e “la violazione di questo diritto all’immagine, intesa come diritto al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica è economicamente valutabile (Corte dei Conti, SS RR. Sent. n.10/2003).
A corollario di tale impostazione si pone l’individuazione degli interessi meritevoli di tutela che giustifichino il risarcimento del danno esistenziale: l’impostazione condivisa dalla Sezioni riunite ritiene risarcibili, a tale titolo, tutti i pregiudizi provocati da lesioni di diritti costituzionalmente protetti ai sensi dell’art. 2043 c.c; le tre figure di danno risarcibile sono quindi costituite da danno patrimoniale, dal danno morale e dal danno esistenziale, al cui interno sono individuabili le sottocategorie del danno biologico di natura psicofisica e le altre ipotesi risarcitorie diverse dalla tutela del diritto alla salute (Poto).
La copertura costituzionale del diritto della Pubblica Amministrazione alla tutela della propria immagine ed identità personale, è rappresentata dall’art. 2 Cost., che tutela le formazioni sociali, e dall’art. 97 Cost., che fissa i parametri di imparzialità e buon andamento dell’agire amministrativo (Zito, 2002) e il danno s’identifica nella mancata realizzazione della specifica finalità perseguita dalla norma di tutela e coincide con la sua violazione.
Più propriamente è il cosiddetto danno morale come conseguenza della lesione all’immagine che deriva da eventuali comportamenti delittuosi, essendo pacifico che anche una persona giuridica possa subire un danno non patrimoniale per pregiudizio alla funzionalità, al prestigio, alla reputazione ed all’immagine (Pelino Santoro, 2006).
 
Il punto differenziale di maggior rilievo tra il danno all’immagine di diritto comune, ex art. 10 c.c., ed il danno all’immagine della p.a., può individuarsi nella diversa direzione dell’attacco che perpetra la lesione: esterna al soggetto nel caso di lesione all’immagine comune, interna all’ente, nel caso di lesione dell’immagine pubblica (Corte dei Conti, sez. Umbria, 557/2000).
Ed invero, nell’un caso (attacco esterno), solitamente si lede l’immagine quale bene-valore identificativo dell’ente o di una sua qualità estrinseca, che sicuramente non minaccia l’esistenza stessa dell’ente medesimo; nell’altro caso (attacco interno), invece, si lede l’immagine quale bene-valore coessenziale all’esercizio concreto dei poteri e delle funzioni pubbliche che l’ordinamento assegna all’ente (Longavita, op. cit.).
D’altra parte grava sul dipendente pubblico il dovere di tutelare l’immagine pubblica dell’Amministrazione quale valore di etica pubblica così come oggettivizzato nei codici di comportamento dei pubblici dipendenti , previsti dall’art. 58-bis del d. lgs. 29/93 e s.i.m.. ed anche alla luce dei principi generali in materia di promozione di immagine della P.A. di cui alla L. 150/2000.
Inizialmente si riconduceva il danno morale nell’ampia nozione di diritto pubblico comprensivo anche delle lesioni di interessi pubblici in senso giuridico a carattere non strettamente patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. e non suscettibile direttamente di valutazione economica (Corte dei Conti, sez. I, sent. n. 55/94; Corte dei Conti, sez. II, sent. n.114/94).
Attualmente l’indirizzo prevalente tende a collocarlo in una nozione lata di danno patrimoniale inteso come pregiudizio suscettibile di valutazione economica, configurando il danno morale non con riferimento al ristoro delle sofferenze fisiche (pretium doloris), ma come conseguente alla grave perdita di prestigio, la quale, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è suscettibile di valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.
In merito a quest’ultimo aspetto, dottrina autorevole (Perin) afferma che è innegabile che la spesa necessaria al ripristino dell’immagine pubblica non coincide necessariamente, ed anzi quasi mai coincide, con la spesa sostenuta per il ripristino dell’immagine stessa, esprimendo la prima un valore astratto e di stima delle risorse occorrenti per raggiungere gli standard di prestigio pubblico esistenti prima della lesione, e la seconda un valore reale e di contenuto di quanto già sborsato per recuperare il prestigio perso, senza tuttavia indicare la misura di tale recupero.
Il danno, in sostanza, consisterebbe nella lesione dei beni immateriali della reputazione e della estimazione dell’ente e concretamente inciderebbe in via immediata sul rapporto di affectio societatis, ovvero sulla fiducia che lega la cittadinanza agli amministratori eletti ed in via mediata sulla capacità di realizzazione dei fini istituzionali minando la base del buon funzionamento dell’istituzione (Corte dei Conti, sez. II, sent. n. 285/03).
Con riferimento a tale tipo di pregiudizio, la Cassazione ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei Conti, trattandosi di danno che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria per il ripristino del bene giuridico leso (C. Cass., S.U., sent. n. 17078/2003); la giurisdizione, però, presuppone che il fatto lesivo dell’immagine sia correlato al rapporto di servizio da intendersi anche in senso lato (Corte dei Conti, sez. Lombardia, sent. n. 249/05).
Circa l’eventuale rilevanza penale della componente fattuale, precedentemente la giurisdizione contabile rimaneva preclusa per danni conseguenti a reati commessi nell’ambito dell’esercizio di attività imprenditoriali degli enti pubblici economici (C. Cass., S.U., sent. n. 1193/2000).
Affinché sussista la lesione del prestigio occorre, inoltre, che i fatti penali abbiano avuto una risonanza ed eclatanza notevoli nell’opinione pubblica (Corte dei Conti, sez. Toscana, sent. n. 558/96); non occorre nemmeno che sia intervenuta una sentenza di condanna poiché è sufficiente che il fatto sia astrattamente previsto come reato come si desume dall’art. 198 c.p., secondo cui l’estinzione del reato e delle pene non comporta l’estinzione delle obbligazioni civili (C. Cass., sent. n. 11038/97); se però è intervenuta una sentenza di assoluzione, viene meno il presupposto cui gli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.p. subordinano il risarcimento (Corte dei Conti, sez. I, sent. n. 221/a del 2002) in quanto l’assoluzione penale per gli stessi fatti esclude di per sé la sussistenza di un qualsiasi danno all’immagine anche in sede contabile (Corte dei Conti, sez. I, sent. n. 289/a del 2002); la prova, può desumersi anche da una sentenza di patteggiamento la quale pur non accertando la sussistenza del reato ne presuppone la commissione.
Parimenti, va chiarito che quando il danno all’immagine rappresenta un’appendice di una più complessa ipotesi di danno, non si pongono problemi sugli elementi che la compongono, ed in particolare su quello soggettivo; si viene a costruire cioè una sorta di illecito gestorio aggravato dall’evento (detrimento dell’immagine e del prestigio) che viene quindi oggettivamente addossato al responsabile senza ulteriori accertamenti (Sciascia, 2003).
Con riferimento ai profili che attengono all’an del danno all’immagine, e cioè all’individuazione della condotta gravemente offensiva del prestigio e della personalità pubblica che reca sempre con se una spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso, si può precisare che:
a)                          sul piano oggettivo, deve contraddistinguersi per una sua intrinseca capacità offensiva per le specifiche connotazioni fenomeniche e di fatto che la caratterizzano, sia essa sanzionata o meno penalmente;
b)                         sul piano soggettivo, deve essere sostenuta dal dolo, se non penale almeno contrattuale, in pratica la condotta tenuta deve essere tale da evidenziare che chi ha agito, con le modalità con cui ha agito, per il bene coinvolto e per il grado di lesione arrecato, aveva la coscienza e la volontà di ledere il dovere, gravante sul medesimo, di espletare le sue funzioni con disciplina ed onore ex art. 54 Cost.;
c)                          sul piano teleologico deve avere ad oggetto un ben-valore particolarmente sensibile ed espressivo dell’immagine pubblica, quale: la giustizia, la salute, l’ordine pubblico, la sicurezza, ecc.;
d)                         sul piano sociale, infine la condotta come tale deve procurare un certo allarme tra i consociati, e quindi, un cerco clamor, a prescindere dalle notizie che di essa ne abbiano dato gli organi di informazione.
Premettendo quindi che per i giudici contabili della precitata sentenza delle sezioni riunite il danno all’immagine deve essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali come danno-evento e non come danno-conseguenza e che se la prova della lesione è in re ipsa è sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, è con riferimento ai precedenti canoni che il giudice determina equitativamente ex art. 1226 c.c. il danno all’immagine procedendo all’applicazione congiunta e coordinata di tutti i citati criteri; a tal proposito, si sottolinea altresì che tali valutazioni discrezionali devono essere congruamente motivate tenendo conto di ulteriori riferimenti quali la collocazione del danneggiante in seno all’organizzazione amministrativa; la titolarità o meno di potere rappresentativo all’esterno, le dimensioni dell’ufficio di servizio, l’entità dell’indebito vantaggio conseguito ed altri ancora utili e necessari per contenere l’amplissimo potere incardinato a tal proposito dal giudicante contabile così come paventato dalle stesse sezioni riunite più volte summenzionate che, al fine di circoscrivere, affermano che detto danno è quantificabile sia rapportandolo alle spese già sostenute che a quelle da sostenere.
Giuseppe Crucitta – Funzionario Ministero Giustizia
Rosa Francaviglia – Magistrato Corte conti
  • Qui la pronuncia.

Crucitta Giuseppe – Francaviglia Rosa

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