I decreti “Pinto” e l’art. 55 della legge Sviluppo n. 134/2012

Scarica PDF Stampa

L’esecuzione dei decreti di condanna per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, tutelato dalla Carta dei Diritti dell’Uomo, dalla Costituzione italiana e recepito dal diritto interno con la legge n.89/2001, non può essere impedita. La norma del decreto sviluppo, ove interpretata in senso limitativo, deve essere disapplicata dal giudice nazionale.

Con l’entrata in vigore dell’art. 1 comma 1224 della legge finanziaria 2007 il Ministero dell’Economia e delle Finanze è divenuto soggetto legittimato passivo nei contenziosi per irragionevole durata dei giudizi incardinati presso i TAR, il Consiglio di Stato, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia, le Giurisdizionali della Corte dei Conti, competenza già a carico della Presidenza del Consiglio dei ministri, ma soprattutto, ai sensi del successivo comma 1225 (oggetto dell’interpretazione autentica di che trattasi), divenne l’ente tenuto al pagamento dei correlati indennizzi accordati dalle Corti di Appello territorialmente competenti, ai sensi della legge 89/2001 ed alla corresponsione di somme di denaro correlate alle sentenze di condanna dello Stato Italiano emesse dall’Alto Consesso di Strasburgo in caso di mancato rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali definiti dal Titolo I (artt. da 2 a 18) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Detto art. 1 comma 1225 della legge n. 296/06 così prevedeva: “Al fine di razionalizzare le procedure di spesa ed evitare maggiori oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi internazionali, ai pagamenti degli indennizzi procede, comunque, il Ministero dell’economia e delle finanze.

L’art. 55 della legge n. 134/2012 (Legge Sviluppo) introduce, poi, una interpretazione autentica del citato art. 1 comma 1225 l. n. 296/06, in contrasto con la ratio indicata espressamente in premessa dallo stesso.

Secondo detto art. 55 della legge Sviluppo, l’art. 1 comma 1225 l. n. 296/06 andrebbe interpretato nel senso che il Ministero dell’Economia e delle Finanze procede comunque ai pagamenti degli indennizzi in caso di pronunce emesse nei suoi confronti e nei confronti della Presidenza del Consiglio di Ministri.

Così facendo, il legislatore, lungi dall’interpretare una norma il cui dato testuale era chiarissimo ed incontestato da tutti, ha, invece, creato una nuova disposizione, palesemente viziata perché in contrasto con la nostra Carta Costituzionale nonché con la Carta Fondamentale dei Diritti dell’Uomo, con la conseguenza che essa non potrà che essere disapplicata da tutti i Giudici nazionali, in conformità ai dettami della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e della Corte di Giustizia Europea.

Il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica solo in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali nonché quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario.

La Corte Costituzionale ha pacificamente chiarito che una norma interpretativa deve trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza senza contrastare con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, quali il principio generale di ragionevolezza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti, la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

Nella specie, invece, è stata realizzata una sostanziale modifica della norma precedente, non rientrando la nuova disposizione tra le possibili varianti di senso del testo originario, incidendo così, in violazione dell’art. 3 della Costituzione, in modo irragionevole sul legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale dello Stato di diritto (per tutte: Corte Costituzionale, 21 ottobre 2011 n. 271).

L’irragionevolezza è palese, nella specie, se si considera che per ben sette anni la norma originaria è stata applicata ed interpretata in maniera pacifica, ingenerando il legittimo affidamento.

La nuova norma, invece, si appalesa come un mero escamotage finalizzato ad impedire il soddisfacimento dei crediti vantati, esponendo, così, lo Stato Italiano a “maggiori oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi internazionali” che, invece, la disposizione originaria malamente modificata aveva lo scopo di evitare.

Interventi legislativi come quello in commento, che mirano chiaramente a preservare solo l’interesse economico dello Stato violano, inoltre, il principio di parità delle armi di cui all’art. 6 § 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Infatti, lo Stato Italiano ha promulgato una legge nel vano tentativo di impedire il soddisfacimento dei crediti nascenti dai decreti “Pinto”.

In sostanza, un intervento legislativo siffatto non è giustificato da alcuna ragione e va, pertanto, disapplicato.

La Costituzione Italiana, infatti, ha pienamente recepito i trattati internazionali e, quindi, ove la legge italiana vi si ponga in insanabile contrasto, essa deve essere disapplicata ovvero dichiarata incostituzionale.

