Il fenomeno amministrativo in Italia, da monsù Travet alla riforma del Titolo V: “La Burocrazia” di G. Melis. Recensione.

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1. L’evoluzione della burocrazia italiana: la continuità “culturale” di un importante fenomeno, da Cavour ai giorni nostri. 2. Resistenze e riforme: un decennio (1993-2003) di nuove politiche burocratiche. 2.1. “Il rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni” (1993) e l’opera riformatrice del Ministro Cassese. 2.2.“La crisi di identità” della P.A. alla metà degli anni Novanta: fra scarso prestigio sociale, assenza di riconoscimenti retributivi e progressioni di carriera ancora basate sull’anzianità. 2.3.“L’ambizione di una radicale trasformazione non solo del modello organizzativo ma della cultura stessa delle burocrazie pubbliche”: l’opera riformatrice del Ministro Bassanini (1997-1999). 2.4. Le “non-riforme” amministrative nel triennio 2001-2003: “un quadro larvatamente revisionista”. 3. Si può cambiare la burocrazia italiana? Fra fattori di pessimismo e di speranza.
 
1. L’evoluzione della burocrazia italiana: la continuità “culturale” di un importante fenomeno, da Cavour ai giorni nostri.
Ormai da alcuni anni è presente nel panorama editoriale in materia di Scienza dell’Amministrazione Pubblica, un sintetico contributo, redatto dal prof. G. Melis[1], “La Burocrazia. Da monsù Travet alla riforma del Titolo V: vizi e virtù della burocrazia italiana” (Bologna 2003, pp. 111, € 8,00, collana editoriale “Farsi un’idea”[2]: la precedente edizione, Id., “La Burocrazia. Da monsù Travet alle riforme Bassanini: vizi e virtù della burocrazia italiana”, del 1998, constava di pp. 109, L. 12.000).
Il volume ricostruisce l’evoluzione della burocrazia italiana e dei suoi più rilevanti esponenti dai tempi di Cavour ai giorni nostri, seguendo quattro linee di ricerca: innanzitutto, una riflessione quantitativa sui periodi di crescita e di contenimento del personale; sono,  poi, considerate le diverse culture professionali; quindi, i livelli di reddito, gli stipendi, le rivendicazioni sindacali; infine, la sociologia e l’antropologia del burocrate, cioè il suo stile di vita e prestigio sociale ed il suo rapporto con la politica. L’ultima parte presenta e discute le recenti riforme amministrative (dalle riforme Bassanini a quelle del Titolo V della Costituzione) che hanno introdotto grandi elementi di novità nella struttura dello Stato italiano.
Ed, allora, in sede introduttiva, l’Autore pone subito i termini essenziali della propria ricerca: “Tra il 1860 ed oggi sono passati oltre 140 anni. Una piccola burocrazia che nell’Ottocento si sentiva con orgoglio avanguardia di un processo di ‘nation building’ (e – nei suoi vertici, almeno – anche parte integrante della classe dirigente risorgimentale) ha lasciato il posto a un insieme di milioni di dipendenti pubblici che si interrogano sul proprio destino individuale, avvertendo di non essere più all’altezza rispetto a quanto, nella società contemporanea, rappresenta il futuro. Una lunga evoluzione (o involuzione) storica ha trasformato l’amministrazione da apparato di comando nel disegno borghese di costruzione della nazione nell’Ottocento a camera di compensazione delle contraddizioni generate dallo sviluppo industriale nei primi anni del Novecento, e infine riserva di posti per quei gruppi e quelle aree geografiche e sociali che dallo sviluppo sono state storicamente emarginate. Più che una ‘macchina’, come talvolta si scrive con giornalistica approssimazione, l’amministrazione italiana appare come il riflesso speculare delle contraddizioni del nostro secolo: la crisi dei ceti medi, la questione meridionale. Una grande disgregazione sociale, nella quale i vizi del paese si riflettono con puntuale brutalità: un mondo antico, atrofizzato, abituato (come è stato scritto) ad ascoltare soltanto ‘le voci di dentro’. C’è un posto per la burocrazia nell’Italia che è entrata in Europa e si va inoltrando negli anni Duemila? Tre milioni e mezzo di uomini e di donne (oltre quattro se consideriamo il settore pubblico allargato) costituiscono comunque una risorsa per il paese o sono piuttosto una palla al piede per il suo stesso sviluppo? Rispondere alla domanda significa anche misurarsi con la praticabilità, nell’Italia di fine secolo, di una politica efficace di riforme amministrative, che cambi le norme e le strutture ma che soprattutto modifichi le culture degli uomini.” (pp. 8-9).Una risposta, chiara e corifea di speranza, non senza l’evidenziazione di alcune persistenti criticità (il prof. Miglio, con estremo realismo, avrebbe forse utilizzato la locuzione “patologiche regolarità amministrativo-istituzionali”)[3], pervade positivamente tutto il lavoro.
