Il rapporto tra imputabilità e colpevolezza

Salvatore Samo 30/12/22
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Uno degli elementi essenziali della teoria del reato è la colpevolezza. Infatti, nella teoria del reato tripartita assume rilevanza il fatto quando è tipico, antigiuridico e colpevole; mentre nella teoria del reato bipartita vi sono due elementi che qualificano il fatto: la tipicità e la colpevolezza.
Dunque, in entrambe le teorie la colpevolezza- o, come direbbe Carrara[1], l’elemento soggettivo- assume rilevanza nella qualificazione di un fatto quale reato.

Indice

1. I fondamenti della colpevolezza

L’elemento della colpevolezza discende dal principio penalistico “Nulla poena sine culpa”. L’antico brocardo latino evidenzia la centralità dell’attribuzione della signoria sugli eventi per poterli ricondurre al suo autore. Per “signoria sugli eventi” si intende quella capacità del soggetto di scegliere come agire.
Ciò significa che questi ha la possibilità di agire in modo consapevole e comprendendo quali effetti possono prodursi dalle sue azioni o non azioni. La riconducibilità di una condotta o evento al suo autore rientra nella categoria della colpevolezza soltanto se la valutazione del fatto passerà dal piano oggettivo o materiale a quello soggettivo o psicologico.
Quindi, quando si delinea la categoria della colpevolezza la rilevanza deve essere attribuita all’elemento soggettivo e non soltanto a quello oggettivo. Ciò avviene perché la colpevolezza svolge un ruolo fondamentale e costituisce un limite alla potestà punitiva dello stato, “consentendo, da un lato, di delimitare la responsabilità penale ricollegandola alle sole condotte rientranti nella sfera delle possibilità soggettive di controllo e, dall’altro, di determinare la pena in relazione alle forme psicologiche rilevanti e al disvalore dell’azione e dell’evento e di altre circostanze in cui si è formata la determinazione delittuosa”.[2]
Nella formulazione originaria della Costituzione italiana non vi era una norma avente ad oggetto la colpevolezza, ma soltanto a seguito della novella costituzionale l’art. 111 ha richiamato questo principio quale fondamentale.
È possibile ritrovare questo principio in via indiretta nell’art. 27 della Costituzione[3] e in via diretta negli art. 7 della CEDU e nell’art. 48 della Carta di Nizza.
Questo principio permette di affermare la responsabilità per fatto proprio, ossia che la responsabilità è personale e che questa si manifesta ogni volta che il reato sia riconducibile al suo autore sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
Elemento soggettivo significa che si riconduce un fatto tipico e antigiuridico a un soggetto agente, evidenziando la sussistenza della coscienza e non necessariamente della volontà. Ciò permette di definire la colpevolezza come “l’attribuibilità psicologica di un reato al suo autore”[4].

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2. Il principio di colpevolezza e le teorie della pena

