Il risarcimento del danno alla salute secondo la Suprema Corte: personalizzazione, danno morale e tabelle milanesi.

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SOMMARIO

o   I presupposti per la personalizzazione del danno alla salute

o   L’autonomia del danno morale e i presupposti per la sua liquidazione

o   La prova del danno morale

o   Le tabelle milanesi

Con la recente sentenza n. 25164 del 10.11.2020, la terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi nuovamente della liquidazione del danno non patrimoniale alla salute, senza mancare una critica al riconoscimento automatico del danno morale conglobato al danno biologico, delle Tabelle milanesi.

Il rischio che si vuole evitare, è quello di liquidare il medesimo pregiudizio due volte, rischio tanto più elevato se considera che, nella prassi, le tabelle sono spesso intese come un comodo automatismo per la liquidazione dei danni, soprattutto quando manca una verifica attenta ed accurata dell’allegazione e dell’accertamento dei pregiudizi subiti nella fattispecie concreta.

Con la pronuncia citata, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul delicato argomento del risarcimento del danno alla salute, ribadisce, in linea con i precedenti arresti (Cass. civ., n. 910/2018, Cass. civ., n. 7513/2018 e Cass civ. n. 28989/2019), il principio secondo cui la voce di danno morale è autonoma e non conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, quindi, meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della “personalizzazione”, e detta, dunque, le regole precise per la sua liquidazione.

I presupposti per la personalizzazione del danno alla salute

La sentenza in commento, seguendo ormai un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, stabilisce innanzitutto, che la personalizzazione del danno, non costituisce mai un automatismo e deve trovare giustificazione “nel positivo accertamento di specifiche condizioni eccezionali ulteriori rispetto a quelle ordinariamente conseguenti alla menomazione”

Tali aspetti devono essere allegati e provati dalla vittima e consistono in circostanze eccezionali, specifiche e diverse da quelle che invece ordinariamente sono conseguenti alla menomazione e che già sono incluse nella liquidazione tabellare “standard” del danno.

Deve essere, quindi, allegato e dimostrato, ai fini della personalizzazione, un pregiudizio che concerna un’attività della vita che non è praticata dalla persona standard, ma che assuma connotati specifici, “eccezionali” e “peculiari”.

Conseguentemente, non può esser considerata “personalizzante” l’impossibilità per la vittima a cimentarsi in attività fisiche e nemmeno la lesione alla capacità lavorativa generica, che è già ricompresa nell’ambito delle conseguenze ordinarie del danno biologico (mentre, ricordiamo che l’incapacità lavorativa “specifica” viene liquidata a titolo di danno patrimoniale).[1]

Semplificando, in ambito di responsabilità medica, si pensi al caso di un soggetto che, per via di una errata diagnosi, ha perso in parte l’udito. La maggiore difficoltà d’ascolto è una conseguenza inevitabile e, quindi, identica in tutti i soggetti che hanno subito la stessa menomazione; in quanto tale, questa perdita è già considerata nel barème medico-legale di riferimento e il suo risarcimento in via autonoma costituirebbe un’illegittima duplicazione. Tuttavia, nel caso in cui quel soggetto rivesta una qualità diversa, ad esempio si immagini che sia un tenore e che per via della menomazione subita possa non essere più in grado di esibirsi, questa circostanza, non comune, non può considerarsi come una normale conseguenza ricompresa nel barème richiamato, applicabile a menomazioni dello stesso tipo per qualunque vittima.

In questi casi, sarebbe quindi legittimo un aumento della posta risarcitori ai sensi, dell’art. 138, n. 3 nuovo testo Codice delle Assicurazioni, in virtù del quale: “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico- relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale (…), può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30%“.

L’autonomia del danno morale e i presupposti per la sua liquidazione

Anche in relazione al danno morale, la Suprema Corte, in linea con i precedenti arresti (Cass. civ., n. 910/2018, Cass. civ., n. 7513/2018 e Cass civ. n. 28989/2019), ha confermato il principio secondo cui la voce di danno morale è autonoma e non conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione.

Secondo la Corte, il danno morale, sostanziandosi in uno stato d’animo di sofferenza interiore, si distingue sia dal danno biologico stricto sensu, in quanto non suscettibile di accertamento medico-legale, sia dalla menzionata personalizzazione per incidenza su specifici aspetti dinamico-relazionali.

Pertanto, la Corte precisa che, qualora non sia accertata tale sofferenza, nell’applicare le tabelle si dovrà considerare la sola voce del danno biologico senza applicare l’aumento automatico previso dalle tabelle stesse.

La correttezza della decisione è confermata dall’espresso e non equivoco contenuto del testo legislativo dinanzi citato (art. 138,  C.d.A.) che stabilisce testualmente che: “per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-sica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato” e che “nel di considerare la componente morale da lesione dell’integrità sica, la quota corrispondente al danno biologico (…) è incrementata in via progressiva e per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione“.

Trova, quindi, definitiva conferma, sia normativa che giurisprudenziale, il principio della autonomia del danno morale rispetto al danno biologico: il danno morale si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore, che prescinde del tutto dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato.

L’autonomia del danno morale è da leggersi nella più grande fenomenologia del danno non patrimoniale al bene salute. La sofferenza conseguente alla lesione del bene salute, infatti, può essere declinata in due differenti contenuti: quella “fisica e della vita di relazione” e quella “interiore” (intesa come dolore, la vergogna, la paura, la disperazione).

