Il principio di preclusione e la richiesta di risarcimento del danno ambientale: l’intervento della Corte di Cassazione alla luce della Direttiva CE 2004/35

Redazione 23/05/19
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di Gianni Ghinelli

Sommario

1. Introduzione alla questione di diritto

2. Il caso

3. La giurisprudenza precedente e la soluzione offerta dalla Corte di Cassazione

4. Conclusione

1. Introduzione alla questione di diritto

Il presente contributo tratta dei limiti posti ai poteri processuali delle parti dal principio di preclusione nello specifico ambito di una domanda risarcitoria proposta a fronte di un danno ambientale. In particolare, l’interrogativo a cui la Corte di Cassazione ha dato risposta positiva con la sentenza del 10 dicembre 2012 n. 22382[1] concerne la possibilità di formulare la richiesta di condanna al risarcimento in forma specifica per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni.

Il provvedimento è di particolare interesse giacché, da un lato, ripercorre i principali passaggi evolutivi della disciplina interna in materia di danno ambientale e, dall’altro, sancisce un ampliamento dei poteri processuali attribuiti alle parti in materia di risarcimento di tale danno. La Corte, infatti, apre una breccia nelle barriere poste dalla precedente giurisprudenza di legittimità in materia di risarcimento del danno per equivalente ed in forma specifica[2] ed è questo aspetto a costituire l’oggetto principale della presente analisi.

Il risvolto processuale della pronuncia, tuttavia, è imprescindibilmente legato all’interpretazione che la Corte offre dell’evoluzione normativa in materia di danno ambientale concernente, in particolare, il rapporto tra il risarcimento in forma generica ed in forma specifica. Pertanto, si mettono in luce, in via di premessa, i tratti essenziali dei due profili – sostanziale e processuale – per meglio cogliere il nesso che li lega e, in definitiva, comprendere la portata del provvedimento.

Sul versante dell’evoluzione normativa del risarcimento del danno ambientale, la materia è stata oggetto di una disciplina speciale relativamente recente.

La prima regolamentazione del risarcimento del danno ambientale – che, vale la pena ribadirlo, interseca sotto vari aspetti il diritto civile con quello amministrativo – è stata introdotta dalla l. 349 del 1986, istitutiva del Ministero dell’Ambiente. Fino a quel momento la tutela del danno ambientale era stata affidata esclusivamente al rimedio civilistico dell’art. 2043 c.c., letto in combinato disposto con gli artt. 9 e 32 Cost.[3]. L’art. 18, l. 349/1986, invece, ha tipizzato l’illecito ambientale, prevedendo una responsabilità risarcitoria nei confronti dello Stato ogni qualvolta vi fosse una compromissione dolosa o colposa dell’ambiente[4]. A fronte di un danno ambientale il rimedio proposto era, anzitutto, quello del risarcimento in forma generica e, laddove possibile, il risarcimento in forma specifica – ossia la messa in pristino del sito inquinato[5].

Il primo modello tipizzato di illecito ambientale, di cui all’art. 18 l. 349 del 1986, è poi entrato in crisi[6] a seguito dell’intervento di una legislazione frammentaria, che, di volta in volta, prevedeva diversi rimedi e strumenti di tutela preventiva in relazione alle diverse componenti del bene all’ambiente[7].

La materia è stata poi riformata e riunificata nel testo unico dell’ambiente – d.lgs. 152 del 2006[8] – grazie all’impulso conferito dalla Direttiva 2004/35/Ce sulla “responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione”, con la quale il legislatore europeo ha previsto un sistema volto anzitutto alla prevenzione dei danni ambientali e, in secondo luogo, alla loro riparazione[9]. Sotto il profilo definitorio, la Direttiva mette in relazione il danno ambientale con tre risorse, ossia la biodiversità, le acque, il suolo e lo intende quale mutamento negativo e misurabile di una di queste tre risorse. La preoccupazione della Direttiva, nel segno del principio di prevenzione, è quella di evitare il danno; alla luce del principio “chi inquina paga” poi, laddove il danno si sia già prodotto, prevede meccanismi riparatori volti al ripristino effettivo della risorsa naturale danneggiata. In tal senso, l’Allegato II alla Direttiva prevede una gradazione di rimedi, tutti riconducibili all’alveo del risarcimento in forma specifica: anzitutto, l’operatore è tenuto ad un obbligo di “riparazione primaria”[10], in secondo luogo “complementare”[11] e, infine, “compensativa”[12].

