Il divieto di anatocismo nei contratti bancari

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Con il termine anatocismo l’art.1283 c.c. si riferisce ad un particolare fenomeno in virtù del quale si realizza la produzione di interessi sugli interessi già maturati sul capitale iniziale. In particolare, la norma de qua così recita: “in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla scadenza sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi”.

Da un primo esame del dettato normativo si evince che il nostro ordinamento ammette la pratica anatocistica solo in tre casi tassativi: in presenza di un’apposita convenzione delle parti, in relazione alla quale si suole parlare di anatocismo convenzionale, purchè questa sia posteriore alla scadenza degli interessi e si riferisca ad interessi dovuti per almeno sei mesi; ove ci sia una domanda giudiziale, tale è il caso dell’anatocismo giudiziale, ed al ricorrere delle medesime condizioni dell’anatocismo convenzionale e cioè la domanda posteriore alla scadenza degli interessi e relativa ad interessi dovuti per almeno sei mesi; ed, infine, l’anatocismo usuale riferito alla sussistenza di un uso normativo contrario che sappia derogare alla disciplina generale.

Il fenomeno dell’anatocismo ha suscitato particolare attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza più recente in relazione alla prassi diffusa degli istituti di credito di procedere, in applicazione delle norme bancarie uniformi del 1951, alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dei clienti a fronte di una capitalizzazione che è annuale per i saldi attivi dei clienti stessi. Nella specie, ci si è chiesti se lo stesso si possa considerare un uso contrario che, in virtù della previsione di cui all’art.1283 c.c. sia capace di configurare un uso normativo idoneo a derogare al divieto di anatocismo.

A tal proposito si rende doverosa una breve digressione sugli usi normativi al fine di distinguerli dagli usi negoziali, difatti la consolidata interpretazione giurisprudenziale si pone in senso favorevole al riconoscimento dell’efficacia derogatoria al divieto di anatocismo con riferimento ai soli usi di carattere normativo in quanto i soli idonei a produrre effetti sostanzialmente normativi capaci di intaccare il dettato normativo. Ci si chiede, quindi, se le norme bancarie uniformi del 1951 possano qualificarsi alla stregua di un uso normativo dotato dei requisiti cui, l’art. 1283 c.c. subordina la non operatività del divieto di anatocismo. Nella prassi, l’uso normativo viene annoverato dall’art. 1 delle preleggi tra le fonti non scritte del diritto aventi carattere sussidiario, essi devono essere accompagnati dalla diuturnitas, ossia la costante ripetizione nel tempo di un dato comportamento, unitamente alla opinio iuris ac necessitatis, e cioè la convinzione che tale comportamento costituisca una regola del diritto. Gli usi normativi hanno efficacia praeter legem o secundum legem e, quindi rilevano, o nei casi di assenza di una specifica regolamentazione legislativa della materia o in quelle ipotesi in cui sia la stessa legge a richiamarli. Gli usi negoziali, invece, sono le clausole o i comportamenti uniformi tenuti dalle parti in una certa situazione e, quindi, si connotano per la loro riferibilità ad una data prassi e per l’assenza della convinzione che essi costituiscano una regola del diritto.

Con riguardo ai contratti bancari la qualificazione degli usi contenuti nelle norme bancarie uniformi ha visto alterne interpretazioni da parte della giurisprudenza. Un’iniziale posizione giurisprudenziale si poneva in senso favorevole all’attribuzione di carattere normativo all’uso contenuto nelle norme bancarie uniformi del 1952 con conseguente potere derogatorio al divieto di anatocismo di cui all’art.1283 c.c. (Cass. Civ. N.7571 del 20 giugno 1992).

Sul finire degli anni Novanta due sentenze della Cassazione negano il carattere normativo di tali usi stante l’assenza di quei requisiti indispensabili perché tale qualificazione avvenga. Difatti, difetterebbe la prova dell’anteriorità dell’uso poi trasfuso nelle norme bancarie uniformi del 1952 rispetto all’entrata in vigore del codice del 1942 ed ancora non sussisterebbe l’elemento soggettivo consistente nella consapevolezza di tenere un comportamento dovuto perché conforme ad una norma. Invero, le clausole sulla capitalizzazione sono imposte al cliente senza alcuna possibilità di negoziare le stesse. (Cass. Civ. Nn.2374 e 3096 del 1999) Sulla scia di siffatte considerazioni le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi, inserite nei contratti bancari, vengono qualificate alla stregua di usi negoziali non idonee a derogare alla previsione normativa di cui all’art. 1283 c.c. e pertanto, le clausole inserite in forza di tale uso poiché contrastano con una norma imperativa saranno nulle ex art. 1418, comma 1, c.c. e ciò avuto riguardo anche alla particolare disparità di conteggio a vantaggio degli istituti di credito che viene effettuata in ragione di tale prassi.