In particolare, tornando alla mera evidenziazione del contenuto dello scritto, il contributo è strutturato in un’Introduzione, quattro Capitoli, una Conclusione ed una Nota bibliografica: quest’ultima (“Per saperne di più”, alle pp. 107-111, si presenta, nella seconda edizione, ancora più ricca e di sicuro ausilio di riferimento alla complessa materia in esame). Il corpo del lavoro ha subito, nella revisione del 2003, lievi modifiche, per la maggior parte afferenti all’ultimo capitolo (è stato inserito il paragrafo: “Un epilogo: le non riforme del centro-destra”, alle pp. 99-101), salvo ovviamente – in corpo testo – qualche aggiornamento temporal-espositivo.
Nel primo capitolo (“Vizi e virtù della burocrazia dell’Italia liberale: l’irresistibile ascesa di Monsù Travet”, pp. 11-36) l’Autore ripercorre gli anni della nascita della burocrazia italiana, durante il periodo della Destra e della Sinistra storiche[4], dalla prima alla seconda generazione[5], sino a giungere alla significativa crescita numerica[6], alla sindacalizzazione[7] ed alla progressiva meridionalizzazione[8] dell’età giolittiana[9]. Nel secondo capitolo (“L’impiegato italiano esemplare. Dalla Grande guerra al crollo del fascismo”, pp. 37-54) il Melis rappresenta la burocrazia ed i ceti medi nella crisi del primo dopoguerra (con le prime tendenze  di aziendalizzazione)[10], l’avvento del fascismo anche nella P.A.[11] (“la burocrazia in camicia nera”[12]) e la nascita della c.d. “seconda burocrazia” (quella, cioè, degli Enti pubblici)[13]. Nel terzo capitolo (“Pubblico impiego e consenso: convivere con la politica nell’Italia repubblicana”, pp. 55-82), partendo dall’analisi del fenomeno delle “due burocrazie” di guerra[14] e dell’ “epurazione” del secondo dopoguerra[15], vengono considerate le politiche del pubblico impiego degli anni Cinquanta[16] (ed i rapporti con la Democrazia Cristiana: “la burocrazia democristiana”)[17], la continuità ed i cambiamenti della Burocrazia negli anni  Sessanta-Settanta[18] e Settanta-Ottanta[19], sino a giungere a delineare alcune regolarità problematiche (patologiche), di persistente attualità, individuate nella “distribuzione geografica” (prevalentemente meridionale), nella “professionalità” (perlopiù giuridica) e nella “produttività” (molto bassa e di ostacolo allo sviluppo del sistema economico)[20]. Nel quarto capitolo (“Resistenze e riforme”, pp. 83-102) l’Autore effettua una puntuale disamina delle riforme amministrative introdotte, negli anni Novanta, grazie all’opera dei Ministri Cassese e Bassanini (con Governi di Centro-Sinistra), sino a giungere alla “battuta d’arresto” del triennio 2001-2003 (con un Governo di Centro-Destra). La Conclusione (“Conclusione. Si può cambiare la burocrazia italiana?”, pp. 103-106) conduce il lettore, alla luce delle considerazioni contenute nei precedenti paragrafi, a riflettere sulla possibilità e/o necessità che la P.A. muti sostanzialmente alcuni dei più rilevanti propri patologici caratteri (quali l’autoreferenzialità, ad esempio), terminando con parole di ragionevole speranza sul futuro della stessa.
 
2. Resistenze e riforme: un decennio (1993-2003) di nuove politiche burocratiche. Di particolare interesse risulta la considerazione dello scritto recensito nella parte in cui si sofferma sull’analisi dei cambiamenti intervenuti nel recente decennio 1993-2003: un periodo di storia istituzionale caratterizzato dalla presenza di due figure ministeriali di indubbio valore tecnico (un giudizio politico esulerebbe dagli intendimenti di questa recensione), i professori S. Cassese e F. Bassanini.
 