Infatti, “le concezioni della colpevolezza appaiono storicamente influenzate non solo da ragioni dogmatiche interne alla costruzione sistematica del reato, ma anche da presupposti di fondo desunti sia dal generale contesto politico ideologico di riferimento, sia dal modo di intendere gli scopi e le funzioni del diritto penale”.[5]  Per cui, appare chiaro che il principio di colpevolezza debba essere analizzato alla luce delle diverse teorie sulla pena, ossia la teoria retributiva, la teoria general preventiva, la teoria special preventiva e la teoria rieducativa.
Ciascuna di queste teorie merita di essere analizzata cercando una possibile connessione con l’elemento della colpevolezza.
Kant, padre della teoria redistributiva, affermava “ punitur quia peccatum est”, ossia si punisce perché si è peccato.[6] In questa teoria la morale ( il peccato) coincide con il diritto (il reato). Quindi, si puniscono determinate condotte per il solo fatto di essere poste dalla legge quali reati. In questo modo si va a delineare una presunzione di colpevolezza, ossia colui che commette il “peccato” è automaticamente colpevole e merita di essere punito. Infatti, “questa condotta contraria al diritto penale, liberamente scelta fonda un rimprovero etico e, quindi, la colpevolezza dell’autore. Colpevolezza è riprovevolezza. La riprovevolezza del fatto legittima lo Stato a retribuirla con l’inflizione di un male – attualmente, di solito, una pena detentiva o pecuniaria – corrispondente alla misura della colpevolezza”.[7]
In questa teoria, la pena è volta a infliggere un male tanto grande da far espiare la colpa, ma non esiste un segmento processuale volto all’accertamento delle condizioni soggettive che hanno portato alla commissione del reato. Il solo fatto di aver commesso l’azione vietata significa volere la stessa.
La teoria preventiva generale[8] evidenzia l’importanza della volontà ma in una visione teleologicamente orientata. Infatti, in tale teoria si attribuisce assoluta rilevanza al concetto di deterrenza. La percezione di aver commesso un reato e la certezza di una pena prevalgono sull’aver voluto l’evento o la condotta; in questo modo l’aver commesso il fatto prevale sull’averlo voluto.  Per cui, l’elemento psicologico ha rilevanza nel momento in cui il soggetto reo comprende di aver commesso il reato e di dover essere il destinatario di una punizione. Infatti, la pena con funzione di deterrenza è volta a prevenire il reato, evidenziando in taluni casi la particolare sproporzione tra la gravità del fatto e la sanzione subita, nonché la spettacolarità di quest’ultima.
La percezione di una pena dura e certa è un momento fondamentale in questa teoria poiché induce i consociati a non commettere l’illecito. Coloro che commettono reato, conoscendo la gravità della sanzione, “meritano” questa pena, in quanto si presumono nell’azione illecita la coscienza e la volontà contra legem.
 La teoria della pena special-preventiva non attribuisce rilevanza all’elemento soggettivo in quanto il suo unico scopo è evitare che il soggetto reo commetta altri reati, essendo questi ritenuto un pericolo per la collettività;  lo stesso deve essere allontanato dalla società e deve vivere in isolamento. In questa teoria la colpevolezza si presume sussistente nel fatto commesso.
Queste tre teorie della pena sono totalmente incompatibili con l’impianto ordinamentale italiano delineato dall’art. 27 della Costituzione. Infatti, l’art. 27, comma III, sancisce che alla pena deve essere attribuita una finalità rieducativa.
Definire la colpevolezza significa comprendere in che modo la funzione teleologica della pena può realizzarsi. Colui che pone in essere una condotta tipica e antigiuridica ma senza la coscienza e la volontà non può e non deve essere punito.  Questi non può essere ritenuto colpevole in quanto manca uno degli elementi essenziali del reato: la colpevolezza. In tal caso la pena non può essere inflitta in quanto sarebbe vana: come si può rieducare un soggetto – autore di una condotta tipica e antigiuridica che ha agito senza percepire la gravità del suo atto e degli effetti, nonché del disvalore sociale degli stessi?
L’applicazione della pena nella soprarichiamata ipotesi svuoterebbe di significato l’art. 27 Costituzione, in quanto andrebbe a perseguire finalità diverse rispetto a quella rieducativa. 
Si ricordi che alla base della legge e dei principi dell’ordinamento giuridico vi è sempre la tutela della persona. In tale dimensione alcuni autori ( tra cui Moccia) parlano di stato sociale di diritto.
Lo stato sociale di diritto presuppone la tutela dei diritti delle persone in ogni caso. Punire un soggetto autore di un fatto tipico e antigiuridico, ma privo del carattere di colpevolezza, equivaler ebbe a perseguire finalità totalmente diverse rispetto a quella rieducativa.
Per esempio, nella teoria general preventiva della pena si assiste a una strumentalizzazione delle persone, in quanto si sacrificano la libertà personale e i diritti inviolabili dell’uomo al fine di perseguire obiettivi di politica criminale.
Dunque, per comprendere la relazione tra colpevolezza e pena è necessario analizzare il combinato disposto tra l’art. 27, comma III, e l’art. 27, comma I, della Costituzione.
Il fatto che la responsabilità penale sia personale e che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato permette di escludere la rilevanza penale della responsabilità oggettiva in via generale oppure della responsabilità penale per fatto altrui.
Quindi, deve sussistere un nesso di causalità tra la condotta e l’evento, ma deve sussistere anche la riconducibilità dell’azione all’elemento soggettivo del suo autore.
Se manca l’elemento soggettivo la pena non può essere irrogata, in quanto la stessa sarebbe percepita come ingiusta e non sarebbe in alcun modo perseguibile lo scopo rieducativo indicato dalla Costituzione.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 evidenzia che per applicare la pena è necessaria la sussistenza almeno nella colpa del soggetto agente, altrimenti la funzione rieducativa non si può realizzare.
Per cui, è colpevole quel soggetto che abbia realizzato con dolo o colpa un reato, in assenza di circostanze tale da rendere l’illecito necessario.
Secondo una parte della dottrina la colpevolezza è caratterizzata dalla presenza del dolo o della colpa[9], mentre secondo altri autori  sono rilevanti i diversi presupposti, quali l’imputabilità, il dolo o la colpa, l’assenza di cause di esclusione della colpevolezza o la conoscibilità del divieto penale. [10]

