Il diritto dell’imputato di intervenire per ultimo riguarda solo la fase della discussione in cui le parti rassegnano le loro rispettive conclusioni

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(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 523, co. 1)

     Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

1. Il fatto

La Corte di Appello di Torino, riqualificato il fatto contestato ai sensi dell’art. 337 cod. pen., confermava una pronuncia del Tribunale di Novara con cui l’imputato era stato condannato alla pena di sei mesi di reclusione, previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, per avere minacciato e offeso, in luogo pubblico e alla presenza di più persone, l’agente penitenziario dell’istituto in cui era detenuto in regime penitenziario differenziato ai sensi dell’art. 41 bis ord. pen. mentre lo invitava a recarsi presso l’infermeria per controlli medici collegati allo sciopero della fame.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduceva i seguenti motivi: 1) violazione della legge processuale con riferimento agli artt. 24 Cost., 598 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 523, comma 5, cod. proc. pen., 146-bis, disp. att. cod. proc. pen. e 181 cod. proc. pen.; 2) vizio di motivazione per mancanza e illogicità in quanto la Corte distrettuale non aveva esaminato e risposto alle argomentazioni difensive, essendosi limitata, a parere della difesa, ad aderire acriticamente al provvedimento di primo grado, non avendo invece preso in considerazione le doglianze relative alla errata qualificazione dell’intimazione di sottoporre il detenuto a visita medica come atto dell’ufficio; 3) vizio di motivazione per mancata applicazione all’imputato della scriminante di cui all’articolo 393-bis cod. pen.; 4) violazione, inosservanza ed erronea applicazione della legge sostanziale in ordine al trattamento sanzionatorio perchè, per il difensore, la Corte di Appello aveva applicato la recidiva senza prendere in considerazione gli elementi a favore dell’imputato addotti dalla difesa, con argomentazione generica e pleonastica priva dell’indicazione dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen..


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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.

Per quanto concerne la prima doglianza, gli Ermellini osservavano che, se il diritto di intervenire per ultimo, stabilito dall’art. 523, comma 5, cod. proc. pen., a favore dell’imputato e del difensore, riguarda solo la fase della discussione in cui le parti rassegnano le loro rispettive conclusioni, nel caso di specie, invece, per il Supremo Consesso, la richiesta di rendere spontanee dichiarazioni da parte del detenuto era stata tardiva in quanto intervenuta quando era stata già chiusa la discussione dal momento che, come (stimato) correttamente rappresentato nella sentenza della Corte di Appello, essa apre, senza soluzione di continuità, la fase processuale della deliberazione.

Ciò posto, per quanto concerne il secondo e il terzo motivo di ricorso, i giudici di legittimità ordinaria ritenevano come questi motivi fossero ambedue inammissibili perché, a loro avviso, essi si risolvevano in non consentite censure in fatto all’iter argomentativo della sentenza di merito nella quale vi era stata, invece, sempre per la Corte di legittimità, una sintetica, ma puntuale, risposta a detti rilievi, a cominciare dalla qualificazione come non arbitraria della condotta tenuta dall’agente penitenziario, rilevandosi al contempo che la scriminante invocata dalla difesa presuppone il compimento di un’attività ingiustamente persecutoria che, eccedendo arbitrariamente i limiti delle attribuzioni funzionali del pubblico ufficiale, fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell’azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario (Sez. 6, n. 25309 del 19/05/2021; Sez. 6, n. 11005 del 05/03/2020) e, invece, nel caso in esame, al contrario, l’agente penitenziario si era limitato ad invitare il detenuto a sottoporsi a visita medica.

Chiarito ciò, la censura, secondo cui la sentenza non aveva motivato sul gravame riguardante la consultazione del fascicolo del pubblico ministero da parte del pubblico ufficiale, prima della sua audizione, era reputata generica e manifestamente infondata in quanto egli si era limitato a consultare legittimamente i documenti da lui redatti depositati nel fascicolo del pubblico ministero ed esaminati da tutte le parti del processo (Sez. 6, n. 41768 del 22/06/2017).

L’ultimo motivo di ricorso, infine, considerato generico e aspecifico, che censurava l’applicazione della recidiva, l’eccessiva commisurazione della pena e l’omessa indicazione dei parametri di cui all’art. 133 cod. pen., era stimato manifestamente infondato perché, dalla motivazione della sentenza impugnata, per la Cassazione, non era dato riscontrare alcun profilo di incompletezza o illogicità nella determinazione della sanzione inflitta all’imputato visto che, in relazione alla recidiva, la Corte di Appello aveva argomentato la mancata esclusione proprio in forza dei “numerosi precedenti dell’imputato” mentre, circa l’eccessività della pena, questa era stata determinata nel minimo edittale tanto da non richiedere il richiamo ai criteri di cui all’ art. 133 cod. pen. riservato solo nel caso sia applicata una pena base pari o superiore al medio edittale (Sez. 5, n. 35100 del 27/06/2019).

4. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi affermato che il diritto di intervenire per ultimo, stabilito dall’art. 523, comma 5, cod. proc. pen. (che, come è noto, dispone che in “ogni caso l’imputato e il difensore devono avere, a pena di nullità, la parola per ultimi se la domandano”), a favore dell’imputato e del difensore, riguarda solo la fase della discussione in cui le parti rassegnano le loro rispettive conclusioni.

Orbene, tale approdo ermeneutico è condivisibile fermo restando che, se è vero che la “discussione può essere interrotta per l’assunzione di nuove prove se non di assoluta necessità” (art. 523, co. 6, primo periodo, cod. proc. pen.), è altrettanto vero però che, all’assoluta necessità di assunzione di nuove prove, “non sono assimilabili le dichiarazioni spontanee dell’imputato” (Sez. 3, sent. n.16677 del 02/03/2021) e, quindi, nel caso di dichiarazioni spontanee, questa norma procedurale non rileva in tale ipotesi.

Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di comprendere il termine ultimo, non oltre il quale l’imputato può intervenire.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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