2.1. “Il rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni” (1993) e l’opera riformatrice del Ministro Cassese.
Nello specifico, il Ministro Cassese, rimasto in carica soltanto dall’autunno del 1993 all’estate del 1994, effettuò, un’ampia ed approfondita ricognizione sui principali problemi della P.A. italiana, pubblicando il “Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni” (1993). Di preziosa conferenza si palesarono (e si evidenziano tutt’oggi) le risultanze dell’indagine quanti-qualitativa in esame: gli addetti al settore pubblico allargato erano (dato del 1991) 4,2 milioni, dei quali 3,5 milioni i dipendenti delle P.A. vere e proprie, centrali o locali, il 26% dei lavoratori dipendenti ed il 18% del totale degli occupati; del settore pubblico allargato facevano parte ancora 693.000 dipendenti di enti pubblici estranei alla P.A. (ad esempio, Ferrovie dello Stato, Enel, municipalizzate); altissimo era il numero dei precari (135.059); la distribuzione dei dipendenti per grandi aree geografiche non risultava nuova (40% al Nord; 36% nel Sud e Isole), confermando la forte concentrazione territoriale degli impiegati a Roma e nel Lazio, oltre che nell’Italia meridionale ed insulare, rispetto alle vere e concrete esigenze operative. Le ragioni della cattiva utilizzazione del personale furono individuate dal Cassese specialmente “nelle carenze dei meccanismi di funzionamento interno delle organizzazioni pubbliche e dei sistemi di gestione delle risorse umane”. Il primo handicap fu riassunto soprattutto nella eccessiva rigidità delle politiche retributive e della gestione delle carriere. Quanto alla seconda criticità, il Rapporto riconobbe come “largamente disattesa” l’applicazione dei metodi di misurazione dei carichi di lavoro. Il Rapporto si soffermò quindi, sull’analisi della contrattazione collettiva e sull’assetto retributivo-funzionale (dalla L. n. 312 del 1980 alla L. n. 93 del 1983), constatando un effetto perverso e pervasivo di “trascinamento verso l’alto” in tutte le P.A. Le conclusioni del Cassese, sullo specifico punto del personale, furono molto nette (e fortemente polemiche): “L’assetto del personale pubblico è lo specchio delle contraddizioni più generali delle pubbliche amministrazioni italiane. I dipendenti dovrebbero essere selezionati in funzione dei compiti da svolgere negli uffici pubblici. Invece sono spesso assunti per sanare crisi occupazionali … Il personale pubblico è mal distribuito sul territorio … L’affollamento dei dipendenti pubblici nelle sedi centrali continua a crescere, nonostante la regionalizzazione, il rafforzamento delle autonomie locali e l’informatizzazione. I blocchi delle assunzioni sono serviti solo ad assumere personale in altro modo (cosiddetti precari), la cui ‘titolarizzazione’ viene facilitata dagli ampliamenti degli organici compiuti senza relazione con i carichi di lavoro. Gli stessi organici – così distaccati dalla reale misurazione dei compiti – sono continuamente aggirati da comandi, collocamenti fuori ruolo, distacchi, ecc. Le qualifiche funzionali, introdotte al posto delle carriere, dovevano servire ad evitare la pressione della progressione economica sui posti. Ma la stessa legge che le ha previste ha consentito ‘riallineamenti’ ai livelli superiori con passaggi anche di due o tre qualifiche … Mancano incentivi, sanzioni, misure di produttività, controlli sul lavoro svolto. Quest’ultimo è in larga misura rimesso alla buona volontà dei dipendenti: chi vuole lavora, chi no, se ne astiene” (p. 87). Il breve periodo ministeriale consentì, comunque, al Prof. Cassese di migliorare lacune ed incogruenze del D. Lgs. n. 29 del 1993, con i Decreti nn. 470 546 dello stesso anno[21]. Fu elaborata la “Carta dei Servizi Pubblici” e fu implementata l’applicazione della L. n. 15 del 1968 (sull’autocertificazione), della L. n. 142 del 1990 (sulle autonomie locali) e della L. n. 241 del 1990 (sul procedimento amministrativo).  Secondo il Melis, la novità degli anni 1993-1994 fu che le policies di riforma della P.A. vennero per la prima volta assunte come “asse” della politica complessiva dell’intera compagine di governo, con un ordine delle priorità che vide l’individuazione di una “bussola” nell’idea centrale di “un’amministrazione al servizio del cittadino e degli utenti” (vedasi, ad esempio, la Relazione alla giornata inaugurale del 5° Forum sulla Pubblica Amministrazione), principio che costituì, sempre secondo l’Autore, “il radicale rovesciamento di un’antica e dominante visione della questione amministrativa come prevalente (e di fatto assorbente) problema del personale” (p. 90).
 
