ESECUZIONE DEL CREDITO FONDIARIO, REVOCA DEL FALLIMENTO, STRUMENTI DI TUTELA DEL CREDITORE E DOVERI DEL CURATORE

Redazione 19/09/00
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inserito in Diritto&Diritti nel gennaio 2001
AVV. ALBERTO SAGNA
E-Mail: alsagna@tin.it
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1- La complessa e spinosa problematica oggetto della presente analisi trae origine da un concreto caso giudiziario.
Il giudice delegato al fallimento dispone la vendita di un immobile gravato di ipoteca ancorché tale bene fosse già stato inizialmente assoggettato alla procedura esecutiva speciale ex art. 42 T.U. 16 luglio 1905 n. 646, con successive modifiche, ad opera di un Istituto di credito fondiario.
L’ipoteca, iscritta a favore della predetta banca creditrice, viene cancellata in sede di decreto di trasferimento dell’ immobile, a seguito delle operazioni di vendita compiute nell’ambito della procedura concorsuale.
Successivamente, a seguito del giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento ex art. 18 L.F., viene revocata la sentenza dichiarativa di fallimento che passa in giudicato per mancato gravame.
A questo punto la folgorante macchina del fallimento si arresta senza aver nulla disposto in ordine alla distribuzione del ricavato in favore dei creditori.
La Banca creditrice ipotecaria ricorre al G.D. chiedendo l’assegnazione diretta della somma ricavata dalla vendita ed in subordine il deposito della somma in apposito libretto intestato al giudice dell’esecuzione, innanzi al quale l’Istituto di credito fondiario aveva mantenuto in essere la procedura esecutiva individuale al fine di ristabilire in qualche modo le condizioni di vincolo ipotecario in cui versava il bene subastato al fallimento.
Il Giudice delegato rigetta la predetta istanza ed anche altra successiva volta alla ricostituzione della garanzia reale sulla somma di denaro ricavata dalla vendita.
In particolare l’organo giudicante rileva che: “le uniche attività consentite dopo la sentenza di revoca del fallimento passata in giudicato sono quelle di cui all’art. 21 L.F., a norma del quale non possono rinvenirsi strumenti tali da consentire il soddisfacimento delle pretese, pur in qualche modo fondate, delle creditrici ipotecarie”.
Inoltre, poichè la predetta cancellazione è da considerarsi legittima, valida ed efficace, anche e soprattutto in considerazione della necessaria tutela del terzo acquirente che nel frattempo ha trascritto il suo titolo d’acquisto sul bene già ipotecato, non pare possibile né iscrivere una nuova ipoteca, ipotesi applicabile ai soli casi tipicamente previsti dal legislatore, né operare la trasmigrazione dell’ipoteca dal bene immobile alla somma di denaro.

2- Un primo, timido ma valido approccio alla fattispecie in esame va fatto in direzione della normativa che presiede all’azione esecutiva fondiaria[1].
Il Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia emanato in data 1-9-1993 con D.Lgs. 385 ed entrato in vigore il 1.1.1994, dispone infatti all’art. 41, II comma, che l’azione di esecuzione sui beni ipotecati a garanzia dei finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca nonostante il fallimento già dichiarato o sopravvenuto del debitore; il curatore può ma non è obbligato ad intervenire nella procedura esecutiva individuale iniziata dalla banca; la somma ricavata dalla esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, deve essere restituita al fallimento.
Nell’ipotesi di azione esecutiva proseguita dalla banca, quest’ultima può ottenere immediatamente dall’aggiudicatario subentrato nel contratto di mutuo il pagamento delle rate scadute, degli accessori e delle spese.
Il custode dei beni pignorati, l’amministratore giudiziario ed il curatore del fallimento del debitore hanno l’obbligo di versare alla banca le rendite degli immobili ipotecati a suo favore, dedotte le spese di amministrazione ed i tributi sino al soddisfacimento del credito vantato.
Tale nuova normativa non ha fatto che confermare e rafforzare quel particolare privilegio già disciplinato negli articoli 40 e 42, II comma, del T.U. n.646 del 1905 ed infatti la Suprema Corte di Cassazione ha rilevato che il nuovo T.U. “non ha carattere innovativo perchè la delega alla redazione del T.U. non comprendeva la facoltà di innovare ( n.d.r. in sedes materiae), se non nei limiti dell’armonizzazione con la normativa della Comunità Economica Europea che nella specie non sussiste”.[2]
E’ opportuno osservare, peraltro, che la Corte Costituzionale più volte, sotto l’imperio della normativa meno recente, si era pronunciata per la meritevolezza del beneficio accordato in sede esecutiva agli Istituti di credito fondiario[3].
L’art. 161, VI comma, prevede, inoltre, una specifica norma transitoria, di raccordo tra vecchia e nuova disciplina: i contratti già conclusi ed i procedimenti già iniziati anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. del 1993 n.385 continuano ad essere regolati dalla disciplina previgente, ovvero dal T.U. del 1905 n. 646, richiamato dagli art. 15 del D.P.R. 21.1.1976 n. 7 e n.17 II comma, L. 6.6.1991 n.175.
Nel confrontarci con il caso de quo, invero, non è dato rinvenire quale sia stata la normativa di riferimento, tuttavia, come vedremo, le soluzioni argomentative indotte e rinvenute non pare possano mutare di molto.

3- Un’ attenta e mirata indagine giurisprudenziale permette di definire, quantificare e, per così dire, cesellare il noto privilegio accordato agli Istituti di credito fondiario.
Si tratta a ben vedere di stabilire la portata ed il contenuto della deroga alla disciplina fallimentare ordinaria la quale, appunto, prevede all’art. 51 che:”salvo diversa disposizione di legge dal giorno del fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento”.
A prima vista si potrebbe affermare che la clausola di salvezza e rinvio ad altra disposizione di legge contenuta nel predetto articolo permetta ai creditori fondiari ipotecari di derogare ai principi generali dettati in tema di concorso dei creditori e di graduazione dei rispettivi crediti. Ma non è così.
Nella normativa sul credito fondiario non si rinviene alcuna norma che espressamente deroghi alla normativa di cui all’art. 52, II comma, e 92 e segg.L.F. (oltreché all’art. 2741 c.c. e 3 Cost.) per cui ogni credito, qualunque ne sia la natura, una volta dichiarato il fallimento, deve essere accertato nel procedimento fallimentare.
Con la sentenza dichiarativa di fallimento, i creditori assumono la qualità di beneficiari potenziali della liquidazione concorsuale; per diventare beneficiari effettivi tutti i creditori, anche i preferenziali, devono fare accertare i loro crediti, nel loro ammontare ed esistenza, nella procedura fallimentare, divenendo perciò concorrenti[4].
Qualora il creditore decida di non insinuarsi nelle forme di legge allo stato passivo del fallimento, il suo credito giammai potrà essere soddisfatto sul ricavato della vendita dei beni.
La mancata insinuazione non estingue però il debito del fallito.
In altri termini l’apertura del fallimento non determina un’improcedibilità dell’azione esecutiva da parte del creditore fondiario, tuttavia l’accertamento del proprio credito deve avvenire nelle forme e nei tempi della procedura concorsuale.
Il privilegio accordato è allora di natura squisitamente processuale.
Ma v’è di più!
Le somme percepite in sede esecutiva in eccedenza rispetto a quelle riconosciute in sede di riparto fallimentare devono essere restituite alla curatela.[5]
Il potere processuale e, quindi, la deroga all’art. 51 L.F. riguarda la sola azione esecutiva, non potendo le banche avvalersi né del ricorso per decreto ingiuntivo, né dell’azione di cognizione ordinaria al fine di recuperare il loro credito. [6]
Il blocco delle azioni di cognizione individuali significa che queste sono improcedibili, se già proposte, o inammissibili ove sopravvenute alla dichiarazione di fallimento.

