Il coraggio del dovere

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Se Platone  individua il coraggio nell’opinione retta e conforme alla legge su quello che si deve o non si deve fare, Aristotele lo considera il giusto mezzo fra paura e temerarietà, virtù principale in quanto costituisce la saldezza della deliberazione.
         Occorre tuttavia distinguere il coraggio dal fanatismo perché questi nel sostenere e tenere ferme le proprie idee rimane sensibile alla percezione del nuovo, non irrigidito in una formula determinata ( Jaspers).
         E’ stato anche detto che il coraggio è una lacerazione dell’esistenza accettata come necessità al fine di portare a compimento la realizzazione dell’essere che ci è proprio (Goldstein), atteggiamento orientato al possibile di ciò che non è ancora stato realizzato.
         In questo compimento del proprio essere nel quale si fa emergere le proprie concezioni e il proprio senso di giustizia, quale coscienza, si ha un rapporto dell’anima con se stessa e l’uomo “interiore” o “spirituale” nel conoscersi in termini immediati e privilegiati giudica se stesso in modo sicuro e infallibile.
         Ma la forza della coscienza nell’introdurre dubbi e problemi suscita opposizioni o ribellioni a poteri o sistemi di credenze istituzionalmente stabiliti, presenta idee e regole morali non ancora accettate ma destinate a soppiantarle, a mostrare il carattere incerto e problematico di quello che apparentemente è solido e certo.
         Si oppone ad essa la rete organizzativa degli interessi costituiti, l’organizzazione sociale quale forza negativa che limita l’uomo in rapporti sociali predefiniti, tutelanti interessi di per sé non giustificati dal contesto relazionale, rispondenti a modelli puramente autoriproduttivi.
         Il male, secondo la filosofia moderna, non è che un disvalore cioè l’oggetto di un giudizio negativo di valore, risulta pertanto necessario rifarsi alle regole o norme su cui si fonda il giudizio di valore e valutare se l’azione è in contrasto con il concetto di sopravvivenza del benessere propria della elite dominante, si possono quindi per tale via scindere due mali uno sociale e l’altro individuale.
         Comunque si voglia considerare tale esigenza, questa si esprime in regole o norme con le quali i comportamenti umani possono entrare in contrasto e questi possono assumere lo status di male, non perché lo siano di per se stessi, ma perché così appare al complesso di interessi toccati in quanto generano disvalore nella loro condotta.
         La reazione dà luogo all’isolamento, alla pressione psichica, premessa per ulteriori atti materiali tesi a rovesciare il disvalore dell’azione sul soggetto che l’ha effettuata.
         Solo una forte autocoscienza di valori e doveri, nata da esperienze giovanili, può reggere a tale pressione, vi è una ricerca interiore di ideali, ossia di ciò che è formale e perfetto anche se appartiene ad un’idea di perfezione che come tale può essere irreale. E’ la ricerca del rapporto dell’uomo con gli altri indipendentemente dall’apparato relazionale che rappresenta, viene riaffermato il rapporto autonomo del ruolo all’interno dell’organizzazione.
         Il coraggio di essere se stessi, quale insieme di valori, e non membro di un gruppo portatore di interessi economici inespressi e quindi mascherati.
         Nasce spontanea la riflessione sul dovere, gli Stoici lo considerano conformità all’ordine razionale del tutto indipendente dal conseguimento della felicità ultramondana propria della virtù aristotelica, ma è solo con Kant che il dovere superando il concetto di facoltà del desiderare si trasforma in azione compiuta unicamente in vista della legge e per rispetto ad essa a prescindere da tutte le inclinazioni naturali, in quanto sola ed autentica azione razionale.
         Kant distingue fra azione conforme alla legge ma non fatta per rispetto alla legge, quindi azione legale, ed azione fatta per il rispetto della legge, pertanto azione morale, venendo per tale via a coincidere moralità e dovere.
         Nell’etica contemporanea si pone a fondamento la felicità, che da collettiva è diventata individuale, a cui si affianca l’incremento delle potenzialità del singolo nella certezza che questo ricadrà a favore della collettività e per tale via si può negare il prestigio del dovere nella ricerca dell’affermazione personale, circostanza peraltro sempre ampiamente esistita nei momenti di crisi e violenta evoluzione sociale.
         Il dovere così fortemente posto è in realtà in contrasto con l’istinto e i sentimenti naturali di competizione e collaborazione, tuttavia non può essere negato impunemente se non si vuole smontare l’efficienza di una organizzazione.
         Il dovere del collaboratore è il riflesso del dovere del dirigente, ma non può ridursi ad aspetti puramente repressivi o monetari perché non sarebbe un dovere morale, tuttavia esso per esistere ha bisogno dell’onore ossia della manifestazione di considerazione e di stima tributata dalla collettività a colui che ha adempiuto all’azione morale.
         Se gli antichi consideravano l’onore uno dei beni fondamentali della vita sociale, attualmente lo si è ridotto e confuso con la semplice “rispettabilità”, ossia con il conformismo, facendogli perdere l’antica valenza di stimolo all’azione morale per ridurlo a semplice profittabilità.
         Si è sottolineato in tal modo l’aspetto negativo della doppia verità, per cui vi è una verità pubblica ed ufficiale per i “più” ed una privata per pochi, togliendo pertanto il carattere aristocratico originale di Averroè che tale concetto possedeva, per cui vi è una ricerca filosofica difficile da pochi sviluppata affiancata ad una vulgata semplificata per la maggioranza impegnata in altri settori.