Nel disegno del legislatore europeo, per le peculiarità proprie del bene ambiente, il danno ambientale può trovare una tutela esclusivamente reale; tant’è che il risarcimento per equivalente monetario non è nemmeno contemplato.

Ora, a fronte di questa impostazione di fondo del sistema normativo europeo, il Testo Unico dell’ambiente prevedeva, proprio sul punto del risarcimento, un assetto stridente con l’input europeo: veniva infatti data centralità al risarcimento per equivalente, poiché si prevedeva il rimedio risarcitorio pecuniario non appena il ripristino non fosse eseguito, fosse impossibile o eccessivamente oneroso, secondo quanto previsto dall’art. 2058 c.c. In buona sostanza, il legislatore interno rispettava solo formalmente la primazia della tutela reale. Ai sensi dell’art. 311 T.U.A. veniva previsto il rimedio – neppure contemplato dalla Direttiva – della tutela risarcitoria non appena la riparazione primaria – ossia il ripristino dei luoghi – non fosse stata possibile, oppure fosse ineseguita o eccessivamente onerosa. Il Codice dell’ambiente, quindi, ignorava la gradazione dei rimedi reali previsti dalla Direttiva, ed in particolar modo dall’Allegato II, in base alla quale se il rimedio primario è di impossibile realizzazione, è necessario apprestarne uno complementare e, in ultima istanza, uno compensativo[13].

Questa discrasia è stata, insieme ad altre, oggetto della procedura di infrazione 2007/4679 della Commissione europea nei confronti del nostro Paese per violazione della Direttiva 2004/35/Ce. Ne è conseguita una serie di interventi normativi di adeguamento dell’ordinamento domestico, da ultimo quello operato con la l. 6 agosto 2013 n. 97. La norma attualmente in vigore, rubricata “Azione risarcitoria in forma specifica”, prevede al primo comma che il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare agisca per ottenere il risarcimento in forma specifica del danno ambientale e, se necessario, per equivalente patrimoniale. Il comma secondo, con riferimento alle attività elencate dall’”Allegato 5 alla Parte Sesta”, stabilisce che a fronte di un danno ambientale vengano apprestati i rimedi reali di cui all’”Allegato 3 alla Parte Sesta”, in sostanza corrispondenti a quelli indicati dalla Direttiva all’Allegato II. Rimane la previsione del risarcimento per equivalente pecuniario, ma i rapporti tra questo e le forme di tutela reale è invertito rispetto alla precedente disciplina.

Anche se in modo necessariamente sommario, la ricognizione appena svolta permette di concludere che i rimedi reali – dunque il risarcimento in forma specifica – hanno acquisito una nuova centralità: il Giudice deve quindi anzitutto condannare al risarcimento in forma specifica, nelle graduazioni previste dal T.U.A. e, solo in caso di impossibilità, condannare al risarcimento per equivalente pecuniario.

Si introduce quindi il secondo tema che emerge dalla sentenza commentata, questa volta di natura prettamente processuale ed inerente al rapporto tra le barriere preclusive di cui all’art. 183, commi 5° e 6°, c.p.c. ed i poteri delle parti in sede di precisazione delle conclusioni. La Corte, infatti, innovando la precedente giurisprudenza, propone, in materia di danno ambientale, una configurazione innovativa del rapporto tra principio di preclusione e richiesta risarcitoria in forma specifica ed in forma generica. Com’è noto, il modello del processo ordinario di cognizione è scandito, nel suo svolgimento, dal principio di preclusione, di cui costituiscono una manifestazione le barriere – preclusive, appunto – di cui all’art. 183, commi 5° e 6°, n. 1), c.p.c. Oltre la prima memoria exart. 183, comma 6°, c.p.c., infatti, non è più consentito proporre domane nuove – che siano conseguenza delle altrui domande riconvenzionali – e modificare o precisare le domande già proposte. Questa formulazione offre una versione mitigata del principio di preclusione, nella quale convivono le esigenze – entrambe costituzionalmente tutelate – di economia processuale e ragionevole durata del processo e di attuazione effettiva del contraddittorio: l’intento dell’assetto attuale in materia di preclusioni è quello di consentire il raggiungimento di una decisione che sia il più aderente possibile alla realtà sostanziale da cui prende le mosse la domanda giudiziale, senza però che il thema decidendum possa essere in ogni momento modificato dalla parti[14]. Il principio di preclusione opera poi, in via mediata, anche nell’ambito della precisazione delle conclusioni al termine della fase di trattazione: se non è consentito modificare o precisare la domanda oltre la prima memoria di cui all’art. 183 c.p.c., il divieto di nova vale, a maggior ragione, in tale sede ove è preclusa l’allegazione di nuovi fatti, la produzione di nuovi documenti e nuove richieste istruttorie, quindi la modifica o la proposizione di nuove domande, salva la riduzione o la rinuncia a domande già proposte[15].