4- Se questi sono i principi di base, occorre verificare più da vicino quali siano e come sono ripartiti gli oneri e i doveri tra creditore e curatore.
La giurisprudenza della S.C. al riguardo è molto oscillante.
Secondo un primo orientamento, si afferma che: “l’art. 42 del R.D. 646 del 1905( il quale dichiara sempre applicabili le leggi ed i regolamenti sul credito fondiario, anche in casi di fallimento del debitore, per i beni ipotecati dagli istituti di credito) va interpretato nel senso che il richiamo in esso operato è comprensivo della disciplina della esecuzione immobiliare, sicchè il fallimento del mutuatario non travolge l’esecuzione individuale che l’istituto mutuante abbia intrapreso sul bene immobile e non fa venire meno il diritto di chiederla.
Quest’ultimo costituisce un mero privilegio processuale, che non incide sulle regole della par condicio e sulle regole del concorso, con la conseguenza che anche il suddetto creditore DEVE insinuarsi al passivo del fallimento allo scopo di conseguire, se il credito risulta ammesso ed utilmente collocabile, il risultato dell’esecuzione privilegiata, restituendo invece, alla massa fallimentare l’eventuale somma ricavata in più dall’esecuzione per la quale non fosse ammesso o risultasse incapiente”.[7]
Nello sforzo di trovare l’anello di raccordo e di coordinamento tra la procedura collettiva e quella singolare promossa e proseguita dall’Istituto di credito fondiario, tale giurisprudenza ha allora sancito, in primo luogo, il preciso ONERE del creditore ipotecario di insinuarsi al passivo.
Di diverso avviso invece è altro indirizzo giurisprudenziale facente capo ad una pronuncia della S.C. del 1994 n. 5086[8], fortemente criticata in dottrina, che invece ha ritenuto non necessario che l’istituto di credito fondiario si insinui al fallimento per partecipare alla distribuzione della somma ricavata in quanto: “proseguendo l’esecuzione individuale anche dopo la vendita dell’immobile pignorato, alla distribuzione del ricavato devono applicarsi le regole proprie di tale forma di esecuzione (art. 42 T.U. n. 646 del 1905, fatto salvo dall’art. 51 L.F.), con la conseguenza che incombe al curatore del fallimento del debitore -in sede di esame del progetto di distribuzione o nella fase di contestazione dello stesso- dimostrare che i crediti insinuati prevalgono, in tutto o in parte, in ragione del grado della loro prelazione, su quello dell’istituto mutuante”[9].
Sotto questo profilo, è allora evidente che il predetto secondo orientamento, ribadito da due recentissime pronunzie, ritiene che spetta al curatore l’ onere di far rispettare la par condicio intervenendo nell’ esecuzione singolare e sollevando l’eventuale controversia in base al disposto dell’art. 512 c.p.c. [10].
Si è infatti precisato che l’esigenza di sottoporre il credito fondiario al concorso sostanziale di cui al primo comma dell’art. 52 L.F. è ampiamente soddisfatta dall’intervento del curatore, in luogo ed in vece di tutti gli altri creditori ex art. 107 L.F., nella fase della distribuzione davanti al giudice dell’esecuzione immobiliare individuale. Proprio in tale sede il curatore può esercitare la facoltà di cui agli articoli 596 e 598 c.p.c., esigendo l’osservanza delle disposizioni di cui agli artt. 2740 e 2741 c.c. e dell’art. 512 c.p.c. in ordine alla sussistenza ed all’ammontare del credito fondiario ed al grado della prelazione ipotecaria, in tal modo salvaguardando eventuali crediti prededucibili o di rango poziore [11].

