Il silenzio

Redazione 11/05/02
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Di Sandra Levanti

Nozione
Il silenzio, a differenza del comportamento concludente che pure costituisce forma, sebbene tacita, di manifestazione di volontà, è omissione di qualsiasi comportamento, in quanto inerzia o inattività.
Sostanziandosi in un contegno di per sé neutro ed equivoco, il silenzio non può da solo costituire manifestazione di volontà negoziale.
Tale principio, pacificamente riconosciuto in dottrina e in giurisprudenza, sembra aver trovato di recente espressa previsione legislativa in tema di contratti a distanza conclusi tra professionisti e consumatori, all’art. 9, comma 2, D.lgs. 185/99. Ai sensi di quest’ultima disposizione, in caso di fornitura non richiesta dal consumatore, “la mancata risposta non significa consenso” : al silenzio del consumatore cui venga inviato un bene o un servizio (senza che egli lo abbia richiesto) non può, pertanto, attribuirsi il significato di accettazione della proposta contrattuale che in tal modo gli viene fatta dal fornitore.
I soli casi in cui il silenzio può assumere il valore giuridico di espressione di volontà negoziale sono quelli in cui o è la legge ad attribuire ad esso un siffatto significato (c.d. silenzio con significato legalmente tipico), o è il contesto di circostanze, in cui detto comportamento silente è inserito, a conferire complessivamente allo stesso un significato rilevante agli effetti contrattuali (c.d. silenzio circostanziato).