2.2. “La crisi di identità” della P.A. alla metà degli anni Novanta: fra scarso prestigio sociale, assenza di riconoscimenti retributivi e progressioni di carriera ancora basate sull’anzianità.
“Il tentativo riformatore di Cassese fu vissuto dalla grande maggioranza della burocrazia italiana come un pericoloso attentato alla propria stessa esistenza, o quanto meno agli equilibri organizzativi e alla stessa visione del mondo che sino ad allora ne avevano segnato, nel bene e nel male, l’esperienza collettiva. La prima metà degli anni Novanta coincise dunque, per burocrazia italiana, con un periodo di diffusa e spesso anche dolorosa crisi di identità” (p. 91). A tal proposito, secondo il Melis, quattro furono i principali motivi di crisi della P.A. italiana: 1) “il rapido e in parte travolgente mutare del quadro normativo che da sempre regolava l’attività del burocrate”[22]; 2) “l’impatto delle politiche di risanamento del deficit pubblico sui redditi fissi”[23]; 3) “la bruciante caduta di credibilità dell’amministrazione e quindi delle burocrazie pubbliche rispetto agli obiettivi di modernizzazione del paese”[24]; 4) “il pieno coinvolgimento delle burocrazie pubbliche centrali e locali, sotto veste di accusate, nella lotta alla corruzione pubblica”[25]. Così, quasi come una “fotografia” del periodo in esame, nel Rapporto del “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione” (nominato dall’allora Presidente della Camera Violante il 30.09.1996, componenti i professori Cassese, Arcidiacono e Pizzorno) è possibile leggere, con riferimento specifico al personale, come venisse criticamente sottolineata “… la debolezza della classe burocratica, che, contrariamente a quanto avviene in molti dei principali paesi europei, non gode di adeguato prestigio sociale, è priva di idonei riconoscimenti, anche di natura economica, ed è tuttora ancorata ad un sistema di progressione in carriera basato prevalentemente sull’anzianità, ciò che riduce fortemente l’emergere e la valorizzazione delle migliori professionalità” (p. 94)[26].  
 
2.3. “L’ambizione di una radicale trasformazione non solo del modello organizzativo ma della cultura stessa delle burocrazie pubbliche”: l’opera riformatrice del Ministro Bassanini (1997-1999).
Secondo l’Autore, la politica di riforme nella P.A., “interrotta” nel 1994, conobbe una vigorosa ripresa dal 1996 in avanti, soprattutto grazie all’iniziativa del Ministro della Funzione Pubblica Bassanini. Tre furono i provvedimenti all’origine di questo secondo “ambizioso tentativo di innovare la struttura dello Stato” italiano: le LL. nn. 59, 94 e 127 del 1997 (note comunemente come “Bassanini-uno”, “Bassanini-due” e “Bassanini-tre”): da esse, a cascata, derivarono una pioggia di interventi normativi, per lo più Decreti delegati, su di un amplissimo ventaglio di materie, con la non nascosta intenzione di attuare un significativo spostamento di competenze dal centro verso la periferia, anche attraverso la razionalizzazione della Presidenza del Consiglio, dei Ministeri, degli Enti pubblici nazionali e la creazione di Agenzie esecutive. Con particolare attenzione al personale, la nuova disciplina ha ribadito il principio della distinzione tra compiti e responsabilità di direzione politica e di direzione amministrativa ed ha completato l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato estendendo il regime di diritto privato anche ai dirigenti generali; il ricordato plesso di norme, dopo aver riformato la struttura del bilancio dello Stato, ha introdotto parametri e controlli di produttività, oltre che misure specifiche dedicate alla semplificazione ed all’accrescimento della flessibilità con riferimento allo stesso rapporto di lavoro pubblico. Anche il settore della formazione e dell’aggiornamento professionale pubblico ha subito sostanziali modifiche, ponendo la Scuola Superiore della P.A. al centro di una rete di Scuole delle grandi Amministrazioni (ad esempio, Interno e Finanze). In sintesi conclusiva sull’articolato complessivo delle riforme di Bassanini, il Melis così si esprime: “Non è difficile leggere nell’insieme di queste misure l’ambizione di una radicale trasformazione non solo del modello organizzativo ma della cultura stessa delle burocrazie pubbliche” (p. 97). Tuttavia, molto realisticamente, l’Autore denuncia l’esistenza non solo di “luci” ma anche di “ombre” difficilmente diradabili: “Le politiche di riforma, in realtà, debbono fare i conti con la resistenza di un mondo burocratico nel quale una stratificazione secolare di norme, prassi, consuetudini, linguaggi specialistici oppone oggettivamente, al di là forse della stessa volontà dei singoli, un’insormontabile barriera al nuovo … Luci ed ombre, dunque, hanno caratterizzato la stagione delle riforme. Due passi avanti ed uno indietro. All’irruente volontarismo che ha animato le politiche razionalizzatici è sembrato spesso contrapporsi lo spessore impenetrabile di una burocrazia che non vuole cambiare: perché teme di perdere piccoli ma consolidati privilegi; o semplicemente perché il nuovo la spaventa, e la induce ad arretrare” (pp. 98-99).
 