5- Sembra evidente, per le ragioni sopra accennate, che di nessun intervento del curatore nella procedura esecutiva singolare possa parlarsi quando, com’è nel nostro caso, la vendita del bene immobile ipotecato avvenga in sede fallimentare.
Lo strappo alla regola generale fissata nell’ art. 51 L.F. viene, pertanto, a stemperarsi qualora la liquidazione avvenga in sede fallimentare.
In tale ipotesi, si afferma da tempo in giurisprudenza che il potere degli istituti di credito di proseguire l’esecuzione individuale sui beni ipotecari non esclude che il giudice delegato al fallimento possa disporre la vendita coattiva del bene perchè le due procedure espropriative non sono incompatibili fra loro ed il loro concorso va risolto in base all’anteriorità del provvedimento [12].
In altri termini, la normativa speciale dettata a favore degli istituti di credito fondiario non è assolutamente incompatibile con quella fallimentare, nel senso che sempre essa debba prevalere sulla procedura concorsuale al fine di garantire il cennato privilegio.
Del resto, si è affermato[13], quando il codice di procedura civile stabilisce la non assoggettabilità di un bene a due procedure esecutive afferma l’impossibilità che coesistano due procedure esecutive INDIVIDUALI.
Mentre, come sino ad ora chiarito, la stessa normativa speciale per l’azione esecutiva fondiaria impone alla banche il rispetto della par condicio creditorum (nella procedura COLLETTIVA) e la restituzione alla curatela del ricavato assegnato in eccedenza.
Il congegno temporale è poi sufficiente a dirimere il problema dell’applicabilità dell’una o altra normativa ai fini della liquidazione del bene: sarà privilegiato: “non tanto chi ha proposto l’istanza di vendita ma chi ha per primo disposta la vendita”[14]; ciò al fine di evitare un’insanabile conflitto di interessi tra due aggiudicatari.
Ebbene, nella fattispecie oggetto d’esame, il G.D. aveva emesso decreto di trasferimento dell’immobile in base all’art. 586 c.p.c., assolvendo così alla funzione di convertire in denaro l’immobile pignorato, ordinando, altresì, la cancellazione dell’ipoteca iscritta.
Il ricavato è stato acquisito alla massa dell’attivo fallimentare e le somme detenute dal curatore per l’adozione dei futuri periodici progetti di ripartizione tra tutti i creditori; fase di distribuzione, questa, però mancata a causa della revoca del fallimento.
A questo punto, ritenuta l’ammissione del credito fondiario ipotecario al passivo del fallimento, poi revocato, sorge un legittima domanda: poteva l’istituto di credito ottenere in via immediata (seppur provvisoria) il versamento del prezzo dall’aggiudicatario ?
Il che vale a dire, quelle ben note esigenze di celerità e snellezza di recupero che costituiscono l’unica e sola ratio fondamentale dell’art. 42 R.D. 16-luglio 1905 n. 646 e dell’art. 41, comma II, del nuovo T.U. del 1-9-1993 con D.Lgs . 385 ed entrato in vigore il 1 .1.1994 possono essere fatte valere anche in questa sede?
Ebbene, dottrina e giurisprudenza maggioritaria hanno dato a tale quesito risposta negativa rilevando che in tale caso, quando l’esecuzione sia stata promossa dal curatore ed attuata nelle forme e con i presupposti della procedura fallimentare, il mutuante deve attendere che sia l’ufficio fallimentare a liquidare quanto dovuto nel rispetto della par condicio creditorum; il prezzo di vendita dei beni ipotecati deve quindi pervenire al curatore del fallimento e poi essere ripartito secondo quanto previsto dagli art. 110 ss L.F.[15]
La giurisprudenza citata afferma che se il creditore fondiario ipotecario non si avvale della speciale azione esecutiva individuale egli CONSENTE alla vendita fallimentare.[16]
A parte il fatto che parlare sempre di consenso vero e proprio, quando invece si può ben trattare di perdita di uno spezzone del privilegio in base al cennato principio temporale di anteriorità, non sembra sia del tutto lecito, ma il punto è che tale affermazione vuole provare troppo e, cioè, che al creditore ipotecario sia data facoltà o potere di rinunciare alle sue basilari prerogative fissate dalla legge.
E’ solo vero che l’istituto di credito fondiario talvolta può scegliere o, più semplicemente, subire la via della vendita in sede fallimentare[17].
L’interpretazione restrittiva va opportunamente rivisitata.
Se si afferma che tra le due procedure non c’è incompatibilità, con vigore ed altrettanta decisione deve affemarsi il principio che LA LIQUIDAZIONE CONCORSUALE DEI BENI DEL DEBITORE NON PUO’ E NON DEVE MAI RISOLVERSI IN UN PREGIUDIZIO PER GLI ISTITUTI DI CREDITO [18].
Domanda : quale pregiudizio?
Risposta: non consentire, come invece la legge speciale vuole, una rapida e diretta riscossione del credito mediante l’attribuzione delle somme ricavate dalla vendita all’istituto di credito fondiario, svuotare di ogni e qualsivoglia valenza giuridica la normativa del Testo Unico del 1905 e del 1993 che, come abbiamo già all’inizio rilevato, è stata ritenuta meritevole di tutela dalla Corte Costituzionale.
La soluzione proposta mette al riparo anche da inutili ricorsi proposti dagli Istituti di credito fondiario per dimostrare un’asserita incompatibilità della vendita fallimentare con l’azione esecutiva singolare rivendicando un diritto esclusivo alla vendita dei beni immobili, perchè le remore degli istituti di credito, in fondo in fondo, si basano infatti sul timore di vedersi assegnate le somme con troppo ritardo rispetto alle esigenze di rientro per il pagamento alle singole scadenze degli interessi a favore dei possessori di cartelle fondiarie emesse[19].
Gli Istituti non operano che attraverso i soldi che riescono a recuperare dal mutuatario (fallito).
E’ evidente allora che, in ipotesi di mancata diretta attribuzione di dette somme, un reclamo ex art. 26 LF. congegnato in tal senso e sottoposto al vaglio del Tribunale avrebbe potuto evitare il problema poi nato a seguito della revoca del fallimento.
Un eventuale provvedimento di rigetto (dopo il provvedimento confermativo in sede di reclamo) sarebbe poi stato impugnabile con ricorso per Cassazione ex art. 111 c.p.c., se ritenuto avere carattere di decisorietà.