La prima, rientra senz’altro nelle competenze medico legali con la previsione di un range tra un minimo e un massimo, in cui il C.T.U. specifica la durata e l’entità della inabilità temporanea (danno biologico temporaneo), la percentuale di danno biologico permanente, ed indica, altresì, quanto la stessa ha inciso nelle attività della vita quotidiana, nelle capacità del soggetto relativamente al fare quotidiano.

La seconda, è rimessa, invece all’accertamento del giudice con altre modalità e/o altri ausiliari (C.T.U. psichiatra forense o psicologo giuridico) e riguarda pregiudizi ulteriori, afferenti la sfera più intima della persona e che non degenerano in danno biologico-psichico ed attengono esclusivamente alla sfera interiore:

Trattasi, in altre parole, di un disagio psicologico che non si traduce, quindi, nella compromissione delle “attività quotidiane” e degli “aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato” ma comporta comunque intense reazioni emotive e comportamentali del soggetto, e rilevanti strategie di adattamento.

Alla luce di queste considerazioni, la Cassazione indica, quindi, le regole per procedere alla giusta liquidazione della componente personalizzante e della componente morale:

  • in primo luogo, accertare se nella fattispecie concreta sussistano e coesistano aspetti specifici dinamico-relazionali e aspetti di sofferenza interiore;
  • in caso positivo, riconoscere nell’integralità il complessivo importo previsto dalle tabelle del Tribunale di Milano, che prevedono e conglobano automaticamente (e non correttamente) la componente di danno alla salute (e cioè del danno dinamico-relazionale standard) con la componente di danno morale;
  • in caso negativo, ove non sussista la prova della componente di danno morale, liquidare solo la voce di danno biologico depurata dell’aumento tabellare previsto in automatico per il danno morale;
  • in caso di positivo accertamento della esistenza di elementi personalizzanti, procedere all’aumento no al 30% del valore del solo danno biologico, depurato dalla componente morale del danno automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella.

La prova del danno morale

Quanto alla prova del danno morale, la Suprema Corte coglie l’occasione per ribadire che, per il danno morale, il ricorso alla prova presuntiva assume particolare rilievo e può costituire anche l’unica fonte di convincimento del Giudice.

Rimane, comunque, di fondamentale rilevanza il principio dell’onere di allegazione delle conseguenze pregiudizievoli da parte della vittima, che consente di stabilire il thema decidendum e alla controparte di esercitare il legittimo diritto di difesa.

Tuttavia, il danno morale, quale danno da sofferenza interiore come sopra descritto, potrà essere provato con massime di esperienza.

Le massime di esperienza sono una regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, attraverso cui il giudice fonda un ragionamento probatorio ti tipo presuntivo, e riconosce come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione.

L’utilizzazione nel ragionamento probatorio delle massime di esperienza, e della loro conseguente applicazione, risultano quindi, doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione.

Del resto, lo stesso sistema tabellare di valutazione del danno, altro non è se non un ragionamento presuntivo fondato sulla massima di esperienza per la quale ad un certo tipo di lesione corrispondono, secondo l’id quod plerumque accidit, determinate menomazioni dinamico relazionali, per così dire, “ordinarie”.

 

Le tabelle milanesi

La chiara esplicitazione delle voci di danno e la riaffermazione dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico nel risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del bene salute, consentono alla Corte di puntualizzare che le tabelle di Milano, non supportano chiaramente questi principi.

Afferma, infatti, la Suprema Corte che le Tabelle milanesi “prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno” e che queste, quindi, “pervengono, non correttamente, all’indicazione di un valore monetario complessivo costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno

È di tutta evidenza, allora, che la separata valutazione del danno dinamico-relazionale e di quello da sofferenza soggettiva interiore, costringe gli avvocati, il C.T.U. e il giudice ad una maggiore attenzione nell’accertamento del danno e della motivazione sulla congruità della liquidazione, con riferimento alla fattispecie concreta.

Di conseguenza, in caso di non accertamento dell’esistenza (anche) del danno morale, determinare il quantum applicando integralmente le tabelle di Milano che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, con l’indicazione di un valore monetario complessivo, espone concretamente al rischio che si liquidi due volte lo stesso pregiudizio costituito dalla sofferenza interiore.

Fermi i valori monetari complessivi delle attuali Tabelle, occorre, invece, considerare separatamente i valori monetari relativi al danno biologico dinamico-relazionale e quelli relativi al danno morale presenti nelle tabelle medesime.

Al riguardo, L’Osservatorio di Milano ha, quindi, di recente, prospettato la possibilità di un “ritocco” della veste grafica della Tabella milanese, con l’esplicitazione dei valori monetari compensativi delle due componenti, di talché, oltre ad essere in linea con il più recente orientamento della Cassazione, ciò consentirebbe di escludere in radice la possibilità che il giudice liquidi due volte lo stesso pregiudizio.

In questo modo, la sofferenza soggettiva interiore, non essendo più inserita (quale danno medio presunto) nel punto “danno non patrimoniale”, dovrà sempre essere in concreto accertata dal giudice sulla base delle allegazioni e prove fornite dalle parti nonché delle altre risultanze processuali della fattispecie concreta.

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Note

[1] cfr. Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 10912/2018, Cass. n. 23469/2018, Cass. n. 27482/2018 e, da ultimo, Cass. 28988/2019

Avv. Angelo Forestieri

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