I costi della politica tra autonomia e risanamento della finanza pubblica

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Sommario: 1. Premessa. 2. Il percorso argomentativo della circolare. 3. Una riflessione “preliminare”: l’applicazione della legge statale in Sicilia. 4. Norme di legge (statale e regionale) e amministrazione locale. 5. Un altro esempio. La composizione della giunta comunale e provinciale. 6. Conclusioni.

 

1. Premessa.

L’entrata in vigore della legge finanziaria del 2010, la n. 191 del 23-12-2009, ha dato luogo, in relazione ad alcune sue disposizioni, al consueto interrogativo circa l’ambito di applicazione in Sicilia.

Una recente circolare dell’Assessorato delle autonomie locali e della funzione pubblica della Regione Siciliana (n. 1 prot. n. 758 del 13-1-2011), nel tentativo di dare risposta a quell’interrogativo, offre lo spunto per alcune riflessioni che hanno quale punto di approdo l’emergere di una evidente frizione tra istanze autonomiste e istanze (centraliste) legate all’obiettivo di contenimento della spesa pubblica.

Più specificamente, la circolare ha ad oggetto l’applicabilità in Sicilia dell’art. 2 comma 186 della legge n. 191 del 2009, modificato dall’art. 1 del d.l. 25-1-2010 n. 2, nonchè degli artt. 5 e 6 del d.l. 31-5-2010 n. 78. Le disposizioni in questione sono accomunate, anzitutto, dall’obiettivo di ridurre la spesa pubblica, ma anche dall’avere quali destinatari i comuni e le province, introducendo una serie di misure volte a ridurne i costi.

Con il primo dei due interventi normativi, l’art. 2 comma 186 della legge finanziaria n. 191 del 2009, il legislatore statale ha ritenuto, ai fini di contenere la spesa dei comuni, di sopprimere la figura del difensore civico, le circoscrizioni di decentramento comunale, ad eccezione dei comuni la cui popolazione supera i 250.000 abitanti, il direttore generale, ad eccezione dei comuni la cui popolazione supera i 100.000 abitanti, i consorzi di funzioni tra gli enti locali, ad eccezione dei bacini imbriferi montani. La norma, inoltre, limita la possibilità del sindaco di delegare l’esercizio di proprie funzioni a non più di due consiglieri, in alternativa alla nomina degli assessori nei comuni con meno di 3.000 abitanti.

Con il secondo dei due interventi normativi, gli artt. 5 e 6 del d.l. n. 78 del 2010, viene prevista, tra gli altri, la soppressione dei gettoni di presenza e di ogni indennità per i consiglieri delle circoscrizioni; la rideterminazione degli importi dei gettoni di presenza e la riduzione delle indennità per i consiglieri comunali e provinciali; ancora è prevista la soppressione dell’indennità di missione per gli amministratori locali che partecipano ad organi o commissioni, nonché il divieto di cumulo degli emolumenti per chi è eletto o nominato in organi appartenenti a livelli diversi di governo.

 

2. Il percorso argomentativo della circolare.

La soluzione che la circolare fornisce è nel senso della non applicabilità delle norme in questione in Sicilia, con la conseguenza che gli enti locali “continueranno ad applicare, in relazione agli istituti oggetto delle sopra richiamate norme statali, in atto non recepite dal legislatore regionale, la normativa vigente nella Regione siciliana”.

Il ragionamento seguito parte dal presupposto che le norme statali refluiscono sullo status dell’amministratore locale e sull’assetto ordinamentale ed organizzativo degli enti locali e, dunque, su una materia che lo statuto riserva alla potestà legislativa primaria della Regione. Conseguenza di ciò è la necessità che il legislatore regionale recepisca con propria legge le norme statali.