6- Si è affermato che una volta revocato il fallimento, il Giudice delegato ed il curatore, avessero le mani legate in ordine alla attribuzione delle somme richiesta dalle banche creditrici ipotecarie.
Tale posizione non sembra possa essere del tutto condivisa per due fondamentali ragioni: in primo luogo, in tali casi deve prevalere un principio di conservazione e perpetuazione degli atti compiti con il crisma della legalità; in secondo luogo, come autorevolmente affermato[20]: “revocato il fallimento gli acquirenti conservano i diritti sui beni acquistati, i creditori pagati conservano il diritto a trattenere quelle somme percette, e chi è diventato creditore nei confronti della procedura fallimentare, e non è stato soddisfatto, ha diritto di rivalersi contro il fallito come creditore di costui”.
La questione inoltre va affrontata alla luce del disposto dell’art. 107 L.F. al fine di verificare se, revocato il fallimento, il vincolo del pignoramento persista o meno.
Sotto quest’ultimo profilo è evidente che tale problema si pone solo allorché, prima della dichiarazione di fallimento, era stata promossa l’esecuzione individuale dal creditore .
Nel nostro caso il curatore si è sostituito al creditore procedente realizzando così un’ipotesi di successione processuale che si rende del tutto peculiare per il fatto di aver luogo a favore di un soggetto investito di funzioni pubbliche e di trovare la sua ragione d’essere nel divieto delle azioni esecutive individuali ex art. 51 L.F[21].
In tale caso si è affermato che si realizza una conservazione degli effetti sostanziali del pignoramento [22].
Quando però viene meno il titolo che aveva legittimato la sostituzione automatica del curatore i singoli creditori riprendono la legittimazione all’azione esecutiva individuale a suo tempo proseguita dal curatore e necessariamente sono legittimati a proseguirla dal punto in cui si era bloccata e a cui era giunto il curatore[23].
Tale soluzione discende dal fatto che il curatore non è titolare di un’azione esecutiva concorsuale generata dalla sentenza di fallimento ma semplicemente un organo scelto dal legislatore che per così dire rende possibile la trasformazione dell’azione di espropriazione da azione esecutiva individuale ordinaria in azione esecutiva concorsuale fallimentare: in altre parole l’azione esecutiva individuale viene (solo) assorbita nel fallimento .[24]
Gli effetti del pignoramento, determinati dall’azione esecutiva individuale intrapresa prima del fallimento, operano a vantaggio e a favore della massa dei creditori[25].
Revocato il fallimento viene quindi meno non il pignoramento ma il titolo- la sentenza dichiarativa del fallimento- che aveva determinato la sostituzione del curatore.
Viene restituita ai creditori la possibilità di continuare, proseguire l’azione esecutiva.
Un titolo c’è e rimane con il pignoramento a suo tempo incardinato.
Se così non fosse si realizzerebbe nel sistema normativo processuale non solo un’ingiusta, irragionevole ed incostituzionale frustrazione delle prerogative dei creditori procedenti, a prescindere dal fatto che siano ipotecari o meno, a causa proprio di una restrittiva applicazione della normativa fallimentare ( art. 21, 51, 107 L.F. in contrasto con l’art. 3, 24 Cost.), ma un vero spreco di attività processuale.
Pare, infatti, opportuno precisare che non si possono applicare due pesi e due misure ed affermare che, quando il curatore si sostituisce “ ope iuris” al creditore procedente, lo fa in quanto ciò “risponde alla incontestabile opportunità di mettere a profitto le attività processuali complesse e dispendiose già poste in essere per l’instaurazione della procedura esecutiva individuale”[26], mentre quando viene revocato il fallimento tali considerazioni restano radicalmente escluse.
Inoltre, poiché si afferma che la sostituzione del creditore è automatica e non estingue per inattività delle parti ex artt. 630 e 632 c.p.c. il processo esecutivo[27], altrettanto deve dirsi quando viene revocato il fallimento dopo l’aggiudicazione dell’immobile: il processo esecutivo a suo tempo intrapreso riprende vigore e la somma ricavata non va consegnata al debitore (arg. a contrario ex art. 632 comma II c.p.c.).
In questo senso si innesta, si precisa e si definisce il summenzionato fondamentale principio della conservazione degli atti processuali compiuti con il crisma della legalità.
Né varrebbe obbiettare che non sarebbe possibile la riattivazione della procedura esecutiva individuale, a seguito della revoca del fallimento, ove il curatore avesse optato per la vendita in sede fallimentare regolata da norme e forme diverse: la diversità di struttura non comporta affatto che, a seguito della dichiarazione di fallimento, il processo esecutivo si estingue, ma anzi pur diventando quest’ultimo improcedibile[28] in base al chiaro disposto dell’art. 51 L.F., la liquidazione fallimentare dell’attivo ne conserva gli effetti sostanziali propri del pignoramento, proprio perché, come detto, l’unico effetto è quello di sostituire un soggetto ad un altro al fine di promuovere la liquidazione dei beni a favore sempre del ceto creditorio con il rispetto della par condicio creditorum.
Se così non fosse si verrebbe a determinare una macroscopica, irrazionale ed ingiusta differenziazione di situazioni, censurabile costituzionalmente ( art. 107 e 51 l.f. in contrasto con l’art. 24 e 3 cost.), con pesanti riflessi per i creditori che si vedrebbero privare, una volta revocato il fallimento, la possibilità’ di esercitare il potere di prosecuzione dell’azione esecutiva interrotta.
Il curatore, ad evitare ciò non avrebbe più la scelta tra proseguire l’azione esecutiva individuale, sospenderla, sostituirla con altre forme o ancora devolverne l’oggetto come mezzo ai fini della chiusura del concordato, ma sarebbe necessariamente obbligato a continuare la precedente espropriazione, perché solo così potrebbe conservare gli effetti del pignoramento e preservare le ragioni creditorie[29].
Il diverso ragionamento, invece, come detto, ha alla sua base ciò che, da alcuni, viene definito come una parziale deroga all’art. 51 L.F. imposta da una retta interpretazione dell’art. 107 L.F.[30]: gli atti esecutivi compiuti da creditori pignoranti prima del fallimento non sono inefficaci né vengono caducati[31] ed il pignoramento continua ad esplicare gli effetti di cui agli artt. 2913 ss c.c., a prescindere dalla scelta operata, in quanto il curatore ne subentra automaticamente ed incondizionatamente nella titolarità sin dal momento della sentenza dichiarativa di fallimento.
La vendita in sede fallimentare determina l’acquisizione e l’assorbimento di tali effetti (già prodottisi) nei limiti in cui non si mostrino incompatibili con le strutture e forme di tale mezzo di liquidazione.
Si può allora dire che l’utilizzo delle norme proprie della liquidazione dell’attivo fallimentare determina solo una trasformazione del processo esecutivo individuale in esecuzione collettiva: non esiste, infatti, un’azione esecutiva individuale distinta da quella concorsuale[32].
Ai creditori è restituita la stessa azione esecutiva che prima del fallimento avevano esercitato, purgata però delle trasformazioni indotte con l’apertura del concorso[33].
Ad avviso di chi scrive, pertanto, la diretta e logica conseguenza, nel caso oggetto di esame, sarrebbe stata quella di depositare la somma ricavata su di un libretto intestato al giudice dell’esecuzione.
In altri termini, sarebbe stato sufficiente che il giudice delegato avesse sostituito, sulle somme ricavate dalla vendita immobiliare, il vincolo del giudice dell’esecuzione a quello dell’ufficio fallimentare.
E’ opportuno precisare che, essendo stato revocato il fallimento, il g.e non rimane vincolato dall’accertamento contenuto nello stato passivo reso esecutivo dal giudice delegato e, quindi, legittimato a partecipare alla distribuzione del ricavato è il creditore procedente con gli eventuali precedenti creditori intervenuti, o quelli che intervengono tardivamente nelle forme di legge.
Se vi è un solo creditore si applica l’art. 510 c.p.c., ed il g.e prima, di emettere il provvedimento satisfattivo commisurato al ricavato, convocherà con decreto anche il debitore per essere sentito in apposita udienza; altrimenti il g.e., entro 30 giorni dal versamento del prezzo, procederà a formare un progetto di distribuzione contente la graduazione dei creditori che vi partecipano ( art. 596 c.p.c.).
Gli altri creditori, in particolare i chirografari, seppur ammessi al passivo, a seguito della sentenza di revoca del fallimento dovranno far valere le loro ragioni nei confronti del fallito tornato in bonis, intervenendo con apposito titolo esecutivo nella procedura esecutiva prima del provvedimento della distribuzione e concorrendo, però, soltanto alla somma che sopravanza dopo il soddisfacimento del creditore pignorante e di quelli intervenuti in precedenza ( art. 565 c.pc.); infine, in base all’art. 566 c.p.c., i creditori iscritti e privilegiati ( art. 2770 ss c.c.) che intervengono tardivamente concorreranno nella distribuzione del ricavato in ragione dei loro diritti di prelazione.
7- A norma dell’art. 509 c.p.c. la somma ricavata costituisce un pagamento coattivo che innegabilmente crea un vincolo di destinazione: essa, cioè, deve essere oggetto di futura distribuzione ex art. 596 c.p.c. .
Ciò posto è evidente che la questione comporta diverse soluzioni a seconda che, nonostante il fallimento, sia proseguita l’esecuzione singolare da parte della banca ovvero il curatore abbia preceduto il creditore e venduto il bene ipotecato in sede fallimentare.
In tale ultimo caso, anche il creditore fondiario ipotecario, secondo il citato maggioritario indirizzo giurisprudenziale, soggiace in toto alle regole dettate per la liquidazione dell’attivo nell’ambito della procedura concorsuale[34].
Il diritto di credito della Banca, tuttavia, non si estingue se non con il materiale ed effettivo pagamento, con l’attribuzione cioè del ricavato della vendita.
Cancellata l’ipoteca, l’istituto di credito fondiario mantiene il suo credito ed il suo grado di prelazione ipotecaria da far valere sul prezzo, senza necessità, cioè, di doversi porre il problema dell’iscrizione di una nuova ipoteca .
Tale credito dovrà essere fatto valere in via ordinaria nei confronti del fallito tornato in bonis.
Non sembra lecito dubitare che il fallito tornato in bonis non ha alcun diritto ad incassare in via definitiva la somma che costituisce il ricavato della vendita dell’immobile ipotecato(v. art. 509 c.p.c. e arg. a contrario ex art. 632, II comma, c.p.c.), semmai potrà beneficiare dell’eventuale residuo !!!!
Il fatto che la proprietà della somma di denaro, costituente ricavo della vendita forzata, sia di proprietà del debitore sino a quando non avvenga, in concreto, il passaggio nella sfera patrimoniale del creditore (c.d traditio in manu)[35], non toglie che tale somma è preordinata teleologicamente al soddisfacimento delle ragioni creditorie, da far valere nelle opportune forme di legge.
Il denaro ricavato dalla vendita è rappresentativo del bene ipotecato e su di esso si è costituito un vero e proprio diritto a che venga attribuita tale somma in capo all’istituto di credito.
Revocato il fallimento il rapporto con la procedura esecutiva individuale è speculare a quello che si determina a seguito della dichiarazione di fallimento: l’intangibilità del vincolo di indisponibilita’ creata dal pignoramento determina, per le ragioni di economia processuale sopraindicate, il riacquisto della titolarità del potere di iniziativa processuale in capo al creditore.
Anche se si volesse accedere a quella giurisprudenza che nega, in tale ipotesi, la possibilità’ di riattivare la procedura esecutiva al punto in cui era giunta sotto l’egida del curatore, rimarrebbero sempre salvi gli effetti sostanziali del pignoramento e quindi il vincolo di destinazione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo.
Qualora, invece, sia proseguita l’esecuzione individuale nonostante il fallimento e sia stato venduto il bene immobile ipotecato, sulla somma da restituire grava, oltre quanto sino ad ora affermato in termini di principio generale di conservazione dell’attività SOSTANZIALE E/O processuale svolta, uno speciale vincolo di destinazione impresso dalla legge ( cfr. artt. 42 e 55 T.U 1905, art. 41 T.U. 1993 ). Ricordiamo infatti, che secondo la recentissima giurisprudenza di legittimità[36] si è affermata la necessità di rispettare e fare salva INTEGRALMENTE la normativa speciale del credito fondiario che prevede la prosecuzione della procedura esecutiva individuale fino alla distribuzione del prezzo.
Dall’art. 41, III comma, T.U. 1993 (42 T.U. 1905 n. 646)- che fa obbligo al curatore del fallimento di versare all’Istituto mutuante le rendite dei beni ipotecati, discende a fortiori l’obbligo EX LEGE del curatore di versare all’istituto mutuante il prezzo del ricavato della vendita dell’immobile ipotecato.
Tale norma infatti testimonia che il credito fondiario costituisce un ”corpus separatum”[37], sia pure in senso non assoluto, rispetto al patrimonio del debitore. E’ agevole rinvenire che, quando il curatore interviene nella procedura individuale, si realizza un fenomeno di surrogazione nei diritti della banca e mancando nel curatore una posizione giuridica distinta dalla banca egli deve porre quest’ultima nelle condizioni di conseguire il proprio diritto, vale a dire di percepire le somme dalla vendita del bene ipotecato.
Revocato il fallimento, dunque, sussiste -in entrambi casi ed anche qualora l’ipoteca non sia a favore del credito fondiario- l’OBBLIGO del curatore di restituire le somme alla Banca creditrice ipotecaria.
Ma l’obbligo di restituzione da parte del curatore si correla al primario OBBLIGO DI INDIVIDUARE L’ENTITÀ DELLA MASSA FALLIMENTARE DI PROPRIETÀ DELLA EX FALLITA ed in definitiva di accertare quali sono le somme sulle quali l’ex fallita poteva esercitare un diritto.
Ci troviamo di fronte pertanto ad un omessa indagine in ordine alla somma rappresentativa del bene ipotecato.
Tutto ciò non esime il curatore da presentare un rendiconto e cosa importante la redazione di un inventario al fine della individuazione e restituzione dei beni . Come acutamente osservato da autorevole dottrina, “contrariamente ai principi astratti in materia, la revoca del fallimento finisce per operare ex nunc, quanto agli effetti patrimoniali”[38].
Ritenendo non legittimato il curatore si dovrebbe allora nominare un curatore ex art. 78 c.p.c. in ragione del fatto che manchi in tale ipotesi un rappresentante del patrimonio del fallito.
Tuttavia tale soluzione, oltre a non essere appagante e poco condivisibile, non è in linea con le considerazioni poco fa accennate.
Revocato il fallimento la legittimazione o è del fallito, sui beni di sua proprietà però, o del curatore, tertium non datur.
Allora, prima di instaurare un procedimento in sede di cognizione ordinaria per la restituzione delle somme ricavate dalla vendita il creditore ordinario ben potrebbe utilizzare lo strumento del sequestro conservativo sui mobili presso terzi ex art. 678 c.p.c., o meglio proporre un pignoramento presso terzi ex art. 543 c.p.c., quando ancora le somme di denaro sono sul libretto di deposito bancario intestato alla curatela.
Qui sta l’opera attenta vigile del buon avvocato che può farsi autorizzare all’ esecuzione immediata dal giudice che appunto emette decreto ai sensi e per gli effetti dell’art. dell’art. 482 c.p.c.
Tale strumento processuale poi è anche interessante per un ulteriore risvolto pratico: la dichiarazione incontestabilmente affermativa resa dal terzo pignorato preclude qualsiasi attività cognitoria di accertamento della veridicità ed esattezza della dichiarazione del debitor debitoris.
Pertanto l’ex fallito presunto vero creditore non potrà proporre opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. al pignoramento presso il terzo debitore.[39]
Il fallito tornato in bonis comunque deve restituire al creditore ipotecario il prezzo del ricavato della vendita del bene immobile qualora tale somma sia stata (erroneamente) a lui consegnata dal curatore[40].
8- Un’ ultima breve postilla.
La sentenza di revoca del fallimento[41] può non contenere alcuna disposizione in ordine alla restituzione dei beni all’ex fallito; essa allora non potrà costituire titolo esecutivo- ormai azionabile essendo caduto il divieto di intraprendere azioni esecutive individuali- per riottenere, da parte del fallito i suoi beni[42]
Merita allora di essere considerato attentamente il problema del CONTENUTO DELLA SENTENZA DI REVOCA DEL FALLIMENTO sotto il profilo:
a) dell’ordine di restituzione;
b) dell’individuazione dei beni del fallito.
Con la sentenza di revoca del fallimento cessa lo spossessamento dei beni del debitore.
Sorge allora la necessità giuridica di individuare i beni residui dalla liquidazione che siano di proprietà del ex fallito.
L’impossibilità di azionare la predetta sentenza nei confronti della curatela deriva dalla mancanza di statuizioni precise in ordine alla NECESSARIA INDIVIDUAZIONE DEI BENI.
Tale problema vale sia per il fallito tornato in bonis che per i terzi creditori a cui ancora non sia stato distribuito il ricavato della vendita.
L’obbligo di individuare detti beni spetta allora al curatore.
In mancanza di ogni possibilità di individuare detti beni, di rigetto di istanza proposta al G.D. volta alla restituzione[43], non resterà che agire in giudizio con apposita azione restitutoria di carattere personale verso chi ( curatore o ex fallito) detiene senza titolo beni di proprietà di terzi: la Cassazione, infatti, da tempo riconosce che qualora venga meno o difetti ab origine il titolo in base al quale la cosa sia stata trasferita, il soggetto che reclama la restituzione del bene può fondatamente proporre l’azione restitutoria senza avere l’onere di provare il suo diritto di proprietà.[44]
Revocato il fallimento la detenzione del curatore del prezzo ricavato dalla vendita dell’immobile ipotecato è sine titulo.