Quanto brevemente premesso consente di meglio circostanziare l’interrogativo di fondo affrontato dalla sentenza in commento: se, cioè, per il risarcimento di un danno ambientale, l’attore chieda fin oltre le barriere preclusive dell’art. 183 c.p.c. il solo risarcimento in forma generica, può poi, precisando le conclusioni, chiedere il risarcimento in forma specifica, consistente nella messa in pristino dei luoghi oggetto dell’attività inquinante? La risposta, che già si è visto esser positiva, inerisce in definitiva al modo in cui le norme di procedura interne si rapportano con il novellato Codice dell’ambiente e con il diritto europeo in materia di danno ambientale.

[1] Cass. civ., sez. III, 10.12.2012, n. 22382; per una diversa analisi, prevalentemente incentrata sugli aspetti di diritto sostanziale affrontati in sentenza, v. ANNUNZIATA, Tutela risarcitoria in forma specifica e per equivalente, in Diritto e Giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2013, p. 390 e ss; cfr. anche MALARA, Risarcimento in forma generica e riduzione in pristino in materia di danno ambientale, in Rivista Quadrimestrale di Diritto dell’Ambiente, 2012, 3, pp. 88 e ss.

[2] E’ la stessa sentenza, come meglio si vedrà di seguito, a citare una serie di precedenti – ex multis cfr. Cass. civ. 5 marzo 1988, n. 2300 – nei quali si afferma il principio per cui la richiesta di risarcimento in forma specifica è, rispetto, a quella per equivalente, una domanda modificata ed, addirittura, nuova, dunque soggetta alle preclusioni di cui all’art. 183, comma 5° e 6°, c.p.c.

[3] Per un approfondimento cfr. GIAMPIETRO, La responsabilità per danno all’ambiente in Italia: sintesi di leggi e giurisprudenza messe a confronto con la direttiva 2004/35/CE e con il T.U. ambientale, in Riv. Giur. Ambiente, 2006, p. 19 e ss.

[4] La responsabilità risarcitoria per danno ambientale è tipizzata dal citato art. 18 nel senso che, al contrario della clausola generale dell’art. 2043 c.c., la sussistenza dell’illecito ambientale viene subordinata alla violazione dolosa o colposa di legge, regolamento o di un provvedimento dell’autorità. Circa il rapporto tra l’illecito (tipizzato) ambientale e responsabilità aquiliana, v. FERRARA-GALLO (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente – I Le politiche ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, Milano, 2014, p. 589 e ss. Sul piano definitorio il primo comma dell’art. 18 sanzionava quale danno ambientale, il deterioramento o la distruzione, parziale o totale, dell’ambiente, senza che fosse però fornita una nozione di ambiente. L’utilizzo dell’imperfetto è d’obbligo, essendo la norma stata abrogata dal T.U.A. Sugli elementi costitutivi del danno ambientale, così come delineato dall’art. 18, l. n. 349/1986, cfr. CARAVITA, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2005, p. 305 e ss.

[5] Art. 18, comma 8°, l. 349 1986.

[6] Così, IANNONE, L’illecito ambientale, Milano, 2018, p. 18 e ss.

[7] Tra i vari, si ricordano: l’art. 8 della l. 3 marzo 1987, n. 59 che ha introdotto in capo al Ministero dell’Ambiente il potere di emettere ordinanze contingibili ed urgenti per la tutela dell’ambiente; gli artt. 29 e ss. della l. 6 dicembre 1991, n. 394 relativi al danno ambientale in aree protette; l’art. 17, d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, in materia di bonifica di siti inquinati.

[8] Di seguito, per comodità, indicato anche con l’acronimo T.U.A.