2.4. Le “non-riforme” amministrative nel triennio 2001-2003: “un quadro larvatamente revisionista”.
Una negativa constatazione del triennio 2001-2003, sotto il profilo delle riforme amministrative, caratterizza il paragrafo interamente nuovo aggiunto dal Melis al proprio contributo, nell’edizione 2003: “La stagione delle riforme amministrative apertasi intorno ai primi anni Novanta (a sua volta parte di una tendenza generalizzata in Europa e altrove, che alla crisi del ‘welfare state’ oppone la razionalizzazione degli apparati) ha conosciuto nel triennio 2001-2003 alcune vistose battute d’arresto. Innanzitutto, in linea generale, l’accento sembra essersi spostato dagli obiettivi della razionalizzazione e della semplificazione amministrativa a quelli della cosiddetta ‘devolution’: si è fatta strada cioè l’idea pura e semplice della frantumazione dello Stato a favore dei due livelli di governo immediatamente sopra e sotto di esso: l’Europa e le Regioni; e conseguentemente quello della spartizione o riedificazione degli apparati pubblici su base regionale. Nessuna attenzione, o quasi, è stata però dedicata al modello organizzativo e all’assetto funzionale che dovranno avere le nuove amministrazioni pubbliche destinate a sostituire lo Stato. la riforma federalista nasce – se nasce – priva di una sua specifica cultura dell’amministrazione. Le politiche di semplificazione amministrativa sono … assai in ombra. Pur registrandosi nel primo triennio del Governo Berlusconi n numerose misure di semplificazione, esse appaiono frequentemente contraddette dalla tendenza ad una speculare e prevalente ‘amministrativizzazione delle attività’. Poche comunque, e perlopiù frutto di una lunga deriva della precedente legislatura, sono state le riforme amministrative in senso proprio (cioè inerenti agli apparati, alla loro organizzazione e al loro funzionamento). La minore centralità nell’attività di governo del Dipartimento della Funzione Pubblica ha rappresentato un eloquente segnale della crisi del riformismo amministrativo” (pp. 99-100).
L’Autore conclude le proprie “dolenti” constatazioni sul triennio, qualificato – in sintesi esplicativa – da “un quadro larvatamente ‘revisionista’” (p. 100)[27], con una disamina altamente critica della recente disciplina innovatrice in materia di c.d. “spoils system” (L. n. 145 del 2002)[28].
 