[1] Sul tema in generale, cfr. Petraglia, Crediti Fondiari: Esecuzione individuale e procedure concorsuali, in Il fall. 1997, 52; Carbone, Il credito fondiario tra risoluzione speciale ed esecuzione singolare, in Il fall. 1996, 1145; Oriani, L’espropriazione singolare per credito fondiario, in Corr. Giur. 1995,384; Bozza, La perpetuazione dei privilegi degli istituti di credito fondiario, in Il fall., 1994, 793; Cantele, Esecuzione individuale dell’ Istituto di credito fondiario, in Il fall. 1994, 86; Panzani, Credito fondiario esecuzione immobiliare e fallimento, in Il fall. 1994, 161; Macchia, Il consolidamento dell’ipoteca ed i privilegi procedurali connessi al credito fondiario, Atti Del Convegno “ Le operazioni di credito fondiario nel Testo Unico e nelle Istruzioni della Banca d’Italia “, Milano 1994,1 ss.; Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, in Riv. dir.proc. civ 1994, 1004; Petraglia, Note sulla disciplina giuridica del credito fondiario e alle Opere pubbliche dopo il nuovo Testo Unico in materia bancaria e creditizia, in Giust. civ. 1994, II, 347; Tardivo, Credito fondiario e procedure concorsuali. Problemi recenti., in Dir. fall. 1988, I, 205; Villa, Istituto di credito fondiario: azione esecutiva individuale in pendenza di fallimento, in Il fall., 1987, 628; Lo Cascio, Credito fondiario e fallimento, in Giust.civ. 1987, I, 1987;Oppo, Il privilegio del credito fondiario oggi, in Riv. dir. civ. 1983, II, 397; Bongiorno, Esecuzione forzata per credito fondiario e procedure concorsuali, in Banca, borsa, tit. cred., 1966, I, 511; Satta, Rapporti tra la legge sul credito fondiario e la legge fallimentare, in Riv. Trim.dir. proc., 1966, I, 511; Tarzia, Espropriazione forzata per credito fondiario e procedimenti concorsuali, in Banca, borsa, tit. cred., 1957, 34; Falaschi, In materia di credito fondiario, di fallimento ed amministrazione giudiziale, in Foro it., 1949,IV,191.
V. inoltre, Costi, Crediti speciali, Disciplina sostanziale, in Enc. Treccani, vol X, Roma,1988, 1 ss; Falaschi, Credito edilizio e fondiario, in Noviss. Dig. It. App., vol. II, 1981, 903; Murè Credito fondiario, in Enc, dir., vol. XI, 1962, 295;Provinciali, Fallimento e credito fondiario, Milano, 1971; Moglie, Manuale del credito fondiario, 3a ed. , Milano, 1971, Cap. XV, pag. 433 ss.

[2] Cfr. Cass. 1.12.1994 n. 10256, in Il fall. 1995,732 in motivazione.

[3] Cfr. Cort. Cost. 31-3-1988 n.393; Corte Cost. 3-8-1976 n. 211 in Giust. civ. 1976, 465; Corte Cost. 19.12.1963 n. 166, in Giust. civ. 1964, 10.
[4] Cfr., Provinciali R., Manuale di Diritto fallimentare, 1962, 4a ediz., 688

[5] Cfr. Cass. 2.3.1988 n. 2916, in Il fall., 1985, 557.

[6] Cfr. Cass. 1.12.1994 n. 10256 cit.

[7] Cfr. Cass. 15.1.1998 n. 314, in Il fall. 1998, 812. In tal senso, cfr. Cass. 1993 n. 7323, in Giur. It., 1994, I, 1056; Cass. 1990 n. 11324, in Il fall., 1991, 558; Cass. 3.12.1986 n. 7148; Cass. 11.3.1987 n. 2532, in Il fall. 1987, 943; Cass. 6.3.1974 n. 598, in Giust. Civ. 1974, I, 871; Trib. Milano 9.10.1986, in Il fall., 1986, 1178; Trib. Roma, 26.5.1983, in Giust. Civ. 1983,I, 2483; Trib. Catania, 29.7.1977, in Dir. Fall., 1978, II, 261.

[8] Cfr. Cass. 15.6.1994 n. 5086, in Il fall. 1994, 1161 ( pres. Cantillo, est. Sgroi).
Tale sentenza costituì un revirement rispetto alle decisioni precedenti e la tesi in esso contenuta, oltre ad essere stata contestata dalla dottrina, v. per tutti Panzani op.loc. cit., è stata poi successivamente disattesa dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza del 1998 n. 314, citata nel testo che appunto è ritornata sull’ insegnamento in base al quale è onere del creditore fondiario insinuarsi nel passivo del fallimento.
[9] Cfr. Cass. 19.2.1999 n. 1395 e Cass 9.10.1998 n. 10017- entrambe aventi come Pres. Grieco e Rel. Losavio- ove appunto si afferma la necessità di rispettare e fare salva INTEGRALMENTE la normativa speciale del credito fondiario che prevede la prosecuzione della procedura esecutiva individuale fino alla distribuzione del prezzo.
[10] Cfr. Cass. 19.2.1999 n. 1395 e Cass. 9.10.1998 n. 10017.
[11] Cfr. Cass. 19.2.1999 n. 1395 e Cass. 9.10.1998 n. 10017.
[12] Cfr. Cass. 28.1.1993 n. 1025, in Il fallimento 1993, 729; Cass. 5.7.1993 n. 7323; Cass. 1985 n. 582, in Il fallimento, 1985, 739.
[13] Cfr. Cass. 28.1.1993 n. 1025.
[14] Cfr. Cass. 28.1.1993 n. 1025, in motivazione.
Diversamente, Trib Prato 27.2.1984, in Dir. fall. 1984, 1075: “ Una volta fissata la vendita in una delle due procedure l’altra non può assoggettare il bene esecutato contemporaneamente alla vendita, perché solo in questo caso potrebbero sorgere insanabili conflitti di interessi tra diversi aggiudicatari”. La sentenza è annotata favorevolmente dal Bronzini, op.cit.