[9] Così, MALAGNINO, L’ambiente sistema complesso – Strumenti giuridici ed economici di tutela, Padova, 2007, p. 114 e ss.

[10] Sono i tipi di rimedi che l’operatore è obbligato ad esperire in prima istanza a fronte di un danno ambientale; sono definiti dall’art. 1 All. II, come: “qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie”

[11] I rimedi complementari si pongono in posizione gradata rispetto a quelli primari; sono definiti dall’art. 1 All. II come: “qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati”

[12] I rimedi compensativi, nonostante la denominazione, non corrispondono al risarcimento pecuniario del danno. Ai sensi dell’art. 1 All. II, infatti, costituisce rimedio compensativo “qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo”.

[13] Per un’attenta analisi cfr. GIAMPIETRO, La responsabilità per danno all’ambiente dal T.U. ambientale all’art. 5 bis della legge 166/2009, in Riv. Giur. Ambientale, 2011, p. 191.

[14] Nel nostro ordinamento processuale le preclusioni, abrogate e reintrodotte a più riprese, hanno avuto un percorso travagliato. Già prevista dal codice del 1941, la disciplina delle preclusioni è stata abrogata dalla riforma del 1950; con esclusivo riferimento al diritto del lavoro, le preclusioni sono state reintrodotte nel 1973; il processo ordinario di cognizione ha visto la reintroduzione del principio di preclusione solo nel 1990. Per un approfondimento, anche sulla ratio dell’istituto, cfr. LUISO, Diritto processuale civile – II Il processo di cognizione, Milano, 2017, p. 30 e ss.

[15] Sul tema, cfr. BIAVATI, Argomenti di diritto processuale civile, Bologna, 2018, pp. 387-388; ancora, cfr. LUISO, Diritto processuale civile – II Il processo di cognizione, cit, p. 170 e ss.

2. Il caso

Nel 2003, quindi ben prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (T.U.A.), il Comune di Bolgare agiva in giudizio contro una società produttrice di marmi avanti al Giudice ordinario ai sensi dell’art. 18 l. n. 349/1986, al fine di sentirla condannare al risarcimento del danno ambientale per aver realizzato e mantenuto un deposito di rifiuti non autorizzato[16]. Sia il Giudice di primo grado (nel 2008), che quello d’appello (nel 2009) riconoscevano la sussistenza di un danno ambientale[17] e condannavano la convenuta al risarcimento in forma specifica. L’attore, però, con gli atti introduttivi, aveva chiesto il mero risarcimento per equivalente dei danni patrimoniali e non patrimoniali, non anche la condanna al ripristino dello stato dei luoghi, richiesta (rectius, precisazione della domanda) che era stata formulata solo in sede di precisazione delle conclusioni.

La società condannata ricorreva avanti alla Corte di Cassazione ex art. 360 n. 4 c.p.c. lamentando, tra le altre cose, la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 183 e 189 c.p.c., in relazione agli artt. 2043 e 2058 c.c. Facendo leva sulla precedente giurisprudenza di legittimità, la ricorrente chiedeva la cassazione della sentenza sul presupposto che la richiesta di risarcimento in forma specifica costituisca, rispetto alla domanda di risarcimento in forma generica, una mutatio libelli, pertanto inammissibile oltre le barrire preclusive di cui all’art. 183, comma 5° e comma 6°, n. 1, c.p.c.