Tuttavia, non si trascura la circostanza che le stesse norme statali, in quanto fissano limiti alle spese, sono anzitutto norme di coordinamento finanziario “come tali applicabili anche alle autonomie speciali in considerazione dell’obbligo generale di tutte le regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, di contribuire all’azione di risanamento della finanza pubblica”. Detto ciò, si precisa che le norme statali non si limitano a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, ma fissano “vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali, tali da ledere l’autonomia finanziaria di spesa garantita dall’art. 119 della Costituzione”. Pertanto, nella misura in cui la legge statale non si limita a definire principi fondamentali, la stessa non rappresenta un vincolo per la regione, che, peraltro, come si afferma, nell’ambito della potestà legislativa esclusiva ha già una propria disciplina in materia di status degli amministratori locali, contenuta nella legge 23 dicembre 2000 n. 30, nonché nella legge 16 dicembre 2008 n. 22, quest’ultima di recepimento della legge statale n. 244 del 2007 (finanziaria 2008).

Senza soffermarci sulle valutazioni di merito circa l’opportunità che la regione siciliana e gli enti locali si uniformino alla politica statale di contenimento della spesa pubblica e, nella specie, di riduzione dei costi della politica, la circolare e la prospettata soluzione consentono di fare alcune riflessioni legate a due distinti profili.

 

3. Una riflessione “preliminare”: l’applicazione della legge statale in Sicilia

La prima riflessione che la vicenda suscita riguarda, per così dire, a monte, la questione della applicazione in Sicilia delle norme statali, posto che in materia di enti locali lo statuto riconosce alla Regione una potestà legislativa esclusiva o primaria.

Sul punto rileva, anzitutto, l’assenza di una disciplina, statutaria e legislativa, che regoli il rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale. Tuttavia, secondo una prassi ormai consolidata, si ritiene che la legislazione statale, di regola, non sia immediatamente applicabile sul territorio regionale, essendo necessario recepirla con una apposita legge regionale capace di “filtrarne” il contenuto e di meglio adattarlo alle peculiarità del sistema regionale (nella maggior parte dei casi, infatti, il legislatore regionale recepisce con modifiche). Se è vero, tuttavia, che di regola la legislazione statale, semprechè si verta in materia assegnata alla potestà primaria, non trova immediata applicazione in Sicilia, è anche vero che ciò non è sempre pacifico. Anche nel caso oggetto della circolare, infatti, si afferma che “le norme statali che fissano limiti alle spese sono, in via generale, espressione della finalità di coordinamento finanziario e come tali applicabili anche alle autonomie speciali”. La decisione infine assunta della non applicabilità verte, come si è visto, sulla natura, ritenuta particolarmente puntuale e di dettaglio, delle norme statali. Queste, piuttosto che contenere disposizioni di principio, idonee a vincolare la stessa potestà primaria, entrano nel dettaglio, determinando in modo assolutamente puntuale, quanto a strumenti e modalità, la riduzione dei costi delle amministrazioni locali. La circolare ricorda, peraltro, che la legislazione siciliana, in parte recependo la normativa statale, in parte autonomamente, ha già adottato una serie di misure volte a realizzare l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, anche attraverso una nuova disciplina relativa allo status degli amministratori locali.

Senza addentrarci nel confronto delle due discipline, quella statale e quella regionale, ciò che emerge, in questo come in molti altri casi, salvo quanto si dirà più avanti, è la necessità di comprendere, in via preliminare, se e come le nuove norme statali trovino applicazione in Sicilia, ovvero se queste debbano essere oggetto di un’apposita legge di recepimento o se possano considerarsi direttamente applicabili. La risposta dell’Assessorato, che costituirà un fondamentale strumento interpretativo per le amministrazioni locali, tuttavia, arriva a distanza di un anno, almeno rispetto all’emanazione della prima delle due leggi in questione, la n. 191 del 2009.

