Genitori adottivi: i requisiti per l’adozione

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Indice:

  1. Rapporto di coniugio della coppia adottante.
  2. Età degli adottanti.
  3. Idoneità affettiva.
  4. Volume consigliato

1. Rapporto di coniugio della coppia adottante

La c.d. adozione piena contempla una serie di requisiti che garantiscono al minore una doppia figura genitoriale tendenzialmente stabile, adeguata ad età e concreta capacità di assumere il ruolo parentale.  L’ art. 6, l. n. 184/1983, chiarisce che questa figura di adozione è consentita solo ad una coppia di coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, escludendo le coppie di fatto, le persone singole e gli uniti civilmente, mentre la convivenza prematrimoniale, pur non costituendo un presupposto per poter accedere all’adozione, nel tempo ha acquisito rilievo per la valutazione della stabilità del rapporto.

Limitare le adozioni piene al solo caso della coppia unita in matrimonio ha costituito una scelta del legislatore italiano, in quanto la Convenzione europea di Strasburgo sull’adozione dei minori del 24 aprile 1967, ratificata in Italia con la l. 22 maggio 1974, n. 357, che diede ingresso alla nuova concezione dell’adozione quale forma di tutela dei minori, aveva espressamente attribuito ai legislatori nazionali la facoltà di determinare i presupposti di ammissione e gli effetti dell’adozione da parte di persone non coniugate.

La ratio di tale scelta appare chiara: i conviventi proprio per l’assenza di vincoli formali (di natura civile o religiosa) potrebbero separarsi in qualsiasi momento, venendo così a mancare la garanzia di un ambiente dotato di stabilità[1].

Dispone invece diversamente la Convenzione europea di Strasburgo sull’adozione dei minori nella sua versione riveduta del 27 novembre 2008 (allo stato non ancora firmata dall’Italia), il cui art. 7 estende la possibilità di adozione a coppie eterosessuali non sposate, se registrate presso un registro delle unioni civili nei Paesi che riconoscono tale istituzione, e che lascia inoltre agli Stati la libertà di estendere la portata della Convenzione e di consentire l’adozione anche a coppie omosessuali che vivono insieme nel quadro di una convivenza stabile.  Pertanto, sulla base della normativa internazionale, la giurisprudenza di legittimità ha posto in evidenza come il legislatore italiano avrebbe potuto ampliare le ipotesi riservate alla persona non coniugata includendovi il caso dell’adozione piena.

L’Italia, oggigiorno, ricopre ancora una posizione isolata rispetto ad altri ordinamenti, decidendo di non includere tale tipologia di persona nel novero dei soggetti legittimati ad eccedere alla adozione piena.

Quanto infine, al divieto sancito dall’art. 6 l. 184/1983 di procedere all’adozione previsto per i singles, vale a dire le c.d. famiglie uniparentali, la previsione appare solo parzialmente attenuata da talune previsioni che riconoscono una certa legittimazione anche alla persona separata (art. 25, quinto comma l. adoz.)[2] od a quella il cui coniuge sia morto o divenuto incapace durante l’affidamento preadottivo (art. 25, quarto comma, l. adoz.) – sempre che tale scelta sia rispondente al primario interesse del minore adottando -, nonché, dal titolo IV che permette anche a chi non è coniugato l’adozione in casi particolari.

Occorre evidenziare come l’adozione da parte di persona singola non incontri alcun impedimento nella Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993 sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, operativa nel nostro ordinamento in virtù del disposto dell’art. 29, l. n. 184/1983[3].

Tenendo ferma la chiusura nei confronti della persona singola, l’Italia – anche in tale ambito – si è messa in una posizione isolata rispetto a tutti gli altri ordinamenti, si tratta di un orientamento che andrebbe al più presto superato, in contrario, non vale addurre l’interesse del minore alla bigenitorialità: è certamente più confacente all’interesse del minore essere educato da due genitori, tuttavia vivere con una persona che lo mantenga, lo educhi e lo curi come un figlio è per il minore abbandonato una scelta esistenziale indubbiamente più favorevole rispetto a quella del ricovero presso una struttura di assistenza.