        La ricerca individuale della felicità portata all’estremo nell’individualismo ideologico determina la perdita del concetto di diversità del collettivo rispetto al singolo, unire le forze per un’azione collettiva è inutile non esistendo più la “causa comune” e viene pertanto a dissolversi il principio della responsabilità comune, considerata base per l’aborrito “Stato assistenziale”, elemento di dipendenza e quindi di ostacolo alla felicità quale esclusivo successo personale, alla cui gara tutti confusamente partecipano, in pochi arrivano e solo nell’arrivo si consegue il rispetto sociale.
         Si nega di fatto per tale via la Kalokagatia, ossia l’ideale greco della perfetta personalità, sia come virtù intera, del perfettamente buono e bello, cioè coraggioso nel non corrompersi con gli altri beni, sia come virtù magnanima, desiderio di essere degni di grandi onori ma giudicando modestamente e quindi onorevolmente se stessi secondo il proprio effettivo valore, senza gelosie e invidie per gli altri (Cartesio).
         La tanto decantata laicità viene meno in quanto questa “ideologia senza ideali”, come la chiama Bauman, diventa elemento di esclusione e rifiuto del rispetto creando spirali di rancori, in altre parole mostra un carattere di antagonismo, divenendo essa stessa religione individuale della felicità promessa, demolitore della comunità. Questa ricerca individuale della terra promessa, senza che vi sia una precedente introspezione, prepara i futuri conflitti sociali a cui i vertici sperano di sottrarsi attraverso una continua divisione, in cui ognuno è nemico per gli altri, rendendo per tale via ancora più conservativa la società attuale.
         Nel liquidare i pensieri alternativi vi è un impoverimento della creatività visionaria, andando verso una razionalità rigida senza fantasia, sostanzialmente arida, misurabile esclusivamente in ritorni economici a breve termine, questo pone il problema della pazienza, come attesa di un ritorno non solo economico derivante dalla vicendevole sopportazione quale scelta ponderata.
         Il blocco emozionale e mentale che impedisce la nascita dei pensieri alternativi crea l’auto-realizzazione dell’evento, l’effetto cumulato delle relazioni, ossia un circolo vizioso auto-catalitico che nel rafforzarsi in una crescita esponenziale, può portare alla catastrofe e morte del sistema relazionale se non interviene a correggerne l’andamento un feed-back negativo, ossia l’idea della socializzazione, del pensare in termini sociali non riducendo tutto al singolo individuo quale depositario dell’assoluto successo o della totale sconfitta.
         Si tratta di una reazione nata dalla sconfitta delle ideologie moderniste in cui l’individuo veniva omologato nella macchina pubblica della collettività, ma che si risolve di per se stessa in una nuova ideologia altrettanto assoluta, negazione della laicità e dell’uomo seppure falsamente liberatoria, nuova fonte di malessere.
         L’individualismo quale contraltare al dovere etico verso la collettività, un nuovo estremismo ideologico che nel semplificare le relazioni umane verso l’utile immediato si rivela altrettanto assoluto del dovere metafisico di Fichte, in cui il mondo sensibile non ha altra funzione che fornire i limiti contro cui il dovere etico ha modo di sviluppare la propria funzione liberatoria.
         Come osserva Zygmunt Bauman l’ideologia attualmente predicata dai vertici perché sia fatta propria dal popolo coincide con l’opinione che pensare alla totalità ed elaborare concezioni della società giusta sia una perdita di tempo, in quanto irrilevante per i destini individuali e per il successo nella vita.
         Nel rendere edonistica la formazione dell’uomo in realtà si prepara l’impoverimento del collettivo, ossia della totalità e la capacità di perseguire obiettivi comuni, si crea l’angoscia del singolo senza per questo nel negare risolvere il problema della scelta e del controllo della elité, confondendo totalità e totalitarismo quale retaggio del XX secolo.
         Il dovere pone un ulteriore problema di relazione con l’onestà, si legge su Le Monnier che l’onestà è “l’integrità morale in quanto si traduce o manifesta in un comportamento improntato costantemente a caratteri compresi in un ambito che va dalla correttezza alla virtù”.
         Ma cos’è a sua volta la correttezza? se non un “comportamento secondo le buone regole della morale e dell’educazione anche civica” ( Le Monnier).
         E la virtù? Hegel osserva che il parlare della virtù confina facilmente con la declamazione vuota, con qualcosa di astratto e di indeterminato, si che ai nostri giorni si parla di valori e norme da un lato, di atteggiamenti e modi di vita dall’altro.
         L’etica che ha sostituito la virtù non è altro per Spencer che l’adattamento progressivo dell’uomo alle esperienze ripetute e accumulate di vita, in altre parole alle condizioni di vita.
         L’onestà ha pertanto bisogno di un riconoscimento nel gruppo attraverso il rispetto del contratto interno nei vicendevoli rapporti, come in tutte le strategie miste questa ha successo solo nel riconoscimento reciproco, solo nel caso in cui i comportamenti truffaldini all’interno del gruppo siano pochi e possano essere scoperti e puniti vi può essere il fiorire di un comportamento rispettoso degli impegni e della personalità altrui, in caso contrario diventa perdente e il prorompere degli aspetti puramente individualisti porterà a lungo termine a costi e difficoltà gestorie delle organizzazioni, anche se il difetto costituisce stimolo al cambiamento, alla correzione in corso d’opera.
 
 
Bibliografia
·        Zygmunt Bauman, L’ideologia senza ideali, in Repubblica, 43, 17/9/07;
·        N. Abbagnano, Storia della filosofia, Utet, 1974.
 

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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