[16] La narrativa del fatto suggerisce di aprire una breve parentesi per accennare ad un altro tema processuale, diverso da quello qui affrontato, ossia quello della legittimazione attiva. Nella vigenza della disciplina introdotta nel 1986, legittimati attivi erano infatti anche le Regioni e gli Enti locali, non solo il Ministero, come invece è attualmente previsto dal Codice dell’Ambiente. Una peculiarità – o contraddizione, secondo alcuni – era data poi dal fatto che la legittimazione ad agire fosse attribuita tanto allo Stato, quanto alle Regioni ed agli Enti locali, mentre il titolare del diritto al risarcimento era esclusivamente lo Stato. Le Regioni e gli Enti locali erano dunque, secondo l’opinione prevalente meri sostituti processuali dello Stato. Sul punto cfr. v. FERRARA-GALLO (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente – I Le politiche ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, cit., p. 586. Sull’argomento della legittimazione ad agire in materia di danno ambientale, per gli aspetti relativi alla tutela dell’ambiente come “interesse diffuso”, cfr. inoltre DALFINO, Tutela dell’”ambiente” e soluzioni (processuali) di compromesso nel D.lgs. n. 152 del 2006 , in Foro it., 2006, III, cc. 508 e ss. L’attuale formulazione dell’art. 311 del Codice dell’ambiente prevede che l’unico legittimato ad agire per il risarcimento del danno ambientale sia il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. L’attribuzione esclusiva in capo allo Stato della legittimazione ad agire ha sollevato un intenso dibattito, in dottrina ed in giurisprudenza. La Corte di cassazione ha ricondotto la ratio della norma all’esigenze di tutela effettiva del bene ambiente, nonché al potenziale lesivo del danno ambientale: questi fattori, combinati insieme, fanno sì che lo Stato, quale ente esponenziale apicale in tutto il territorio nazionale, sia l’unico soggetto in grado di apprestare un’adeguata tutela all’ambiente, salva la legittimazione dei singoli per i danni ulteriori e diversi dal danno ambientale; si esprime in tal senso Cass. civ., sez. III, sent. 6 maggio 2015, n. 9012; Cass. civ., sez. III, sent. 6 maggio 2015, n. 9013 e Cass. civ., sez. I, sent. 20 luglio 2016, n. 14935. Sul punto si è pronunciata anche la Corte Costituzionale – cfr. Corte Cost., sent. 1 giugno 2016, n. 126 – la quale, interrogata circa la costituzionalità dell’attribuzione della legittimazione ad agire al solo Stato e non anche alle Regioni ed agli Enti locali, ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 311 Codice dell’ambiente. La Corte muove dal principio per cui l’ambiente è un “bene immateriale unitario” e ne deduce l’esigenza di una tutela uniforme, obiettivo che solo lo Stato può garantire. Questa concezione, continua la Corte, è conforme a quanto attualmente “fotografato” dall’art. 117 Cost., laddove la materia della “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” è attribuita alla competenza esclusiva dello Stato. In un passaggio successivo, la sentenza ripercorre l’evoluzione normativa che ha condotto all’assetto normativo attuale – da ultimo modificato dalla l. n. 97 del 2013 – in cui vi è un doppio binario di tutela: quello amministrativo, di cui agli artt. 311, comma 3°, 313 e 314 Codice dell’ambiente, e quello civilistico, di cui all’art. 311, commi 1° e 2°. Il Ministro dell’ambiente, sul primo piano di tutela, ai sensi dell’art. 311, comma 3°, può ingiungere con ordinanza il ripristino ambientale; ancora, in caso di inadempienza dei responsabili, può con ordinanza ingiungere il pagamento dei costi delle attività necessarie a conseguire la completa riparazione dei danni. Sul piano civilistico, invece, il Ministro, anche costituendosi parte civile, può chiedere il risarcimento dei danni in forma specifica e, in subordine, per equivalente patrimoniale; per le attività di cui all’Allegato 5, a seguito dell’intervento della cd. “Legge europea 2013” (l. 6 agosto 2013, n. 97), è previsto l’obbligo di apprestare le misure di riparazione previste dal Codice (in particolare, dall’Allegato 3 alla parte sesta). In questo rinnovato contesto normativo, afferma la Corte, la necessità di mantenere la legittimazione ad agire in via esclusiva in capo allo Stato deriva dal fatto che la tutela risarcitoria civilistica non si può sottrarre all’unitarietà della gestione dell’ambiente, attribuita allo Stato.

[17] Gli aspetti di diritto sostanziale non sono oggetto della presente analisi, sul punto cfr. ANNUNZIATA, Tutela risarcitoria in forma specifica e per equivalente, in Diritto e Giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, cit., p. 391; ancora cfr. MALARA, Risarcimento in forma generica e riduzione in pristino in materia di danno ambientale, cit., pp. 88 e ss.

3. La giurisprudenza precedente e la soluzione offerta dalla Corte di Cassazione

Il ragionamento della Corte prende avvio dal riconoscimento che, in effetti, la precedente giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto che la domanda di risarcimento in forma generica fosse un minus rispetto a quello in forma specifica e che, specularmente, la tutela reale fosse un qualcosa di più della tutela obbligatoria. In tale quadro, dunque, la domanda di risarcimento in forma specifica proposta in sede di precisazione delle conclusioni era da qualificarsi come domanda modificata, se non addirittura come domanda nuova, con la conseguente applicazione delle classiche barriere preclusive[18].