3. Rapporto tra imputabilità e colpevolezza

Alla luce di quest’ultima posizione dottrinaria è necessario chiarire la relazione tra colpevolezza e imputabilità.
L’imputabilità è la prima condizione per definire un soggetto quale colpevole. L’art. 85 c. p.  sancisce che “ è imputabile colui che è capace di intendere e di volere”. Si tratta di due diverse capacità: una di “intendere” e l’altra di “volere”. Secondo una parte della dottrina ( Fiandaca) si tratta di una espressione così generica da apparire tautologica. Per capacità di intendere si fa riferimento alla capacità di orientarsi nel mondo esterno, avendo la possibilità di comprendere gli effetti della propria condotta; per capacità di volere si intende quel potere di controllo degli impulsi all’azione secondo ciò che appare più ragionevole e preferibile.
È chiaro che la capacità di volere presuppone la capacità di intendere. Capacità di intendere e volere significa che un soggetto ha contezza di una determinata situazione e può ritenerla caratterizzata da disvalore sociale. Colui che percepisce che un comportamento è idoneo a ledere un bene giuridico meritevole di tutela è tenuto ad astenersi dal porre in essere tale condotta. È evidente che la connessione tra colpevolezza e imputabilità possa essere valutata da due diversi profili: il primo profilo è quello della percezione del reato, come sopra esposto; il secondo profilo è quello che ricollega l’imputabilità alla funzione rieducativa.
Infatti, il soggetto reo deve poter percepire i motivi che hanno portato il giudice a emanare nei suoi confronti un provvedimento e a infliggergli una pena. Se il soggetto reo non avesse la possibilità di capire il disvalore sociale delle sue azioni od omissioni, la pena sarebbe “inutiliter data”, ossia non potrebbe essere perseguita la funzione rieducativa.
Infatti, come può essere rieducato colui che non comprende di aver posto in essere una condotta qualificata dalla legge come reato?
Per tale motivo, l’imputabilità deve sussistere non soltanto al momento dell’irrogazione della sanzione, ma soprattutto al momento della commissione del reato. Il legislatore sancisce agli artt. 88 e ss. alcune ipotesi in cui sussistono delle cause di esclusione dell’imputabilità.
Per esempio, l’ art. 88 c.p. introduce l’istituto del vizio totale di mente, secondo cui “ non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità  in tale stato di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere”. Ulteriore esempio previsto dalla legge è la minore  età. Questa è una causa di esclusione dell’imputabilità ed è prevista dall’art. 97 c.p. che dispone “ non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”. In tale caso sussiste una presunzione di incapacità assoluta. Tuttavia, il giudice può disporre l’applicazione di una misura di sicurezza nei confronti dei minori infra – quattordicenni. Si precisa che le cause di esclusione dell’imputabilità non sono tassative; ciò significa che la capacità di intendere e di volere può essere esclusa anche da eventi diversi rispetto a quelli predeterminati dalla legge.
Ad esempio, quei soggetti che sono cresciuti in totale isolamento socio-culturale.
In dottrina e secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione si ritiene che imputabilità e colpevolezza operino su due piani distinti e separati, ove per imputabilità si intende la capacità della pena, o come presupposto o aspetto della capacità giuridica penale. Ciò significa che “ secondo questa impostazione, la mancanza di imputabilità non fa venir meno il reato, che esiste come tale, non soltanto come fatto storico materiale, provvisto anche dell’elemento della colpevolezza”[11].
Dunque, alla luce di quanto sopra esposto,  è evidente la forte connessione tra il concetto di colpevolezza e di imputabilità. Due elementi che per essere compresi devono essere letti alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale e dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, primo tra tutti quello previsto dall’art. 27 della Costituzione.

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  1. [1]

    M. GROTTO- Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, in Itinerari di Diritto Penale, collana diretta da Dolcini, Fiandaca, Musco, Padovani, Palazzo, Sgubbi, Giappichelli Editore, Torino, 2012, p. 25.

  2. [2]

    PADOVANI, Teoria della Colpevolezza e scopi della pena, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1987, p. 803. R. GAROFOLI, Manuale di Diritto penale, parte generale, XVIII ed. Neldiritto editore, Ed. R. Tartaglia, p. 859

  3. [3]

    La norma è stato oggetto di due interpretazioni diametralmente opposte. 
    PAGLIATO,  la responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto, 1966, p. 148;
    GROSSO, voce Responsabilità Penale, in NNDI, p. 710.

  4. [4]

    C.F. GROSSO, voce Responsabilità Penale, in Noviss. Dig. It. , XV, Torino, 1968, p. 707 e ss.

  5. [5]

    SANTAMARIA, voce Colpevolezza, in Enc. Dir. VII, Milano, 1960, p. 648.

  6. [6]

    M. A. CATTANEO,  Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano, 1981.

  7. [7]

    C. ROXIN,  Politica Criminale e sistema del diritto penale, Saggi di Teoria del Reato a cura di Sergio Moccia, Ed. Scientifiche italiane, p. 149.

  8. [8]

    ROXIN, Sul  problema del diritto penale della colpevolezza, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1984, p. 16 e ss.

  9. [9]

    ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1990.

  10. [10]

    G. FINDACA, E. MUSCO, Diritto penale parte generale, VIII ed. Zanichelli editore, p. 343.

  11. [11]

    CASS., Sez. I, 5.07.1990, CIARDI, CED 184987; CASS. 4.06.2002, DI Mauro.

Salvatore Samo

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