[15] Cfr. chiaramente Cass. 5.7.1993 n. 7323 cit.; Cass. 2.2.1978 n. 458, in Rep. For.it. 1978, voce Fallimento n. 227; Trib. Udine 6.2.1985, in Rep. For.it., 1985, voce Fallimento n. 283; Trib. Roma, 23.11.1968, in Dir. fall. 1968,135.
In dottrina, in senso contrario all’incasso immediato del prezzo da parte della banche ed in adesione al cennato indirizzo giurisprudenziale, si sono espressi Pazzaglia, Il credito fondiario e le vendite fallimentari, in Dir. fall. 1969, 135; Bronzini, Vendita fallimentare in pendenza di esecuzione del credito fondiario, in Dir. Fall. 1984, 1075.
[16] Cfr. Cass. 5.7.1993 n.7323, in Il fallimento 1993, 1238.
[17] Del resto il termine consenso sembra usato quando il creditore ipotecario si insinua nel passivo del fallimento.
A ben vedere di tale ONERE è, secondo un orientamento giurisprudenziale, gravato l’istituto di credito fondiario anche qualora la vendita avvenga in sede di esecuzione individuale.
Oltre alla istanza di ammissione al passivo vi deve essere la chiara ed manifesta volontà di non voler proseguire l’esecuzione promossa o meglio di non voler intraprenderla in corso di fallimento.
Se la Banca prosegue nella sua esecuzione ma l’immobile viene messo all’asta dal fallimento si verifica una vera è propria PRECLUSIONE che salvaguarda da pontenziali conflitti di interessi tra aggiudicatari, non certo un consenso.

[18] Spunti in tal senso vengono da Cass. 30.1.1985 n. 582 loc. cit., in motivazione ove si parla di attribuzione immediata delle somme al creditore fondiario qualora la vendita sia eseguita dall’organo fallimentare, inoltre da Cass. 28.1993 n. 1025 loc. cit., in motivazione, sul” rispetto delle esigenze di sollecito recupero del credito da parte degli Istituti di credito fondiario”.
[19] Resta da vedere la questione attinente ai parametri di determinazione del compenso del curatore.
[20] Ricci, Lezioni sul fallimento, Milano 1992, 205.
[21] Cfr. Cass. 29.5.1997 n. 4743.
[22] Cfr. Cass. 15.4.1999 n.3729 e Cass. 29.5.1997 n. 4743.
[23] Cfr. Cass 19.7.1999 n.7661, ove si afferma che tale soluzione vale in tutte le ipotesi in cui viene meno il titolo che aveva legittimato la sostituzione del curatore; inoltre si ribadisce il principio per cui non esiste un’azione esecutiva concorsule distinta dall’azione esecutiva singolare dei creditori.
[24] Cfr. Cass. 29.5.1997 n. 4743; Cass. 29.3.1969 n. 1040.
[25] Cfr., oltre la giurisprudenza citata nella nota 25, Cass. 10.11.1980 n. 6020.
[26] Cfr. Cass. Sez. Un. 2 marzo 1966 n. 618; Cass. 26.11.1971 n. 344; Cass. 29.5.1997 n. 4743.
[27] Cfr., da ultimo, Cass. 15.4.1999 n. 3729.
[28] Occorre rilevare che la Cassazione, con la citata sentenza del 19.7.1999 n. 7661, al fine di restituire l’azione esecutiva ai creditori successivamente alla revoca del fallimento ha parlato in termini generali di IMPROSEGUIBILITA’ e non di IMPROCEDIBILITA’.
Il termine di IMPROSEGUIBILITA’ è distinto dalla nozione tecnica processuale di IMPROCEDIBILITA’ in quanto proprio della normativa speciale fallimentare (art. 51 L.F.) e sta a significare la prevalenza delle esigenze pubblicistiche sottese all’esecuzione collettiva che determina appunto l’arresto e l’interdizione per il creditore pignorante a continuare la procedura esecutiva individuale ed il suo assorbimento in quella concorsuale che la trasforma e plasma secondo il suo modello normativo.
L’improseguibilità del processo esecutivo, qualora riguarda i beni immobili, va dunque vista in termini relativi( al contrario della vendita mobiliare) ed intesa soggettivamente.
Il problema della restituzione ai creditori dell’azione esecutiva, a seguito della revoca del fallimento, come di ogni altro titolo che ha determinato la perdita della legittimazione in capo al curatore, va allora risolto rilevando che quando la vendita avviene in sede fallimentare si determina un’improseguibilità o se si vuole un’improcedibilità, ma tale situazione processuale in quanto frutto di una scelta del curatore non può incidere sul subentro inderogabile ed incondizionato del curatore nella titolarità degli effetti sostanziali del pignoramento.
L’improcedibilità e la caducazione degli effetti sostanziali, infatti, si realizza secondo Cass. 29.5.1997 n. 4743 solo qualora il fallimento si chiuda altrimenti, come per pagamento integrale al di fuori della liquidazione dell’attivo o per concordato.
Cass. 19.7. 1999 n. 7661,. sembra lasciare invece supporre che in ogni caso si debba parlare di improseguibilità con conseguente salvezza del vincolo di pignoramento, proprio perché non c’è un‘azione esecutiva individuale distinta da un’azione esecutiva concorsuale. Tale opzione ermeneutica conferma, a nostro sommesso avviso, che la soluzione non può essere ancorata a rigidi schemi processual-civilistici ma deve essere ricercata nello stretto ambito fallimentare.
Cass. 6.7.1999 n. 6968, afferma che l’intervento del curatore che chiede l’interruzione della procedura di espropriazione individuale comporta l’improcedibilità della stessa ai sensi dell’ art. 51 L.F. ed il suo assorbimento in quella collettiva.
Cass. 15.4.1999 n. 3729, parla anch’essa chiaramente di improcedibilità quando la vendita avvenga dinanzi agli organi fallimentari, fermo restando il principio generale di conservazione degli effetti del pignoramento.
Cass. 9.2.1981 n. 783 ha invece escluso che in caso di revoca del fallimento il creditore originario possa riassumere la procedura esecutiva individuale, qualora l’organo concorsuale rinunci agli atti esecutivi per attrarre direttamente nell’orbita fallimentare gli immobili pignorati.
Cass. sez. un. 2 marzo 1966 n. 618, afferma che l’intervento del curatore che dichiari di non voler proseguire l’espropriazione individuale determina l’improcedibilità della medesima per essere assorbita da quella collettiva, secondo la volontà manifestata dall’ufficio fallimentare; in motivazione tale sentenza ha poi affermato che erroneamente il g.e aveva dichiarato l’improseguibilità trattandosi un caso di improcedibilità, rilevando che comunque agli atti non risultava che il curatore fosse stato autorizzato ex art. 35 L.F. alla rinuncia, risultando piuttosto la semplice volontà del curatore a ricorrere alle forme proprie dell’espropriazione fallimentare.
In dottrina, cfr. Ferro, Problemi e casi nelle vendite mobiliari ed immobiliari, in Dir. fall. 1999; I, 438; Alvino, Improseguibilità ed improcedibilità dell’esecuzione immobiliare sopraggiunto il fallimento, in Dir. fall. 1968; I, 50.
Contrario alla tesi della conservazione degli effetti sostanziali del pignoramento è Bonsignori, Intervento del curatore nell’espropriazione immobiliare in corso ed efficacia delle alienazioni successive al pignoramento, in Dir. fall.1976, II,192; in giurisprudenza cfr. e Cass. 14.3.1973 n.715 e Cass. 6.7.1968 n.2304 ove si afferma che gli effetti sostanziali di pignoramento si conservano solo qualora il curatore effettui il subingresso nella procedura esecutiva individuale.
In generale sulla nozione di improcedibilità, cfr. La China, Procedibilità (dir. proc. civ), in Enciclopedia del diritto, XXXV, Milano, 1986, p.794.