Svolta questa premessa, quasi di maniera, la Corte, con il provvedimento in commento, inverte la rotta ed afferma che, in riferimento al danno ambientale, anche sotto il profilo processuale, il rapporto tra richiesta di tutela reale e di tutela obbligatoria dev’essere ripensato alla luce dell’evoluzione normativa che ha investito la materia.

I giudici di legittimità riconoscono, infatti, che, nella fattispecie in esame, l’iter processuale ha attraversato le tre “ere disciplinari” del risarcimento dell’illecito ambientale tipizzato: la causa è iniziata sotto la vigenza dell’art. 18, l. 349/1986; è proseguita nel vigore della prima disciplina del Codice dell’Ambiente ed, infine, si è conclusa quando già era entrata in vigore la novella operata col d.l. 25 settembre 2009, n. 135, con il quale il legislatore apportava le modifiche necessarie ad adeguare la disciplina interna alla Direttiva 35/2004/Ce e richieste dalla procedura di infrazione comunitaria. La vicenda processuale, quindi, nasceva in un tempo in cui il rimedio principale era quello del risarcimento in forma generica e si concludeva in un’epoca, quella attuale, in cui invece è il risarcimento in forma specifica – nelle precise graduazioni previste del Codice dell’Ambiente – ad assurgere a tutela risarcitoria principale.

Svolta questa premessa, la Corte osserva che, ai sensi dell’art 303, comma 1°, lett. f), T.U.A., la disciplina del T.U.A. si applicava retroattivamente e dunque anche alle domande di risarcimento proposte sotto la vigenza dell’art. 18 l. 349/1986, con la sola esclusione delle decisioni passate in giudicato[19]. Questo passaggio argomentativo, essenziale nel tempo in qui si è pronunciata la Cassazione ed inerente a profili di diritto intertemporale, non intacca il principio enunciato dalla Corte, che rimane valido anche ad oggi. In definitiva, la Corte qui afferma che al caso di specie dev’essere applicata la disciplina del novellato Codice dell’ambiente. E’però evidente che nelle vicende successive alle modifiche del T.U.A. del 2009 questo passaggio logico-argomentativo non si rende necessario, stante che la nuova disciplina, che pone al centro il risarcimento in forma specifica, trova pacificamente applicazione.

In un secondo passaggio, immediatamente correlato al primo, i giudici di legittimità mettono in luce la ratio della novellata disciplina del risarcimento del danno ambientale ossia la necessità di modificare l’assetto interno alla luce della citata procedura di infrazione e collocare così il risarcimento in forma specifica al vertice della piramide dei rimedi offerti dall’ordinamento. Il risarcimento per equivalente pecuniario viene relegato in una posizione secondaria e subordinato all’impossibilità di apprestare una tutela reale, a sua volta gradata nei tre rimedi di cui all’art. 311, comma 2°, T.U.A. La sentenza si spinge ad affermare poi – con un certo sforzo argomentativo – che la centralità della tutela risarcitoria in forma specifica fosse in realtà già rinvenibile nella precedente disciplina del 1986, laddove l’art. 18 della l. 349/1986 consentiva al Giudice di condannare anche al risarcimento del danno ambientale in forma specifica.

A questo punto, dal diritto sostanziale il ragionamento della Corte torna al piano del diritto processuale stante che il ricorso nasceva dall’asserita violazione degli artt. 122, 183 e 189 c.p.c. La primazia della tutela reale, esaltata dalla disciplina riformata nel 2009 ed imposta dal diritto europeo, determina la necessità di ritenere che la richiesta di condanna al risarcimento in forma specifica sia sempre sottesa alla domanda di condanna al risarcimento per equivalente.

Ciò si rende necessario anzitutto poiché il diritto processuale deve modellarsi sulla struttura del sottostante del diritto sostanziale[20] e deve rispondere alle esigenze del diritto sostanziale, sia interno che europeo. In un contesto normativo in cui è il risarcimento in forma specifica ad avere primazia, ed in cui il risarcimento per equivalente assume un carattere secondario, dev’essere ripensato il rapporto tra domanda di tutela reale e di tutela obbligatoria; conseguentemente, il principio di preclusione deve essere reinterpretato nel senso di consentire alla tutela risarcitoria in forma specifica di operare anche quando richiesta, per la prima volta, oltre le barriere preclusive di cui all’art. 183, commi 5° e 6°, c.p.c.

Peraltro, la necessità di adeguare la portata del principio di preclusione alle esigenze del diritto sostanziale emerge poi sotto il profilo costituzionale del rapporto tra fonte nazionale e diritto derivato dell’Unione europea. La disciplina interna è, difatti, collocata in posizione subordinata al diritto europeo, come esplicitato dal novellato art. 117 Cost. In virtù di detto rapporto gerarchico, la Direttiva s’impone sia sul diritto nazionale che costituisce l’oggetto diretto dell’armonizzazione – in questo caso il diritto sostanziale che regola il risarcimento del danno ambientale -, sia su quei settori dell’ordinamento che in apparenza non hanno alcun contatto con la disciplina sovranazionale. In sostanza, dice la Corte, è tutto l’ordinamento ad essere soggetto al diritto dell’Unione; tutti gli ambiti del diritto, dunque, devono essere interpretati nel segno del diritto europeo, anche quello processuale. Sebbene la Direttiva 35/2004/Ce non menzioni affatto il diritto processuale, né tantomeno la disciplina in punto di preclusioni processuali, questo non è esente da un’interpretazione che sia ad essa conforme[21].

[18] Il principio, consolidato in giurisprudenza, viene affermato nei “precedenti” citati dalla stessa Corte: Cass. civ., 8 marzo 2006, n. 4925; Cass. civ. 15 luglio 2005, n. 15021; Cass. civ. 25 luglio 1997, n. 6985.

[19] Tale norma, peraltro, è stata abrogata dalla cd. “Legge europea” del 2013 (l. 6 agosto 2013, n. 97);

[20] Cfr. LUISO, Diritto processuale civile – I Principi generali, Milano, 2017, p. 56: “[…] il processo è al servizio del diritto sostanziale: dal diritto sostanziale prende le mosse, al diritto sostanziale ritorna. Il ponte fra il diritto sostanziale e processo è costituito dalla domanda giudiziale; il ponte tra il processo e il diritto sostanziale è costituito dal provvedimento giurisdizionale. Le norme processuali disciplinano appunto questi due atti estremi, nonché ovviamente tutti gli altri atti intermedi tra il primo ed il secondo”

[21] Il rapporto tra diritto europeo ed ordinamenti processuali interni è stato oggetto di un rilevante dibattito in seno alla Corte di Giustizia, che ha condotto a due opposte concezioni: la prima afferma l’autonomia processuale degli Stati membri, per cui le norme di rito darebbero vita ad un autonomo sistema strumentale di garanzia; la seconda, invece, ritiene che alla luce del principio di effettività il diritto processuale, così come quello sostanziale, sia in ogni caso tenuto a consentire la piena attuazione della disciplina comunitaria. Dal secondo dei paradigmi elaborati dalla Corte di Giustizia, deriva la necessità di disapplicare le norme processuali nazionali laddove queste ostacolino l’effettiva attuazione del diritto europeo. La decisione qui in commento, seppure senza arrivare alla disapplicazione della disciplina codicistica delle preclusioni, si colloca nel solco del secondo orientamento giurisprudenziale. Per un approfondimento, cfr. CANIZZARO, Sui rapporti fra i sistemi processuali nazionali e diritto dell’Unione europea, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2008, 3, p. 447.

4. Conclusione

A distanza di qualche anno, la sentenza in commento rimane una pronuncia di grande interesse sia sul piano del diritto sostanziale, che sul piano processuale. Sotto il primo aspetto, sembra che la ricostruzione esegetica della disciplina del risarcimento del danno ambientale operata dalla Corte abbia anticipato la l. n. 97 del 2013[22], con la quale è stata conferita ulteriore centralità al rimedio risarcitorio reale. Il primo comma dell’art. 311 T.U.A. continua a prevedere, accanto al rimedio principale del risarcimento in forma specifica, quello del risarcimento in forma generica, rimanendo dunque inalterato[23]; il secondo comma, invece, per le attività di cui all’Allegato 5 alla Parte sesta del Codice dell’ambiente, non prevede più in subordine il risarcimento per equivalente, bensì solo l’obbligo di provvedere alle misure di riparazione previste dal Codice. Viene dunque confermata la primazia del rimedio reale, mentre il rimedio obbligatorio rimane relegato alle ipotesi residuali di cui al primo comma dell’art. 311 T.U.A. I giudici di legittimità, pertanto, non solo hanno analiticamente ricostruito l’evoluzione normativa in materia di risarcimento del danno ambientale, ma hanno a ben vedere preannunciato la riforma del 2013.