Silenzio con significato legalmente tipico
Nel codice civile (ma anche in leggi complementari[1]) sono disseminate varie disposizioni che conferiscono al silenzio il significato di consenso o, più in generale, di approvazione (trattasi di ipotesi di inerzia corrispondenti a quelle che, nell’ambito del diritto amministrativo, vengono individuate con la qualifica di silenzio-assenso).
Si possono citare : l’art. 1665, commi 3 e 4 (accettazione dell’opera appaltata in caso di mancata comunicazione del risultato della verifica o nell’ipotesi di ricezione della stessa senza riserve) ; l’art. 1712, comma 2 (secondo cui il silenzio del mandante, al quale sia stata comunicata l’esecuzione del mandato, implica approvazione dell’opera del mandatario, anche se questi non ha rispettato le istruzioni ricevute) ; l’art. 1832, comma 1 (approvazione dell’estratto conto per effetto del silenzio conservato oltre il termine pattuito o usuale o reputato congruo secondo le circostanze) ; l’art. 1926, comma 5 (ai termini del quale il silenzio dell’assicurato vale come adesione alla proposta dell’assicuratore di modificare il contratto nel caso di cambiamento di professione dell’assicurato che incida sull’economia del rapporto) ; l’art. 2301, comma 2 (a mente del quale, in tema di divieto di concorrenza in una società in nome collettivo, il comportamento silenzioso degli altri soci vale consenso, quando l’esercizio dell’attività o la partecipazione ad altra società preesisteva al contratto sociale e gli altri soci ne erano a conoscenza).
Tuttavia, la norma codicistica che più di tutte rileva, perché da molti interpretata come volta ad attribuire al silenzio il significato di consenso, è l’art. 1333. Questo detta una speciale disciplina in ordine al contratto con obbligazioni del solo proponente[2]. Dalla lettera della norma si evince, da un lato, che la proposta diretta alla conclusione di questo genere di contratto diventa irrevocabile non appena giunge a conoscenza del destinatario[3] e, dall’altro, che il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura degli affari o dagli usi, con la conseguenza che, in mancanza di rifiuto, il contratto è concluso.
La possibilità che il rapporto si costituisca sulla base del mancato rifiuto ha fatto sorgere rilevanti problemi interpretativi in ordine alla natura e alla struttura della fattispecie modellata dall’art. 1333 c.c.. Sono in proposito prospettabili tre teorie.
Parte della dottrina ricostruisce la fattispecie in termini di contratto in senso proprio (a formazione bilaterale). Si tratterebbe, pertanto, di una normale vicenda contrattuale che si perfeziona nei modi di cui all’art. 1326 c.c., in quanto la proposta di una parte si incontra con l’accettazione dell’altra, quest’ultima ravvisabile in forma tacita proprio nel contegno omissivo dell’oblato. Una variante alla suddetta ricostruzione è quella che considera il comportamento inerte come avente valore legalmente tipico.
Altra dottrina (tra cui Gazzoni) ritiene che l’art. 1333 contempli piuttosto un’ipotesi di negozio giuridico unilaterale. Tale impostazione si fonda su due ordini di argomentazioni. Innanzitutto, si richiama la regola generale secondo cui l’accettazione contrattuale si ricollega sempre ad un contegno commissivo (dichiarativo o esecutivo) e mai ad una mera omissione. Secondariamente, si osserva che la norma prevede un potere di rifiuto in capo all’oblato che non avrebbe senso se la precedente proposta fosse una comune proposta contrattuale, che di per sé non è produttiva di effetti : non si può rifiutare, si dice, un effetto non ancora sorto.
La critica frequentemente mossa a siffatta dottrina muove dall’esigenza di rispettare il principio della sovranità del soggetto relativamente alla propria sfera giuridica, la quale non può subire modificazioni ad opera della dichiarazione unilaterale altrui. Detto principio starebbe a fondamento della regola della tipicità della promessa unilaterale (art. 1987 c.c.9, in contrapposizione alla atipicità della fattispecie contrattuale (art. 1322, comma 2, c.c.).
Si replica, tuttavia, che l’ordinamento giuridico conosce senz’altro negozi unilaterali idonei a produrre modificazioni nella sfera giuridico-patrimoniale altrui, sempre che si tratti di effetti favorevoli : si pensi al legato o alla donazione obnuziale. Più in generale si richiama lo schema del contratto a favore del terzo di cui agli artt. 1411 e ss. c.c. : dall’articolato normativo concernente tale fattispecie si ricava l’ammissibilità, in seno al nostro ordinamento, di un potere del singolo di incidere in melius sulla dimensione giuridica di un altro soggetto, che resta estraneo all’operazione negoziale, salva la rifiutabilità degli effetti così attribuiti al terzo.
Secondo l’orientamento in parola, pertanto, l’art. 1333, letto in combinato disposto con l’art. 1411, delineando un’ipotesi di negozio unilaterale, diviene il puntello normativo per superare il postulato della tipicità dei negozi unilaterlai (corollario della relatività del negozio giuridico), a condizione che si tratti di negozi da cui derivino effetti favorevoli per i terzi e salva la possibilità di rifiuto degli stessi (per il principio espresso dal brocardo “nolenti non fit donatio”).
Il potere di rifiuto, che l’art. 1333 accorda al destinatario, conferisce, tuttavia, una peculiare caratterizzazione alla fattispecie di negozio unilaterale da tale norma configurata : considerato che, di regola, l’unilateralità del negozio non incontra interferenze da parte di terzi (si pensi all’atto di rinunzia, tipico negozio unilaterale, in cui i terzi, sebbene interessati all’operazione negoziale, non possono incidere sui suoi effetti), la dottrina in commento qualifica, più precisamente, lo schema negoziale descritto dall’art. 1333 come negozio unilaterale a rilievo bilaterale.
Una terza voce nel panorama dottrinale (Sacco) ravvisa nel modello dell’art. 1333 una peculiare ipotesi di contratto a formazione unilaterale. Si ritiene, in particolare, che debba superarsi il tralaticio dogma che vuole il contratto come negozio necessariamente a formazione bilaterale o plurilaterale, ossia costituito dalle dichiarazioni negoziali, siano esse espresse o tacite, di due o più parti. L’esigenza di rispettare tale principio giustifica, appunto, la formulazione delle opposte tesi che parlano di negozio unilaterale (in contrasto, però, con la lettera del codice che, sia nella rubrica che nel testo dell’art. 1333, impiega il termine “contratto”) ovvero di contratto a formazione bilaterale (ricorrendo, però, a quella che la dottrina in commento considera una fictio iuris, ossia la qualificazione dell’inerzia dell’oblato in termini di accettazione tacita). Occorre, invece, ad avviso della suddetta dottrina, riconoscere che il contratto può perfezionarsi in virtù di una sola dichiarazione negoziale : il codice, all’art. 1333, disciplinerebbe, quindi, una fattispecie contrattuale che si fonda, in assenza di rifiuto (ossia nel caso di silenzio) dell’oblato, sulla mera proposta.
Dall’adesione all’una o all’altra delle tesi menzionate derivano rilevanti conseguenze pratiche.
Innanzitutto, con riguardo all’individuazione del momento in cui gli effetti della c.d. proposta si producono, accedendo all’idea del negozio unilaterale (o a quella del contratto a formazione unilaterale), si afferma che gli effetti sorgono già nel momento in cui l’oblato ha conoscenza della dichiarazione ; se, invece, si ritiene trattarsi di una contratto a formazione bilaterale, ne deriva che gli effetti si producono alla conclusione dello stesso, ossia dopo che sia trascorso il tempo utile all’esercizio del potere di rifiuto.
Altra importante conseguenza concerne l’applicabilità della norme sulle cause di invalidità negoziale. Ove il comportamento omissivo dell’oblato venga considerato alla stregua di una dichiarazione tacita, si applicano allo stesso le regole sulla capacità e sui vizi del consenso. In caso contrario, resta irrilevante la volontarietà o meno di una situazione che viene in considerazione, come mero fatto giuridico, solo se riferita alla decadenza dal potere di rifiuto. Così, ad esempio, nel caso in cui l’oblato che omette il rifiuto sia un minore oppure taccia perché caduto in errore essenziale o perché minacciato, secondo i sostenitori della tesi del negozio unilaterale (come pure per quelli che parlano di contratto a formazione unilaterale) il negozio stesso sarebbe valido – posto che ciò che rileva ai fini del perfezionamento della fattispecie negoziale è soltanto la proposta -, laddove invece la tesi contrattualistica tradizionale porterebbe a concludere per l’invalidità del negozio, a causa del vizio inficiante la dichiarazione tacita di accettazione.
Infine, sotto il profilo della forma, nelle ipotesi in cui quella scritta o per atto pubblico sia richiesta ad substantiam, propendendo per la tesi del contratto a formazione bilaterale si perviene ad escludere l’applicabilità dell’art. 1333 rispetto ai contratti formali : l’accettazione, in quanto desumibile ex art. 1333 da un mero silenzio, sfuggirebbe inevitabilmente al vincolo di forma prescritto per tale categoria di contratti. L’adesione alle tesi che, per diverse vie, ritengono che il negozio si esaurisca nella c.d. proposta consente, invece, di affermare la compatibilità tra l’art. 1333, da un lato, e, dall’altro, l’art. 1350 e le altre norme che impongono vincoli formali, i quali potranno riguardare la sola dichiarazione del c.d. proponente.
La giurisprudenza ha ritenuto che l’art. 1333 sia applicabile anche a vicende formali, quali la concessione di un diritto di prelazione senza corrispettivo per la vendita di un immobile. Del resto, la dottrina ha fatto opportunamente notare che la ratio degli obblighi formali talvolta imposti dalla legge è ravvisabile nell’esigenza di garantire la serietà e la ponderatezza della scelta di chi deve obbligarsi : nel caso di specie, invece, il soggetto che tace non assume alcuna obbligazione.