Lo stato di incertezza, che si ripropone ogni qualvolta intervengono nuove norme statali nelle materie di potestà primaria, richiederebbe una chiara regolamentazione del rapporto tra legge statale e legge regionale, preferibilmente basata su un meccanismo automatico che, facendo salva la potestà esclusiva della regione, obblighi quest’ultima ad intervenire con propria legge entro un termine dall’entrata in vigore della legge statale. Il decorso infruttuoso del termine legittimerebbe una lettura del silenzio come espressione della volontà di estendere alla Regione la disciplina statale. Il meccanismo, che è stato previsto, pur con ulteriori discutibili complicazioni, all’interno di una delle due proposte di modifica dello statuto siciliano in atto presentate presso l’Assemblea regionale (d.d.l. n. 110), ha il merito di dare certezza circa la correttezza del riferimento normativo, evita le paralisi dovute ai dubbi interpretativi connessi alla individuazione della norma da applicare al caso concreto, impedisce che importanti ed innovative leggi di riforma non trovino applicazione in Sicilia per “assenza di recepimento”.

 

4. Norme di legge (statale e regionale) e amministrazione locale

La seconda delle questioni che la vicenda solleva ha a che fare con la natura delle norme, nella specie delle norme statali, che si rivolgono alle autonomie territoriali. La circostanza che con le leggi statali si determinino “vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle Regioni e degli enti locali” costituisce, si legge nella circolare, violazione dell’art. 119 della Costituzione, mortificando l’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali, ai quali invece deve essere lasciata “ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa”.

Il ragionamento appare corretto in quanto rispettoso dei nuovi parametri costituzionali e del ruolo che la riforma del tit. V parte seconda della Costituzione assegna all’autonomia locale, non soltanto con riferimento all’art. 119, ma anche agli artt. 114, 117 e 118.

Il principio della equiordinazione tra gli enti territoriali, sancito dal nuovo art. 114 della Costituzione, sembra collocarsi a monte rispetto ad ogni considerazione dei rapporti tra i diversi livelli di governo. Il principio non esclude l’intervento del livello maggiore, persino in via sostitutiva, su quello minore, come ora prevede l’art. 120 della Costituzione e come la Corte costituzionale ha ritenuto legittimo nell’ambito dei rapporti regioni – enti locali. Piuttosto afferma la pari dignità tra gli enti territoriali costitutivi della Repubblica, dunque non soltanto l’obbligo di prevedere procedure partecipate, di affermare in ogni campo la leale collaborazione, ma anche la necessità di garantire a ciascuno di essi un ambito all’interno del quale operare autonomamente delle scelte. Ed è in questa chiave che va letta la disposizione, contenuta nel secondo comma del medesimo art. 114, che assegna agli enti territoriali potestà statutaria. La norma, mentre risulta “ripetitiva” per le regioni, alle quali sempre è stata riconosciuta autonomia statutaria secondo quanto prevede l’art. 123 Cost., risulta innovativa per gli enti locali. Sebbene infatti la legge n. 142 del 1990 aveva già attribuito a comuni e province la potestà di darsi un proprio statuto, la collocazione di tale fonte all’interno della Costituzione ne suggerisce una diversa lettura, anche in relazione al rapporto con le altri fonti normative.

Allo stesso modo, l’art. 117 comma 6 Cost. riconosce agli enti locali potestà regolamentare ed assegna ai regolamenti locali il compito di dettare le regole riguardanti la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Di fronte al riconoscimento costituzionale di una autonomia normativa locale, che diventa ancora più pregnante se letto in relazione al principio di sussidiarietà sancito dal successivo art. 118 della Costituzione, di fronte all’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, che l’art. 119 comma 1 riconosce in capo agli enti locali, pur nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la legge, pur andando oltre le disposizioni di principio, non dovrebbe comunque avere un livello di dettaglio tale da vanificare ogni ambito di scelta delle amministrazioni locali.

La motivazione che offre la circolare, circa la non applicabilità in Sicilia della legge statale presenta, dunque, un duplice aspetto. Per un verso, pur riguardando la materia finanziaria, nella misura in cui non contiene principi, essa non può considerarsi vincolante per il legislatore regionale, che, peraltro, ha potestà legislativa primaria nella materia sulla quale gli interventi finanziari vanno ad incidere. Per altro verso la Regione, non ritenendo la legge applicabile in Sicilia, sembra assurgere al ruolo di difensore dell’autonomia locale essendo la legge considerata, in virtù del suo livello di puntualità, non rispettosa dell’autonomia che la Costituzione assegna all’ente locale.