Sul terreno del diritto processuale il contenuto della pronuncia pare, se possibile, ancora più attuale. Dalle pagine della sentenza sono due gli elementi innovativi che emergono: anzitutto, la necessità di interpretare la disciplina processuale delle preclusioni conformemente alle priorità stabilite dalla materia del danno ambientale, così che la domanda di condanna al risarcimento in forma specifica – dato la peculiarità della materia – debba ritenersi una mera precisazione della domanda e non, come altrimenti avviene, una mutatio libelli [24]; ancora, viene ribadita la subordinazione di tutto l’ordinamento, anche delle norme di rito, al diritto derivato dell’Unione, con la conseguenza che una reinterpretazione elastica del principio di preclusione s’impone anche in ragione della necessità di conformare l’ordinamento interno a quello dell’Unione. Entrambi gli approdi esegetici raggiunti dalla Corte sono accomunati dal fatto che il diritto europeo impone una tutela effettiva del bene ambiente, e ciò anche al costo di forzare il tenore letterale delle norme di rito nazionali. Questo dato, letto insieme a quello per cui in seno alle istituzioni europee è in atto un processo – politico e giuridico – di crescente attenzione verso le problematiche ambientali, impone di continuare a monitorare con attenzione la giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia. Sarà infatti interessante vedere come i giudici di legittimità intenderanno il rapporto tra le istanze sovranazionali di tutela dell’ambiente ed il diritto processuale interno. Con tutta probabilità, c’è da attendersi che la Corte prosegua nel percorso esegetico inaugurato con la sentenza qui in commento, con la conseguenza che anche altri istituti del diritto processuale nazionale diverranno presto oggetto di un’interpretazione “creativa”, mirata a garantire le esigenze di tutela del bene ambiente, da un lato, e dall’altro a consentire la piena attuazione del diritto comunitario[25].

[22] Trattasi della cd. “Legge europea 2013”, intervenuta a seguito della (ulteriore) procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea per il mancato corretto recepimento della Direttiva Ce 2004/35. Sul punto cfr. BARBIERATO, La nuova tutela risarcitoria del danno ambientale, in Responsabilità civile e previdenza, 6, 2016, p. 2040 e ss. V. anche SALANITRO, La novella sulla responsabilità ambientale nella “legge europea” del 2013, in NLCC, 6, 2013, p. 1309 e ss. La ratio dell’intervento legislativo in parola è ben ricostruita dalle citate Cass. civ., sez. III, sent. 6 maggio 2015, n. 9012 e da Corte Cost., sent. 1 giugno 2016, n. 126.

[23] Il permanere del rimedio risarcitorio per equivalente viene ritenuto un mero errore del legislatore da BARBIERATO, La nuova tutela risarcitoria del danno ambientale, in Responsabilità civile e previdenza, cit., p. 2045 e ss.

[24] Circa il confine tra mutatio ed emendatio libelli è di recente intervenuta Cass. civ., S.U., sent. 13 settembre 2018, n. 22404.

[25] Uno degli istituti di diritto processuale che già attualmente sembra in attrito con le indicazioni di matrice sovranazionale, è quello della legittimazione ad agire per la richiesta di risarcimento del danno ambientale. Infatti, mentre il Codice dell’ambiente prevede la legittimazione attiva del solo Ministero, sia la Corte di giustizia, che la Commissione europea richiedono che anche i singoli – ed in particolare le associazioni ambientaliste – siano legittimati ad agire, quantomeno ogni qual volta la lesione dell’ambiente derivi dalla violazione di norme europee. In questo senso, v. le Conclusioni dell’Avvocato Generale Sharposton del 16 dicembre 2010 nella Causa C-115/09; ancora v. Comunicazione della Commissione sull’accesso alla giustizia in materia ambientale del 28 aprile 2017 C (2017) final. Sul tema cfr. GALANTI, Quale spazio per la legittimazione ad agire dei singoli in materia ambientale: considerazioni alla luce della normativa europea, in corso di pubblicazione.

Redazione

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