E’, allora, evidente, che soltanto una lettura costituzionalmente orientata della norma, può rimettere sui giusti binari del diritto e della legalità l’intera questione affrontata.

Giova richiamare al riguardo le precedenti pronunce della Corte Costituzionale n. 348/2007 e 349/2007 che hanno definitivamente affermato il principio secondo cui le leggi interne contrarie alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sono incostituzionali e rispetto ad esse va sollevata questione di legittimità.

Il suddetto principio trova piena applicazione, nella specie, in considerazione di quanto sopra esposto, con riferimento alle violazioni di cui all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

L’interpretazione offerta dal citato art. 55 l. 134/2012, nella parte in cui non menziona il Ministero della Giustizia, è palesemente incostituzionale per la violazione dell’art. 3 Cost., in quanto crea innanzitutto una disparità di trattamento tra i creditori dei diversi Dicasteri che agiscono per ottenere la medesima tutela, ovvero il recupero delle somme loro liquidate dall’autorità giudiziaria a titolo di riparazione per irragionevole durata del processo.

Sussiste, poi, ulteriore violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento tra i creditori che hanno già visto soddisfatto il loro diritto e gli altri che, pur essendo nelle stesse identiche condizioni e possedendo gli stessi requisiti di legge (il su richiamato “legittimo affidamento”), si potrebbero veder negato il soddisfacimento del loro credito.

L’incostituzionalità del citato art. 55 l. 134/2012 emerge, altresì, sotto il profilo della violazione dell’art. 10 Cost. in quanto esso si pone in contrasto, come detto, con la normativa comunitaria (art. 6 CEDU) recepita nell’ordinamento interno proprio con la legge n. 89/2001.

Non dimentichiamo, inoltre, che, con una recente sentenza, la Corte di Strasburgo ha sancito il principio di civiltà secondo cui lo STATO MEMBRO È OBBLIGATO A STANZIARE le somme destinate alla soddisfazione del creditore SENZA FRAPPORRE OSTACOLI, pena l’ulteriore violazione dell’art. 6 della Convenzione per mancata esecuzione della sentenza interna che accerta il diritto di credito dell’individuo nei confronti dello Stato (Sezione IV, 19 giugno 2007, ricorso n. 19981/02).

Con detta pronuncia, la Corte Europea ha ulteriormente condannato lo Stato Italiano, come detto, perché le condanne ex l. 89/2001 non vengono eseguite e vengono continuamente ostacolate con ogni escamotage.

Sempre la Corte Europea (Grande Camera), ripetutamente (ricorso n. 36812/07, con sentenza del 29 marzo 2006, paragrafo 240; ricorso n. 22644/03 del 31 marzo 2009, paragrafo 54), ha invitato lo Stato Italiano convenuto ad adottare tutte le misure necessarie per fare in modo che le decisioni nazionali siano eseguite entro i sei mesi che seguono il loro deposito in Cancelleria.

L’Italia, invece, non solo si dimostra sorda a dette condanne ed inviti, ma addirittura fa di peggio, tentando di rendere impossibile per i creditori ex lege Pinto ottenere il pagamento mediante l’esecuzione forzata, con la conseguenza che il creditore, così, rimane sine die in attesa di detto pagamento.

Con la pronuncia del 31 marzo del 2009, peraltro, la Corte Europea ha ancora sottolineato, respingendo la tesi del Governo, che non si può chiedere a un individuo, che ha già fatto ricorso alla c.d. legge Pinto per ottenere un indennizzo per la durata eccessiva del processo, di presentare un nuovo ricorso se la sentenza di condanna non viene eseguita in tempi rapidi.

E’ evidente, quindi, che esistono molteplici profili di incostituzionalità che non possono non essere sottoposte al più approfondito esame della Consulta.

La norma in commento è destinata, pertanto, ad essere disapplicata, sulla scorta degli insegnamenti della Corte di Giustizia nonché ad essere oggetto di questione di legittimità Costituzionale.

Ove così non fosse, si preannuncia una ulteriore nuova consistente mole di ricorsi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ove l’Italia sarà ulteriormente condannata a pesantissime sanzioni, come già avvenuto in precedenza.

Ciò che l’originario art. 1 comma 1225 l. 296/06 aveva dichiarato espressamente di voler evitare.

Polimeni Antonino

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento