Giurisdizione, riconoscimento ed esecuzione delle sentenze straniere: la Cina è vicina (Parte seconda)

Redazione 30/04/20
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di Gianni Ghinelli

Sommario

1. Trattato Italia-Cina e reg. Ue n. 1215/2012: una comparazione

2. Conclusione: dalla comparazione alle prospettive de jure condendo

1. Trattato Italia-Cina e reg. Ue n. 1215/2012: una comparazione

Come anticipato in sede di introduzione, in questa seconda parte del contributo, si darà luogo ad una comparazione tra il trattato Italia-Cina ed il reg. Ue n. 1215/2012. L’intento è di meglio delineare la portata del trattato; l’obiettivo di fondo, però, è quello di far emergere le principali differenze tra le due fonti, che vengono immaginate come pioli opposti di una scala ascendente. In basso vi è il trattato del 1991, al culmine il regolamento. Tra i due vi sono una serie di gradini intermedi e si proverà a capire su quale di questi, tra i tanti possibili, si potrebbe collocare un eventuale futuro trattato in materia di diritto internazionale processuale concluso dalla Commissione europea con la Cina.

Come anticipato, il trattato Italia-Cina del 1991 trova, nello spazio europeo, un proprio referente nel reg. Ue n. 1215/2012. La disciplina uniforme di diritto internazionale privato e processuale prevista dal regolamento è l’approdo più evoluto di un percorso, parallelo a quello di integrazione europea, iniziato con la Convenzione di Bruxelles del 1968[1]. Seguendo l’insegnamento per cui le norme di diritto processuale internazionale sono particolarmente soggette allo “spirito dei tempi”[2], non v’è da stupirsi se le due fonti – il trattato Italia-Cina, da un lato, il regolamento dall’altro – hanno gradi di approfondimento assai diversi. Tenendo a mente questi aspetti teorici, si vedono ora gli elementi di comunanza e le differenze intercorrenti tra le due menzionate fonti. Queste considerazioni, vale la pena evidenziarlo, non hanno la pretesa di elencare tutte le differenze sussistenti: il tentativo è, piuttosto, quello di far emergere le differenze sistematiche in riferimento a quattro temi, ossia ambito di applicazione, criteri di attribuzione della competenza internazionale, litispendenza e connessione, meccanismo di riconoscimento.

In via preliminare, si registrano importanti divergenze in riferimento all’ambito di applicazione delle due fonti. Il trattato riguarda tutti gli aspetti della cooperazione giudiziaria tra Italia e Cina; il regolamento è, invece, una disciplina di settore sulla sola giurisdizione, riconoscimento ed esecuzione delle sentenze. I trentuno articoli del trattato coprono un’area che, nell’ordinamento europeo, viene disciplinata da un’ampia serie di regolamenti. In secondo luogo, anche in riferimento alla disciplina della giurisdizione, riconoscimento ed esecuzione delle sentenze straniere, il trattato presenta un ambito di applicazione più ampio del regolamento. Come s’è visto, le norme pattizie trovano applicazione anche in materia di stato e capacità delle persone, in materia di famiglia, di obbligazioni alimentari e di successioni: altrettanto non avviene per il regolamento[3]. Ancora, si consideri come il trattato si applichi anche ai lodi arbitrali, contrariamente al regolamento.

Entrando nel vivo, si passa ora ad un confronto tra le due fonti in merito alla disciplina della giurisdizione. Ai fini della determinazione del foro nel quale radicare la causa, i criteri del trattato Italia-Cina appaiono assai meno dettagliati di quelli regolamentari. Dei criteri previsti del trattato s’è detto; qui basti dire che le norme europee sono incentrate sulla previsione del foro generale del convenuto, al quale si aggiungono i fori “speciali”. Al riguardo, assumono particolare rilievo i criteri di competenza previsti in materia di assicurazione, di rapporti di consumo e di lavoro. È poi menzionata una serie di fori esclusivi. Infine, l’art. 25 reg. disciplina in dettaglio la clausola di “proroga della competenza”.

Nell’ambito del diritto processuale internazionale, la litispendenza e la connessione sono istituti di particolare rilievo, poiché legati a doppio filo sia alla determinazione della giurisdizione, sia al riconoscimento. Al fine di prevenire il rischio di parallel proceedings [4], il regolamento disciplina la litispendenza e la connessione nella loro duplice funzione “attributiva” e “privativa” della giurisdizione. Essi operano, in primo luogo, come criterio per accentrare la competenza internazionale in capo ad un medesimo giudice già a partire dal momento della proposizione della domanda e, inoltre, quali presupposti in presenza dei quali il giudice adito per secondo dichiara la propria incompetenza in favore del primo[5]. Il trattato tra Italia e Cina menziona, all’art. 21 lett. e), esclusivamente la litispendenza e lo fa solo in riferimento al diniego di riconoscimento. Il trattato configura il principio della priorità temporale in questi termini: solo la sentenza del primo giudice adito può essere riconosciuta. Ai fini del riconoscimento, non importa, quindi, quando viene emessa la sentenza, bensì solo il tempo della domanda. La previsione del principio di prevenzione temporale costituisce, in apparenza, un traguardo non da poco per il trattato del 1991, considerando che le norme volte ad evitare i parallel proceedings sono espressione di un rapporto di fiducia tra ordinamenti. Ciò detto, rimane il dato per cui questo meccanismo vale solo per il riconoscimento all’estero, quindi solo se, ad esempio, la sentenza italiana deve essere riconosciuta ed eseguita in Cina. Se le parti non sono interessate al riconoscimento all’estero, nulla impedisce loro di dar luogo a procedimenti paralleli identici e poi di eseguire ciascuna sentenza nel rispettivo Paese di emissione. La portata dell’istituto è quindi assai ridotta in confronto a quanto avviene nel regolamento europeo.

La differenza più vistosa si rinviene di certo nel sistema del riconoscimento: il trattato richiede una procedura di exequatur. Come anticipato, deve essere proposta un’apposita domanda all’autorità giudiziaria, al fine di verificare i requisiti previsti dall’art. 21. Per contro, nell’Unione Europea le decisioni circolano liberamente, dato che sono automaticamente riconosciute in tutti i paesi membri. Anche il regolamento conosce la possibilità di diniego di riconoscimento, ma con due precisazioni: l’iniziativa deve essere presa da chi ne abbia interesse, proponendo un’istanza all’autorità giudiziaria, sopportando pertanto l’onere di provare la sussistenza dei motivi di diniego previsti dall’art. 45 reg; in secondo luogo, tra i motivi di diniego previsti dal regolamento non viene menzionata la sicurezza nazionale e la sovranità del Paesi membri. Se detta istanza non viene proposta, opera il principio generale per cui la sentenza è automaticamente riconosciuta in tutta l’Unione europea e può essere eseguita in ogni Stato membro.

[1] Il reg. Ue n. 1215/2012 (cd. regolamento Bruxelles I-bis) segue, ed abroga, il reg. Ce n. 44/2001 (regolamento Bruxelles I) il quale, a seguito della “comunitarizzazione” del diritto internazionale privato, ha sostituito la Convenzione di Bruxelles del 1968. La disciplina regolamentare dà attuazione, sul piano del diritto derivato, all’art. 67 TFUE e concretizza il principio della libera circolazione delle decisioni giurisdizionali e della fiducia tra Stati membri. Sulla circolazione delle decisioni giurisdizionali nello spazio europeo, cfr. BIAVATI, Europa e processo civile – metodi prospettive, Torino, 2003. Ancora, cfr. BIAVATI-LUPOI, Regole europee e giustizia civile, Bologna, 2017. In particolare, in riferimento al reg. Ce n. 44/2001, cfr. LUPOI, Conflitti transnazionali di giurisdizioni, Milano, 2002, p. 269. Per una panoramica sul tema, v. anche E. Redenti – M. Vellani, Diritto processuale civile, Milano, 2011, pag. 19 ss.

[2] Così, cfr. LUPOI, Conflitti transnazionali di giurisdizioni, cit., p. 11.

[3] V. art. 1 reg. Ue n. 1215/2012.

[4] I rischi a cui si fa riferimento sono tipicamente quelli di contrasto tra giudicati o tra accertamenti. Da essi deriva, inoltre, un’inutile duplicazione delle attività processuali ed uno sperpero di risorse.

[5] Le conseguenze della litispendenza sono disciplinate dall’art. 29 reg. Ue n. 1215/2012; l’art. 30 reg. invece è dedicato alla riunione tra cause connesse. Sulle nozioni di funzione “attributiva” o “privativa” della litispendenza e della connessione tra cause, cfr. CARPI-LUPOI, Provvedimenti giurisdizionali civili in europea (Convenzione di Bruxelles), in Enc. dir., agg. II, 1998.

2. Conclusione: dalla comparazione alle prospettive de jure condendo

Dalla comparazione tra fonte pattizia e regolamento europeo si passa ora, in conclusione, ad un esercizio meramente ipotetico. Anche qui, come sopra, i temi di riferimento sono quattro: ambito di applicazione, criteri di attribuzione della giurisdizione, litispendenza e connessione e, infine, il meccanismo di riconoscimento. Anzitutto, da un (eventuale) trattato tra Unione Europea e Cina sarebbe da aspettarsi un ambio applicativo ben più ampio della sola giurisdizione e riconoscimento delle sentenze. Sarebbe infatti necessario che questo ipotetico trattato estendesse le previsioni pattizie a tutti i settori della cooperazione giudiziaria, tra i quali vi è, ad esempio, la materia delle notificazioni. In riferimento al secondo punto, sarebbe legittimo ambire ad una disciplina di maggior dettaglio della giurisdizione. Più delicato è il terreno della litispendenza: l’istituto potrebbe, in teoria, essere disciplinato non più esclusivamente in riferimento al riconoscimento della sentenza all’estero, ma anche nelle già menzionate funzioni “attributive” e “privative” della giurisdizione. Il rischio pratico dell’attuale scenario lo si è visto: Tizio, per primo, conviene Caio in Italia. La stessa domanda, o una domanda connessa, potrebbe però essere proposta successivamente di fronte al giudice cinese e, a quel punto, la sentenza cinese potrebbe esser eseguita in Cina a prescindere dalla litispendenza. Nel trattato Italia-Cina, l’istituto della litispendenza è dunque mutilato di gran parte del suo potenziale. La connessione, invece, non viene nemmeno prevista dal trattato. Alla luce del modello offerto dal regolamento, vi è dunque margine per un’ampia evoluzione, ma questi istituti devono fare i conti con le differenze culturali, linguistiche e giuridiche, che dividono l’ordinamento europeo da quello cinese. In ipotesi di litispendenza o semplice connessione, i cittadini europei sono disposti a vedere la propria domanda rigettata in rito a favore di un altro giudice europeo, ma altrettanto probabilmente non avverrebbe in relazione ad un giudice cinese. I costi per la parte sarebbero molto alti ed il menzionato divario linguistico e culturale non può essere sottovalutato. Infine, circa il riconoscimento, le differenze tra gli ordinamenti sono tali da impedire, probabilmente, la replica del meccanismo europeo di automatico riconoscimento. Una soluzione intermedia, però, potrebbe venire dalla nostra legge di diritto internazionale privato, laddove l’art. 67 richiede il riconoscimento solo in circostanze tassative. Infine, sempre in tema di riconoscimento, sarebbe auspicabile una disciplina priva di clausole che riecheggino una valutazione politica sulle decisioni in materia civile.

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