Sul punto si assiste ad un intervento legislativo rivolto a disciplinare da un lato, la corresponsione degli interessi in modo coerente con la previsione di cui all’art.1283 c.c. e dall’altro, diretto a regolamentare la problematica degli interessi pregressi corrisposti sulla base della capitalizzazione trimestrale di cui alle norme bancarie uniformi. Nella specie il D.Lgs.342/99 impone al CICR l’emanazione di un futuro intervento autoritativo che stabilisca le modalità della produzione degli interessi anatocistici nei contratti bancari. La ratio ispiratrice del decreto è quella di garantire medesime regole di capitalizzazione degli interessi debitori e creditori scongiurando la disparità di trattamento precedente che consentiva alle banche di lucrare interessi sulla base di una diversa scansione temporale dei conteggi. Il decreto non risolve, tuttavia, la questione intertemporale relativa alla validità delle clausole anteriori all’entrata in vigore del decreto. Difatti, la disciplina da esso prevista e che, contemplava una sanatoria retroattiva delle clausole anatocistiche anteriori, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega. ( Corte Cost., 17 ottobre 2000,n. 245)

A fronte di siffatto panorama normativo e giurisprudenziale, la giurisprudenza di merito ha assunto alterne posizioni a fronte delle numerose domande provenienti dai clienti delle banche e dirette alla restituzione degli interessi passivi pagati in base alla capitalizzazione trimestrale. In alcuni casi si è proceduto alla conversione della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi ripristinando, così una certa uniformità di trattamento con la capitalizzazione degli interessi attivi operata dalle banche su base annuale. In tal senso, a fronte delle domande dei clienti delle banche si è proceduto alla restituzione della differenza tra gli interessi calcolati in base alla capitalizzazione trimestrale e quelli dovuti in base alla capitalizzazione legittimamente applicata su base annuale. Un altro indirizzo interpretativo si attesta in senso favorevole al riconoscimento della nullità in relazione a tutte le clausole sia a favore della banca che del cliente con possibilità di procedere a dichiarare la nullità dell’intero contratto ove la clausola sia essenziale, in applicazione dei principi di cui all’art. 1419 c.c. trascurando, tuttavia, le esigenze di tutela del consumatore. Altra giurisprudenza, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale originario, afferma la natura normativa degli usi anatocistici sull’assunto che il riconoscimento costante nel tempo avrebbe ingenerato la consapevolezza della vincolatività normativa di tali usi. In ragione di tale diversificato quadro giurisprudenziale, le Sezioni Unite nel 2004 sono intervenute sancendo il carattere esclusivamente negoziale degli usi sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi stabilendo la nullità delle clausole anatocistiche per contrasto con l’art.1283c.c. e la rilevabilità d’ufficio della stessa. Secondo le Sezioni Unite un uso contrario deve preesistere all’entrata in vigore del codice civile e non può formarsi successivamente perché, in tal caso, sarebbe un uso derivante da clausole negoziali nulle ed in quanto tale inefficace. Sul tema dell’anatocismo sono tornate a pronunciarsi le Sezioni Unite della Cassazione, che nella pronuncia N. 24418 del 2010 si sono occupate delle conseguenze della dichiarazione di nullità della clausola anatocistica, da cui derivano differenti problematiche; occorre, infatti, valutare da un lato le modalità della ripetizione delle somme indebitamente corrisposte in base a tale clausola e dall’altro occorre analizzare la possibilità di sostituzione della previsione nulla con un’altra che contempla l’anatocismo con diversa cadenza.

Quanto alla possibile ripetizione delle somme corrisposte indebitamente in base a tale clausola si è posto il problema della prescrizione, per un orientamento minoritario la prescrizione di tale diritto decorreva dall’annotazione dell’addebito nel conto e ciò sull’assunto della rilevanza dei singoli atti di esecuzione che avevano l’effetto di modificare il saldo. Altro indirizzo maggioritario rilevava che la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito decorrerebbe dalla chiusura del rapporto, stante il carattere unitario del rapporto di conto corrente. Tale tesi muove dalla considerazione che la serie dei versamenti e prelievi determina una variazione del titolo originario ma che solo con la chiusura del conto si definiscono in via definitiva i crediti ed i debiti delle parti e le somme trattenute indebitamente dall’istituto possono costituire oggetto di ripetizione.