Non coniugati sono anche gli uniti civilmente, il nostro ordinamento ha scelto di introdurre l’unione civile quale istituto distinto rispetto al matrimonio la cui disciplina è però ispirata al modello matrimoniale; tuttavia agli uniti civilmente è stata preclusa l’applicazione della legge sull’adozione, negandogli in tal modo la capacità adottiva.

L’incapacità adottiva degli uniti civilmente è difficilmente giustificabile: se non vi è ragione di ritenere che per il minore sia pregiudizievole essere mantenuto, educato, istruito e curato affettivamente da persone dello stesso sesso, la sancita privazione della capacità adottiva rivela allora un carattere discriminatorio verso tale categoria di soggetti.

Nonostante manchi una norma di legge che consenta l’adozione da parte di persone dello stesso sesso, alcune recenti sentenze di Tribunali e la stessa Corte di cassazione sono giunte a riconoscere efficacia a provvedimenti stranieri di adozione del figlio di una convivente da parte della convivente dello stesso sesso, confermando in questo modo la necessità di un intervento  legislativo che, attribuendo capacità adottiva anche alle persone same sex conferisca alla materia coerenza sistematica e certezza[4].

2. L’età degli adottanti

 Il secondo requisito formale richiesto dalla legge è quello dell’età, che il legislatore ha previsto al fine di garantire al minore una nuova famiglia che riproduca ciò che ordinariamente avviene in natura, in modo tale che questa sia adeguata ad occuparsi del minore.

Il comma 3 dell’art. 6 l. n. 184/1983 dispone che l’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di cinquanta anni l’età dell’adottato.                                                                                                                                                 La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 148 del 1 aprile 1992, ha tuttavia definito tali limiti suscettibili di essere derogati qualora il limite massimo di età viene superato da uno soltanto dei coniugi in misura non superiore a dieci anni, ovvero nel caso in cui l’adozione sia a favore di una coppia di fratelli.

La Corte ha così stabilito l’illegittimità dell’art. 6, secondo comma, l. 184/1983, permettendo l’adozione di due fratelli da parte di una stessa coppia, nonostante la differenza di età tra uno dei coniugi ed uno dei minori superasse i 40 anni[5].

Altresì la questione della differenza di età è stata oggetto di accese discussioni, confluite nel 2001 in un aumento ed elasticizzazione dei limiti della stessa al fine di rispondere ad un’esigenza degli adulti derivante dal dato di costume secondo il quale l’età media in cui le coppie hanno il primo figlio va progressivamente aumentando; per conseguenza aumenta anche l’età media in cui le coppie vengono a conoscenza della loro sterilità[6].

3. L’idoneità affettiva

La legge di riforma 149/2001 ha introdotto un ulteriore requisito all’adozione piena, l’idoneità e la capacità della coppia di educare ed istruire il minore, la c.d. idoneità affettiva, prevista nel secondo comma dell’art. 6 l. n. 184/1983, la quale non consiste semplicemente nel possesso materiale dei mezzi economici o nell’idoneità fisica ad accudire un minore, ma, piuttosto, nella capacità di realizzare le condizioni necessarie per la crescita armoniosa del bambino, a cominciare dal soddisfacimento del bisogno di affetto di cui un minore non può essere privato per il suo benessere e per il suo sviluppo fisico e psichico.

L’art. 6 l. n. 184/1983 non fa menzione dell’idoneità fisica morale degli adottanti, ciò nonostante queste idoneità (nelle quali rientrano lo stato di salute, l’ambiente familiare e le motivazioni dell’adozione) devono ritenersi comunque implicite nella nozione di capacità genitoriale adottiva[7].

Nel momento di accertare i requisiti richiesti dall’art. 6 l. n. adoz., il giudice assolve un compito decisivo poiché tenuto alla valutazione della capacità della coppia di educare e formare il minore, la chiave di lettura per rilevare la adeguatezza degli aspiranti genitori adottivi è proprio la capacità di educare, di istruire, di mantenere e di formare un figlio, ecco perché nella scelta degli adottanti il giudice non potrà decidere soltanto sulla base di elementi squisitamente economici e/o patrimoniali; ma anche della loro attitudine ad offrire l’amore e le cure necessarie per il benessere e la crescita del minore[8].

Ciò in quanto la finalità dell’adozione non è quella di assicurare al minore un ambiente familiare agiato dal punto di vista economico, ma piuttosto quello di tutelare il diritto del minore ad una educazione completa che, qualora i genitori biologici non siano in grado di offrire, deve essere concretizzata da un nuovo nucleo familiare.

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Note

[1] Prima che la riforma della filiazione avvenuta con l. 10 dicembre 2012, n. 219 rendesse unico lo status di figlio, si era ritenuto che la scelta di escludere i conviventi di fatto dal novero degli adottanti trovasse una spiegazione nell’incertezza in ordine allo status del minore adottato che ne sarebbe derivata: quest’ultimo infatti ai sensi dell’art. 27 l. adoz., sarebbe divenuto figlio legittimo degli adottanti, nonostante questi non fossero tra loro coniugati; ai sensi, invece della disciplina generale sulla filiazione si sarebbe dovuto qualificare quale figlio naturale degli adottanti, pur non essendo stato generato da questi. Tuttavia, era stato già rilevato come apparisse incongruo ritenere che lo stato personale derivante dall’adozione fosse assoggettato ad un regime diverso a seconda del tipo di vincolo che univa la coppia adottante: a conferma di ciò, il quinto comma dell’art. 25 l. 184/1983 che, in caso di sopravvenuta separazione degli adottanti nel corso dell’affidamento preadottivo, attribuiva all’adottato lo status di figlio legittimo di uno solo dei coniugi, status dunque diverso da quello che sarebbe conseguito dall’applicazione delle regole generali in tema di filiazione biologica.

[2]La circostanza che, si può comunque procedere all’adozione, nel caso di separazione tra i coniugi affidatari, appare anomala in quanto si tratta di una potenzialità – da sottoporre al vaglio dell’autorità adita – in contrasto con i presupposti oggettivi richiesti per l’adozione. Non va dimenticato infatti che al comma 1 dell’art. 6 novellato è stabilito che tra i coniugi adottanti non deve sussistere e non deve aver avuto luogo per gli ultimi tre anni, separazione personale neanche di fatto. L’antinomia segnalata può essere sciolta solo riconoscendo la natura eccezionale di quanto previsto al comma 5 dell’art. 25 de quo, rispetto al principio generale affermato al comma 1 dell’art. 6; e si consideri che l’adozione individuale è ulteriormente consentita dall’interpretazione in combinato disposto dei commi 1, lett. a), e 3 dell’art. 44. Va infine considerato che l’opportunità concessa dal legislatore è soltanto residuale, e come tale da porre al riparo da ogni possibile indebita estensione in termini di un principio generale. Così, il tribunale per i minori potrà esercitare detta facoltà nell’esclusivo interesse del minore, allorquando la restituzione del bambino allo stato di adottabilità realizzi un danno maggiore rispetto alla persistenza del bambino nel nucleo familiare con il coniuge separato.

[3] B. POLISENO, La funzione sociale dell’adozione in casi particolari tra coppie di fatto e persone singole: un giusto incentivo per il legislatore, in Questione di giustizia, p. 105.

[4] Sentenza della Cass. n. 12962 del 22 giugno 2016.

[5] Sul punto, v. Corte cost., 1 aprile 1992, n. 148, in Foro it., 1992, I, p. 1628; Corte cost., 24 luglio 1996, n. 303, in Giust. Civ., 1996, I, p. 2175.

[6] L. LENTI, J. LONG, diritto di famiglia e servizi sociali, Torino, 2014, p. 330.

[7] In giurisprudenza, v. Cass., 28 dicembre 2011, n. 29424, in Giust. Civ., 2012, I, p. 2075.

[8] G. AUTORINO, P. STANZIONE, Le adozioni nella nuova disciplina. Legge 28 marzo 2001, n. 149, Milano, 2001, p. 136.

Arianna Cacchio

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