3. Si può cambiare la burocrazia italiana? Fra fattori di pessimismo e di speranza.
“Si può cambiare la burocrazia italiana? La storia del riformismo amministrativo, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, indurrebbe a rispondere di no: questa storia è stata infatti, essenzialmente, una storia di vinti, di volta in volta sconfitti proprio dalle logiche inesorabili della continuità degli apparati e dalle resistenze insormontabili delle varie burocrazie. Né il potere politico, né quello economico hanno avuto, nel corso della storia d’Italia, un reale interesse a riformare l’amministrazione[29] …” (p. 103). Tuttavia, secondo il Melis, due nuovi fattori interpretativi consentono all’analista (ed al lettore) di non accettare uno sviluppo storico-istituzionale “pessimistico”: “il processo di integrazione europea”, con la creazione e l’implementazione sempre più accentuata di un comune sistema amministrativo europeo, e “la riduzione in atto dello Stato centrale a vantaggio dei poteri decentrati”, secondo modelli di progressivo decentramento e/o di federalizzazione[30]. Proprio questi due profili di innovazione sistemica permettono al ponderato giudizio dell’Autore, molto realistico (e condivisibile), di formulare una conclusione del proprio lavoro di ricerca tutto sommato positiva ed aperta: “Modelli organizzativi e culture professionali ereditati dall’Ottocento, più volte modificati ma mai definitivamente abbandonati, appaiono oggi, di fronte ai fattori di cambiamento appena descritti, assolutamente inadeguati. E’ plausibile che toccherà a una nuova generazione di funzionari pubblici, diversa dall’attuale, di archiviarli definitivamente. La vecchia burocrazia ottocentesca fece l’Italia unita, quella giolittiano guidò lo Stato negli anni difficili del decollo capitalistico, quella del periodo fascista in qualche modo governò l’economia nel tempo della grande crisi e quella del dopoguerra lavorò alla ricostruzione del Paese. Nel bene e nel male, riflettendone pregi e difetti strutturali, la burocrazia è stata una componente della storia italiana. La scommessa – ora – è se avremo una burocrazia per l’Europa, capace di trovare in se stessa e – chissà? – forse proprio nella sua stessa storia risorse insospettabili e nascoste virtù.” (p. 105).
Così, in estrema sintesi e riconducendo i fattori innovativi (ricordati dal Melis) a regolarità “planetarie”, proprio la fine della “Guerra Fredda”, con la vittoria dell’Occidente (e del suo modello di democrazia pluripartitica competitiva, basato su di un Welfare evoluto e sull’economia di mercato) sul comunismo sovietico ed il compiuto affermarsi del fenomeno economico, sociale, culturale, giuridico e politico della c.d. “Globalizzazione”[31], propongono alle istituzioni amministrative italiane grandi speranze di modernizzazione ed internazionalizzazione, cui attualmente, pur con luci ed ombre, anche la nostra realtà peninsulare sta cercando faticosamente di adeguarsi, con un passaggio da risalenti logiche di “Government” ad operatività – “a network” – di “Governance”, con strumenti di managerializzazione e di sussidiarietà – orizzontale e verticale – sistemica[32]: in sintesi, si sta progressivamente assistendo ad una transizione dal “Welfare State” alla “Welfare Society”[33].
L’Autore, con questo pregevole lavoro qui recensito, conduce il lettore, anche quello più sprovveduto ed ignorante in materia, nel mondo della Scienza dell’Amministrazione Pubblica, vista con gli occhi (e lo strumentario d’analisi) di uno storico delle istituzioni amministrative italiane, con un rigoroso utilizzo delle fonti giuridiche ed extra-giuridiche (altrettanto e, forse, più rilevanti per l’esatta comprensione dei contesti): “funzioni”, “strutture”, “personale” ed “attività”, cioè i classici temi della ricerca in materia di Pubblica Amministrazione, sono qui tutti ampiamente e motivatamente considerati; il focus analitico-espositivo è concentrato, per precisa e condivisibile scelta redazionale, sulla Pubblica Amministrazione statale (e “parastatale”) unitamente alle più importanti vicende riguardanti il correlato profilo del personale[34]
Infine, il contributo del Melis, anche in ragione della concreta sintesi espositiva che lo caratterizza (oltre che dell’accattivante uso di strumentazione sociologico-letteraria coeva e di significative descrizioni biografiche)[35], si rivolge non solo ad un pubblico di studiosi della materia (studenti, ricercatori e docenti), ma anche ai dipendenti pubblici (per l’aggiornamento e/o per la progressione professionale) ed, in ultima analisi, a tutti coloro che, in breve, vogliano conoscere ed approfondire, in chiave non solo storico-istituzionale, il complesso mondo della burocrazia italiana[36].  
 
 
 
Marco Rondanini
                 
Le opinioni espresse nel presente scritto sono da ricondursi unicamente all’autore dello stesso, restando impregiudicate le posizioni delle Istituzioni formative e/o lavorative di riferimento (Università Cattolica ed Agenzia delle Entrate). Eventuali errori grammaticali o sintattici, non evidenziati in sede di rilettura, sono anch’essi da attribuirsi all’autore. Il presente scritto è stato sottoposto, preventivamente, al sommario esame del Tutor universitario dottorale Prof. M. Scazzoso, che si ringrazia per le osservazioni critiche formulate in argomento.
 


Rondanini Marco

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