Su tale questione le Sezioni Unite criticano in modo radicale la tesi che sposa la natura unitaria del rapporto di conto corrente sostenendo che esso non è elemento decisivo al fine di individuare nella chiusura del conto il momento da cui fare decorrere il termine di prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito. Difatti, la circostanza che dal rapporto di conto corrente derivino prestazioni scaglionate nel tempo non impedisce di considerare indebito ciascun pagamento non dovuto e ciò dal momento in cui esso ha avuto luogo si rileva, infatti, che è da tale momento che sorge il diritto del solvens alla ripetizione e che inizia a decorrere la relativa prescrizione. In sostanza nei rapporti di conto corrente bancario il problema fondamentale è individuare il momento in cui si verifica un pagamento ossia un trasferimento patrimoniale. Sul punto le Sezioni Unite accolgono la tesi della natura meramente contabile del rapporto di conto corrente escludendo che le annotazioni passive possano qualificarsi quali pagamento e che, quindi, da esse possa sorgere il diritto alla ripetizione dell’indebito. Si rileva, infatti, che solo dal momento della chiusura del conto tale termine prescrizionale decorre. Ove, invece, il correntista effettui un versamento indebito, secondo la Suprema Corte si può ritenere sussistente uno spostamento patrimoniale solo ove il correntista effettui un versamento su di un conto in passivo cui non accede un’apertura di credito a favore del correntista e per questi versamenti la prescrizione decorre dall’avvenuto pagamento. Nella diversa ipotesi in cui i versamenti vanno semplicemente a ripristinare la provvista dell’apertura di credito questi non si qualificano come pagamenti e per essi la prescrizione si farebbe decorrere dalla chiusura del conto corrente.

Il dibattito sul tema della prescrizione dell’azione di ripetizione ha ripreso ad agitarsi con l’approvazione dell’art.2, comma 61, L.10/2011 secondo cui per le operazioni regolate in conto corrente la prescrizione, di cui all’art.2935 c.c., deve intendersi decorrente dal giorno dell’annotazione senza che si debba fare luogo alla restituzione degli importi già versati alla data di entrata in vigore della stessa normativa. La norma de qua individua il momento da cui fare decorrere la prescrizione nell’annotazione; ed ancora stabilisce che l’azione di ripetizione dell’indebito non è ammissibile per le somme che risultino pagate alla data di entrata in vigore della legge. La disposizione in questione che, si autoqualifica di natura interpretativa, ed avente efficacia retroattiva è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale. Il giudice di legittimità, con sentenza del 05 Aprile 2012 N.78, premettendo che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica la cui efficacia retroattiva trovi riscontro nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, rileva la necessità che l’efficacia retroattiva di certe disposizioni non collida con il rispetto di altri fondamentali principi quali quello di ragionevolezza, di tutela dell’affidamento ed il rispetto della certezza del diritto. Pertanto, in un recentissimo arresto la Corte Costituzionale ha osservato che la norma censurata con la sua efficacia retroattiva lede il canone della ragionevolezza delle norme ed, inoltre, la suddetta norma è intervenuta in assenza di una vera e propria situazione di incertezza del dato normativo. Sul punto, infatti, l’art. 2935 c.c. poneva in modo del tutto chiaro la regola secondo cui la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere legalmente, in coerenza con la ratio dell’istituto che postula l’inerzia del titolare del diritto. La Corte Costituzionale rileva che la norma censurata si caratterizza per la sua ampia formulazione utilizzando l’espressione “diritti nascenti dall’annotazione” che si riferisce anche al diritto di ripetere le somme indebitamente corrisposte, quali quelle derivanti da interessi anatocistici, ma ai sensi dell’art. 2033 c.c. perché si ripeta un indebito deve sussistere un pagamento che sovente nel conto corrente si configura all’atto della chiusura del conto. Subordinare l’azionabilità del diritto all’annotazione porterebbe a ritenere esistente il diritto in un momento diverso da quello in cui lo stesso può essere fatto valere ex art. 2935 c.c. La norma di cui all’art. 2, comma 61, L.10/2011 è, quindi, illegittima per contrasto con l’art.3 Cost. in quanto non rispettosa dei principi di uguaglianza e ragionevolezza. Tuttavia, non è questa l’unica censura mossa all’impugnata disposizione ma si evidenzia un chiaro contrasto con i principi derivanti dall’ordinamento comunitario ed, in particolare, con quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che all’art. 6 enuncia il principio della preminenza del diritto e di un processo equo e giusto. In virtù di tale ultima previsione, che risulta vincolante nel nostro ordinamento quale norma interposta rilevante ex art. 117 Cost. , ogni ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia deve giustificarsi in base ad imperative ragioni di interesse generale. Nel caso che ci occupa non è dato rinvenire alcun motivo di interesse generale che possa considerarsi idoneo a giustificare l’effetto retroattivo.

Maria Pia Melia

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