Fallimento della supersocietà di fatto

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Cass. Civ., Sez. I, n. 7903, 17-04-2020

Rigetto del ricorso, conferma Corte d’Appello di Catanzaro n. 1510/2017, artt. 147 legge fall. e 2247 cod. civ.

Vicenda

A seguito dell’accoglimento del reclamo ex art. 18 legge fall. proposto dalla curatela del fallimento di una società a responsabilità limitata unipersonale in liquidazione, il tribunale di Cosenza dichiarava il fallimento della società di fatto composta dalla predetta società in liquidazione e da altre tre società a responsabilità limitata nonché da alcuni soci persone fisiche in proprio.

Avverso tale sentenza era stato proposto reclamo da parte dei falliti, e la Corte d’Appello di Catanzaro aveva accolto il reclamo e revocato il fallimento, non ravvisando in concreto la sussistenza della asserita società di fatto o supersocietà. Per la cassazione della predetta sentenza, avevano proposto ricorso i curatori del fallimento della società in liquidazione nonché della società di fatto sopra menzionate.

La decisione della Corte d’Appello

La Corte d’Appello aveva, infatti, asserito che non era possibile ravvisare l’esistenza della società di fatto per una serie di motivi.

(1) Mancava il requisito oggettivo rappresentato dal fondo comune;

(2) la circostanza che le condotte distrattive accertate, anche in sede penale, a carico di uno dei presunti soci di tale società di fatto non erano state destinate alla formazione di un tale fondo, da utilizzare per lo svolgimento di attività imprenditoriale comune, ma al semplice scopo di sottrarre liquidità ai creditori della società unipersonale;

(3) la mancanza dell’elemento soggettivo (la c.d. affectio societatis), dal momento che la società fallita non aveva svolto attività imprenditoriale assieme agli altri soggetti ritenuti soci della società di fatto, i quali avevano esercitato la loro specifica attività finanche in tempi diversi, taluni addirittura dopo la messa in liquidazione delle altre società.

Ricorrendo contro tale decisione, i curatori denunciavano, inter alia, l’omesso esame di distinti fatti controversi decisivi, rappresentati dalla commistione patrimoniale tra tutti i soggetti sopra indicati – commistione da considerare indice sintomatico di esistenza della società di fatto (o supersocietà)-; nonché dall’unicità e comunanza del progetto imprenditoriale perseguito e dall’esteriorizzazione del vincolo associativo.

I ricorrenti sostenevano altresì che la Corte d’Appello (1) avesse escluso l’esistenza della società di fatto in base a criteri solo formali, (2) avesse considerato preclusivo dell’affectio societatis il contegno illecito distrattivo di uno dei pretesi soci di fatto e (3) avesse escluso la rilevanza dell’attività comune sulla base del fatto che non tutti i pretesi soci avessero svolto contestualmente la medesima attività.

Ragioni della decisione

La Cassazione conferma il principio già espresso in passato[1] che consente l’interpretazione estensiva dell’art. 147, quinto comma, legge fallimentare.

In sostanza, la Cassazione puntualizza che la norma citata, relativa al fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, troverebbe applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, emerga che l’impresa è, in realtà, riferibile a una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma anche, per effetto di un’interpretazione estensiva, quando il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, a una società di persone, dando vita in questo modo alla cd. supersocietà di fatto.

Tuttavia, la stessa Corte precisa che l’interpretazione estensiva è giustificata solo se è allo stesso tempo dimostrata la sussistenza del «comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto»[2].

La Corte d’Appello aveva, tuttavia, escluso proprio la sussistenza di tale comune intento sociale perseguito sai presunti soci, revocando pertanto il fallimento.

Infine, la Corte precisa che i ricorrenti avrebbero potuto agire per richiedere di accertare l’esistenza di una “holding” di fatto. Qualora fosse stata accertata l’esistenza di una “holding” di fatto, infatti, i curatori avrebbero potuto agire nei confronti di tale holding per far valere la responsabilità di cui all’art. 2497 cod. civ. in tema di direzione e coordinamento. Peraltro, su richiesta di uno dei soggetti legittimati, la stessa “holding” di fatto potrebbe essere dichiarata autonomamente fallita, qualora ne sia accertata l’insolvenza[3].

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Note

[1] Cass.Civ., Sez. I, n. 10507, 26-01-2016, ove si afferma che «appare opportuno premettere che, nell’ipotesi contemplata dalla L. Fall, art. 147, comma 5, l’indagine del giudice deve essere indirizzata all’accertamento sia dell’esistenza di una società occulta (o di fatto) cui sia riferibile l’attività dell’imprenditore già dichiarato fallito, sia della sua insolvenza, posto che il fallimento di tale società costituisce presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci illimitatamente responsabili. Va escluso, in sostanza, che il fallimento di questi ultimi possa essere dichiarato in forza di un accertamento meramente incidentale della ricorrenza fra gli stessi e il fallito di una c.d. supersocietà di fatto, non solo perché la sentenza dichiarativa ha natura costitutiva ed efficacia ex nunc (onde non si vede come il fallimento dei soci possa conseguire ad una dichiarazione di fallimento meramente virtuale, od implicita, della società) ma anche perché all’insolvenza del socio già dichiarato fallito potrebbe non corrispondere l’insolvenza della s.d.f. (cui gli altri soci potrebbero, in tesi, conferire le liquidità necessarie al pagamento dei debiti). […] Come è stato correttamente rilevato in dottrina, la norma non si presta, infatti, all’estensione al dominus (società o persona fisica) dell’insolvenza del gruppo di società organizzate verticalmente e da questi utilizzate in via strumentale, ma piuttosto all’estensione ad un gruppo orizzontale di società, non soggetto ad attività di direzione e coordinamento, che partecipano, eventualmente anche insieme a persone fisiche, e controllano una società di persone (la c.d. supersocietà di fatto). La prova della sussistenza di tale società deve poi essere fornita in via rigorosa, in primo luogo attraverso la dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci. Il fatto che le singole società perseguano invece l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, piuttosto, prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, prova a favore dell’esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà eventualmente essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di un creditore».

[2] Cass. Civ., Sez. I, n. 10507, 26-01-2016, cit.; Cass. civ., Sez. I, n. 12120, 13-06-2016.

[3] Cass. Civ. Sez. I, n. 15346, 25-07-2016; Cass. Civ., Sez. I, n. 5520, 06-03-2017.

Avv. Donato Romano

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