Tuttavia, poco più avanti nella stessa circolare si precisa che il legislatore regionale, nell’ambito della potestà esclusiva, ha “dettagliatamente legiferato” in materia di status degli amministratori locali con la legge n. 30 del 2000, modificata nel 2008 con la legge n. 22. Ed infatti con tale legge la regione siciliana ha introdotto una serie di disposizioni che fissano in modo assolutamente puntuale la disciplina relativa alle indennità di funzione, demandando le ulteriori più puntuali definizioni, relative ad esempio alla misura di tali indennità e dei gettoni di presenza, ad un regolamento adottato dal Presidente della Regione. Al regolamento, il d.P.Reg. 18-10-2001 n. 19, è infatti allegata una tabella nella quale sono fissati, in relazione alla popolazione residente, gli importi delle indennità e dei gettoni di presenza degli amministratori locali.

Che cosa ne è stato, dunque, della necessità di lasciare agli enti locali “ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa” che trova il suo fondamento ultimo nella Costituzione e che pure la circolare sottolineava?

Di fronte al medesimo obiettivo, contenere la spesa pubblica e i costi della politica, la Regione interviene di fatto con lo stesso metodo e finisce per operare sostanzialmente alla stessa stregua, inevitabilmente comprimendo gli spazi di discrezionalità che pure dovrebbero essere lasciati all’autonomia degli enti locali. Non sembra, infatti, che di fronte a tale dettagliata regolamentazione residuino margini per una ulteriore disciplina di livello locale che non sia ripetitiva delle disposizioni di legge.

 

5. Un altro esempio. La composizione della giunta comunale e provinciale

La legge n. 191 del 2009, modificata dal d.l. n. 2 del 2010, è intervenuta, con il medesimo scopo di ridurre i costi delle amministrazioni locali, anche in merito al numero dei consiglieri e degli assessori. Il comma 184 dell’art. 2 prevede, a partire dal 2011, una riduzione del 20 per cento del numero dei consiglieri comunali e provinciali e precisa che, ai fini della riduzione del numero dei consiglieri comunali e provinciali, non sono computati il sindaco e il presidente della provincia.

Il successivo comma 185 fissa il numero massimo degli assessori comunali e provinciali, in misura pari, rispettivamente, ad un quarto dei consiglieri comunali e ad un quarto dei consiglieri provinciali, con arrotondamento all’unità superiore. Quest’ultima disposizione, intervenendo esclusivamente sul numero massimo degli assessori, mantiene in vita l’impianto complessivo dell’art. 47 del T.U.E.L, che continua a trovare applicazione per ogni altro profilo. In particolare, resta affidato agli statuti, ai sensi del comma 1 dell’art. 47, fissare il numero degli assessori, nel rispetto del tetto massimo fissato dalla legge. Più esplicitamente il comma 2 dispone che “Gli statuti, nel rispetto di quanto stabilito dal comma 1, possono fissare il numero degli assessori ovvero il numero massimo degli stessi”. In Sicilia analoga disposizione, contenuta nella legge n. 22 del 2008 (art. 1 che modifica l’art. 33 della l. n. 142 del 1990 come introdotto dalla l. reg. n. 48 del 1991 e succ. mod.), àncora al numero dei consiglieri quello dei componenti della giunta, che “stabilito in modo aritmetico dagli statuti … non deve essere superiore al 20 per cento dei componenti dell’organo elettivo di riferimento”.

A fronte della previsione legislativa, in che misura gli enti locali possono intervenire a dettare una propria disciplina? Quale di fatto lo spazio che residua alla norma locale?