Non mancano, poi, ipotesi di silenzio con significato legalmente tipico di dissenso (equivalente a quello che, in diritto amministrativo, è noto come silenzio-diniego). In proposito, viene in considerazione l’art. 1399, comma 4, c.c., ai sensi del quale, in caso di rappresentanza senza potere, “nel silenzio”, mantenuto oltre il termine assegnato al dominus (falso rappresentato) dal terzo contraente, “la ratifica si intende negata”.

Talvolta, la legge ricollega più genericamente al silenzio la produzione di determinati effetti giuridici (non necessariamente involgenti la fattispecie contrattuale). Si parla, in tal caso, in generale, di silenzio giuridicamente rilevante.
Possono in tal senso enumerarsi : l’art. 329 c.c., che si riferisce al godimento dei beni dopo la cessazione dell’usufrutto legale da parte dei genitori esercenti la potestà sui figli minori “senza procura ma senza opposizione” ; l’art. 481 c.c., relativo alla c.d. actio interrogatoria, ossia alla fissazione di un termine per l’accettazione dell’eredità, con la conseguenza che il silenzio mantenuto oltre la scadenza di detto termine importa la “perdita del diritto di accettare” ; l’art. 485, comma 3, c.c., secondo cui trascorso il termine entro il quale il chiamato all’eredità, che è nel possesso dei beni ereditari e che ha compiuto l’inventario, non delibera se accettare o rinunziare all’eredità, egli si considera erede puro e semplice ; l’art. 487, comma 2, c.c., che prevede una disciplina analoga a quella di cui alla norma precedente per l’ipotesi di chiamato all’eredità che non è nel possesso dei beni ereditari ; l’art. 650 c.c., contenente una disciplina speculare a quella posta dall’art. 481, in relazione al legatario che tiene un comportamento silenzioso oltre il termine assegnatogli per decidere se esercitare la facoltà di rinunziare al legato, prevedendo per tale ipotesi la perdita del diritto di rinunziare.

Quella fin qui descritta è l’impostazione comunemente accolta da dottrina e giurisprudenza.
Occorre, tuttavia, dar conto di una parte della letteratura giuridica (Sacco), che nega l’ammissibilità di un silenzio con valore, tipizzato ex lege o ex contractu, di manifestazione di volontà negoziale : il comportamento omissivo – si sostiene – non è mai dichiarazione, in quanto è da ritenere che nei casi in cui il contratto (apparentemente) si conclude per effetto del silenzio di una parte, in realtà la legge o il contratto stesso intendono semplificare la fattispecie contrattuale, prescindendo dalla manifestazione di volontà della parte reticente. Si tratta, evidentemente, della stessa voce dottrinale che esclude la necessarietà della formazione bi- o plurilaterale del contratto, sostenendo che esso possa perfezionarsi anche in virtù della dichiarazione unilaterale di una parte : impostazione, questa, che la dottrina in questione impiega per spiegare, sotto il profilo strutturale, la fattispecie descritta dall’art. 1333 c.c..

Silenzio circostanziato
Al di fuori dei casi in cui sia la legge ad attribuire al silenzio il significato di dichiarazione negoziale, esso può assumere il valore giuridico di manifestazione di volontà quando particolari circostanze e situazioni oggettive siano tali da renderlo significativo.
La dottrina prevalente e la giurisprudenza costante sono orientate a riconoscere significatività al silenzio c.d. circostanziato, ravvisandolo in particolare nel caso in cui l’interessato aveva l’onere o il dovere di parlare e non ha parlato (“qui tacet consentire videtur, si loqui debuisset ac potuisset”). La giurisprudenza, ribadendo il principio fondamentale secondo cui il silenzio, da solo, non vale consenso, data la sua equivocità, fa salve le ipotesi in cui sia stato appunto violato un obbligo di parlare posto a carico del soggetto rimasto inerte. Detto obbligo, secondo i giudici, è desumibile dalla legge, dalla consuetudine o dagli usi o dall’uso comune, dal contratto, dal sistema invalso tra le parti, ovvero dalla speciale correttezza e buona fede nei rapporti tra le parti[4].
La descritta impostazione, sebbene incontri le critiche di una parte della più recente dottrina[5], può dirsi consolidata in giurisprudenza.
Posto che la casistica giurisprudenziale si sviluppa interamente nel settore del silenzio tenuto da un soggetto nei confronti di un altro, cui il primo è legato da un precedente rapporto contrattuale, sono fondamentalmente enucleabili due ipotesi.
La prima si verifica quando un contraente affermi un proprio diritto o neghi il diritto altrui e la controparte non dica se intende aderire. In relazione a tale evenienza, la giurisprudenza è costante nell’escludere la rilevanza del silenzio, almeno finchè non sia intervenuto un comportamento positivo, sia pure materiale, di adesione.
I giudici di legittimità applicano il suddetto principio, innanzitutto, nell’ambito dei contratti di lavoro subordinato, rispetto ai quali – statuiscono – non basta che il datore di lavoro stabilisca unilateralmente una modifica del rapporto e che il lavoratore la subisca senza contestarla : un simile atteggiamento è ritenuto compatibile con la volontà del soggetto di far valere le proprie ragioni al momento dello scioglimento del rapporto medesimo. In particolare, la Cassazione individua nella situazione di soggezione economica, in cui versa il lavoratore nei confronti del datore di lavoro, l’elemento che impedisce di valutare il silenzio del primo con lo stesso metro con cui si attribuiscono effetti negoziali al comportamento inerte tenuto da un contraente nell’ambito di altri contratti.
Con riferimento ad altra frequente evenienza processuale, la giurisprudenza reputa la mancata contestazione della fattura quale dato insufficiente ad attestare il consenso della parte.
I giudici, sia di legittimità che di merito, sono invece assai larghi nell’annettere rilevanza giuridica al silenzio serbato da un contraente a fronte del comportamento tenuto dalla controparte contrattuale in obiettivo contrasto con i doveri derivanti dal rapporto. Detto contegno omissivo viene, in particolare, interpretato in termini di mancata opposizione atta a giustificare l’altrui comportamento di ritardo o di inadempienza e, addirittura, preclusiva dell’azione di risoluzione ex art. 1453 c.c..
Pesanti le conseguenze di un siffatto asserto giurisprudenziale nei contratti ad esecuzione periodica (es. locazione), per i quali la reiterata non opposizione diventa norma anche per i ritardi futuri che, fino a nuova manifestazione futura da parte del creditore – secondo l’impostazione in parola -, sono reputati inidonei a far operare la clausola risolutiva espressa e le altre conseguenze dell’inadempimento.
La giurisprudenza ravvisa il fondamento del principio da essa così elaborato nella buona fede e nella conseguente incolpevolezza del debitore, in ragione del comportamento silenzioso del creditore.
Il descritto orientamento giurisprudenziale incontra le critiche della prevalente dottrina, la quale non vi ravvisa concrete basi legali : del resto, si osserva, il credito non può estinguersi per effetto del silenzio dell’avente diritto, conservando questi la possibilità di pretendere in qualsiasi momento l’adempimento.
Più cauta quella dottrina (Bianca) che interpreta la mancata contestazione, da parte del creditore, della inesattezza della prestazione in termini di acquiescenza, la quale, solo se rinnovata nello svolgimento del rapporto, può assumere – secondo criteri di ragionevolezza – il limitato significato negoziale di accettazione di una variazione dell’originario rapporto contrattuale.