È stato ampiamente chiarito che l’unico limite che la legge pone alla norma locale è il rispetto del tetto massimo. Gli statuti, come ha chiarito il C.d.S. (parere n. 741 del 26-7-2000), non sono invece vincolati alla determinazione puntuale del numero dei componenti la giunta, potendo perciò attribuire al sindaco o al presidente della provincia un margine di discrezionalità più o meno ampio nell’individuazione, volta per volta, del numero ottimale di assessori.

Detto ciò, non si può non rilevare che dal 1990 ad oggi, si è assistito, dapprima ad un progressivo ampliamento dei componenti della giunta (con le leggi nn. 81 del 1993, 662 del 1996, 265 del 1999), quindi ad una sua riduzione passando dal tetto massimo di un terzo al 25 per cento del numero dei consiglieri, questi ultimi a loro volta ridotti.

A fronte di tali riduzioni sono di contro aumentate le funzioni degli enti locali in ragione dell’applicazione del principio costituzionale di sussidiarietà, ma più in generale per un mutamento più profondo che attiene al modo stesso di concepire, a partire dal 1990, il governo locale.

Non si capisce, dunque, quale possa essere lo spazio lasciato agli statuti degli enti locali che, di fatto, quando non rinviano alla legge, fanno coincidere il numero degli assessori con quello massimo indicato; né quale spazio possa avere, a fronte di margini così ristretti, la discrezionalità che eventualmente lo statuto affiderebbe al sindaco o al presidente della provincia circa la determinazione in concreto dei componenti la giunta.

 

6. Conclusioni

La politica di risanamento dei conti pubblici passa certamente anche attraverso la riduzione dei costi della politica. Si tratta di un obiettivo prioritario che deve coinvolgere e responsabilizzare tutti i livelli di governo.

La legge finanziaria 2011, attualmente in discussione presso l’Assemblea regionale siciliana, introduce una nuova più restrittiva disciplina sullo status degli amministratori locali (consiglieri, assessori, sindaci, presidenti di provincia), in particolare riducendo la durata dei permessi retribuiti per l’espletamento delle funzioni pubbliche.

I consigli comunali dell’isola sono in procinto di firmare un documento (consultabile su www.anci.sicilia.it) nel quale si chiede lo stralcio delle norme in questione dalla legge finanziaria e lamentano l’inesistenza di un percorso condiviso e concertato con le rappresentanze delle autonomie locali, sul presupposto che la competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali “non può, tuttavia, giustificare un intervento legislativo così invasivo nei confronti dei medesimi enti locali, tali da mettere in discussione l’esercizio della funzione pubblica”.

Non si intende qui entrare nel merito di simili misure, ma piuttosto rilevare una tensione tra le esigenze di contenimento della spesa pubblica e le legittime rivendicazioni dell’autonomia locale, organizzativa, regolamentare, statutaria. Emerge con evidenza che l’autonomia locale stenta concretamente ad affermarsi in un momento, come quello attuale, in cui il risanamento del debito pubblico costituisce, sul piano nazionale, un obiettivo prioritario. Tanto più è avvertita la necessità di riduzione dei costi, tanto più difficile risulta decentrare le scelte, perché il contenimento della spesa richiede uniformità, equilibrio.

Proprio quando avremmo dovuto ragionevolmente attenderci, a distanza di dieci anni, la conclusione del processo di attuazione del Tit. V della Costituzione, il dilagare della crisi economica, unito ai problemi del risanamento della finanza pubblica, pur non costituendo gli unici ostacoli, di certo contribuiscono a rallentare, se non a rinviare, l’effettiva realizzazione del disegno autonomista. Basti pensare alla legge delega sul federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Cost., emanata solo nel 2009, e alle recenti tensioni emerse in sede di attuazione dei decreti legislativi.

In questo contesto, nel quale l’autonomia locale viene inevitabilmente compromessa, gli interventi, statali e ancor più regionali, dovrebbero essere attenti ed oculati e non perdere di vista che è fatto obbligo alla Repubblica di riconoscere e promuovere le autonomie locali, di adeguare “i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” secondo quel principio autonomistico che trova nell’art. 5 della Costituzione la sua massima espressione.

Maccarrone Laura

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