Note:
[1] Al riguardo, viene in rilievo la fattispecie di silenzio-assenso introdotta dalla nuova legge sui trapianti (L. 91/99).
[2] Quanto all’ambito di applicazione della norma, essa si riferisce sostanzialmente ai contratti a titolo gratuito, con esclusione, però, della donazione pubblica (ove si acceda alla tesi che ricostruisce in termini contrattuali la fattispecie di cui all’art. 1333). Non rientrano, poi, nella sfera di operatività della norma in commento i contratti a titolo gratuito che stabiliscono a carico del beneficiario obbligazioni modali : il modus, infatti, pur lasciando inalterato il carattere di gratuità del contratto, rende incompatibile lo stesso con l’art. 1333, applicabile alle sole ipotesi in cui non sia ravvisabile alcuna obbligazione (neppure modale) a carico del destinatario.
Tra gli esempi giurisprudenziali di proposte senza necessaria accettazione si segnalano quelle aventi ad oggetto : il mandato gratuito e il deposito gratuito, anche se accompagnati dalla obbligazioni di cui, rispettivamente, agli artt. 1719-1720 e 1781 ; la fideiussione, quando a favore del fideiussore sia convenuto il solo beneficio d’escussione, che dà luogo, non già ad un obbligo, ma soltanto ad un onere a carico del creditore ; il mandato di credito ; la concessione gratuita del diritto di prelazione.
[3] Trattasi di un’ipotesi di irrevocabilità ex lege della proposta contrattuale, diversa dai casi di irrevocabilità “volontaria” di cui agli artt. 1331 e 1329 c.c.. Più in dettaglio, può dirsi che l’art. 1333 sancisce esso stesso la non revocabilità nella speciale ipotesi descritta ; l’art. 1331 prevede un caso di irrevocabilità della proposta ex contractu, sulla base, cioè, dell’accordo delle parti (opzione) ; l’art. 1329 fa, invece, riferimento ad un caso di irrevocabilità della proposta pur sempre volontaria, sebbene non in virtù di una convenzione pattizia, ma in base all’iniziativa unilaterale di una parte.
[4] Così, Cass. 10/4/75 n. 1326.
[5] In particolare, secondo autorevole dottrina (Bianca), la rilevanza del silenzio c.d. circostanziato non può farsi discendere unicamente dall’applicazione del principio del “si loqui debuisset ac potuisset” : l’intento negoziale – si rileva – non è desumibile dalla mera inosservanza di un obbligo, variamente fondato, di parlare, specie ove si consideri che detta inosservanza può anche essere involontaria, potendosi il soggetto astenere dal parlare per errore di diritto, dimenticanza, impossibilità e simili. Essenziale ai fini della attribuzione al silenzio del significato di consenso è, invece, secondo la dottrina in parola, il comportamento complessivo tenuto dal soggetto, da valutarsi in relazione alle circostanze.

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