[29] La Cassazione ha infatti di recente affermato, con la sentenza del 15.4.1999 n. 3729, che la sostituzione ope legis comporta necessariamente anche la facoltà discrezionale di scelta dell’ufficio fallimentare di non proseguire l’azione esecutiva già intrapresa, potendo infatti preferire altre forme di esecuzione quale ad esempio quella dinanzi agli organi concorsuali; in tale caso il curatore subentra automaticamente e senza condizioni nella titolarità degli effetti sostanziali del pignoramento; nello stesso senso, Cass. 29.5. 1997 n. 4743.
[30] Cfr. in tal senso, Cass. sez.un. 2 .3.1966 n. 618, in motivazione; Cass. 15.5.1967 n. 1017;Cass. 27.3.1976 n.1114; da ultimo Cass. 15.4.1999 n.3729. Contra: Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, 1976, 320; Provinciali, Trattato cit.,II, 898; Di Amato, in Collana di diritto fallimentare diretta da Ivo Greco, 1994, 123-124, ove si afferma che in effetti non c’è alcuna deroga parziale in quanto si tratta non di un’esecuzione persistente a favore di un creditore concorsuale ma di un’esecuzione persistente a favore dell’ufficio fallimentare nell’interesse di tutti i creditori concorrenti.
Ad avviso di chi scrive, il problema va posto in questi termini: è certo vero che non esiste un’azione esecutiva individuale distinta dall’azione esecutiva collettiva ed in tale caso v’è un fenomeno di conversione che si realizza a mezzo dell’ufficio fallimentare di cui il curatore ne è per legge il titolare, strutturando il soddisfacimento di tutti i creditori nella fase della liquidazione fallimentare.
L’azione esecutiva, quando è proseguita dal curatore, è tuttavia quella stessa iniziata dal creditore seppure trasformata dalle modifiche indotte dall’apertura del concorso dei creditori e solamente ciò vale a spiegare come si realizza il fenomeno della conservazione degli effetti sostanziali; il fatto che la sostituzione avvenga automaticamente ed incondizionatamente- quindi anche senza la necessità di un intervento nella procedura esecutiva- determina che in ogni caso il vincolo di cui agli artt. 2913 ss. c.c. rimane salvo.
Si può allora, semmai, dire che quando la vendita avviene in sede fallimentare, e non in sede di esecuzione individuale con l’intervento del curatore, si determina l’improcedibilità dell’azione esecutiva individuale, ma l’arresto dell’azione esecutiva individuale è finalizzato e preordinato al suo assorbimento ed alla sua trasformazione in quella collettiva. Ciò posto è innegabile che si realizza, anzi si deve realizzare se si vuole conservare gli effetti sostanziali del pignoramento, una parziale deroga all’art. 51 L.F.
[31] Cfr., Cass. 10 .11.1980 n. 6020; in dottrina, in merito a tale argomento, De Martini, Fallimento sopravvenuto durante il corso dell’esecuzione forzata individuale, in Foro.it.,1952,I,648; Martinetto, Rapporti tra fallimento ed espropriazione forzata, in Dir. fall. 1969,I,193.
[32] Vale la pena rilevare, infatti, che in tale caso i creditori eserciteranno la propria azione singolare a mezzo dell’insinuazione del loro credito al passivo del fallimento e con la partecipazione alla distribuzione del ricavato; per tale impostazione, cfr. Satta, Diritto fallimentare,1990,164; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, 1974,887-888; per la giurisprudenza, chiaramente, cfr. Cass. 19.7.1999 n. 7661.
Si può allora convenire che l’azione esecutiva individuale, una volta scelta la strada della liquidazione dell’attivo in sede fallimentare non è lasciata nel limbo, tra color che son sospesi, ma si trasforma.
D’altra parte il dubbio amletico (indicato nella nota 31), il nodo centrale sta proprio in questo se cioè le azioni esecutive individuali si trasformino e vengano esercitate ad impulso dell’ufficio fallimentare o rimangano nel letargo; da escludere, sicuramente, che si estinguano ex art. 630 c.p.c. .

[33] Cfr. Cass. 19.7.1999 n. 7661, in motivazione.
[34] Ricollegandoci a quanto precedentemente detto, osserviamo però che lo “scippo” così perpetrato ai danni del creditore ipotecario fondiario, seppure ammissibile, non determina affatto la perdita di quel potere di attribuzione immediata, a favore della banca, di parte del ricavato della vendita immobiliare.
[35] Cfr., Cass. 8.4.1998 n. 3663; Cass. 22.4.1998 n.4078; Cass. 26.2.1994 n. 1968; Cass. 7.3.1990 n. 11608; Cass. 30.1.1985 n. 586; Cass. 7.3.1972 n. 974, che considera revocabili ex art. 67 L.F. gli atti di pagamento (e non il provvedimento giudiziale di assegnazione) in quanto sono negozi autonomi svincolati dal titolo negoziale o dal provvedimento del giudice che ne costituisce la causa e vanno colpiti “in quanto di per sé si risolvono oggettivamente in un turbamento della par condicio creditorum”.
CONTRA: Cass. 5.8.1964 n. 2238, in Dir. fall. 1964, II, 485, con nota di Bonsignori, Contro la revocatoria di provvedimenti espropriativi,in cui si afferma che “il provvedimento di assegnazione di un credito presso terzi comporta una cessio pro solvendo, cosicchè l’ordine del giudice produce una modificazione giuridica che incide sul diritto di proprietà del credito coattivamente ceduto, il quale, di conseguenza è trasferito dal debitore al creditore assegnatario nel momento dell’emissione da parte del giudice dell’esecuzione, del provvedimento di assegnazione”.
App. Milano, 16.3. 1979, in Il fall. 1979, 1061; Trib. Milano 11.12.1975, in Dir. fall.1976, II; 234.
In dottrina condividono tale impostazione Castoro, Il processo esecutivo nel suo aspetto pratico, 1998, 305; Lo Cascio, Codice del fallimento, Milano,1992; Macchia, Gli atti soggetti a revoca ai sensi dell’art. 67 comma II L.F., in Il fall 1990, 957.

[36] Cfr. Cass. 19.2.1999 n. 1395 e Cass. 9.10.1998 n. 10017- entrambi aventi come Pres. Grieco e Rel. Losavio.
[37] Così Satta , Rapporti tra la legge sul credito fondiario e la legge fallimentare,loc. cit., 165.
[38] Cfr. G.U. Tedeschi, in Commentario Scaloja- Branca sub art 21, 595.
[39] V. Bonsignori, L’esecuzione forzata, Torino, 1991, 76; Punzi, La tutela del terzo nel processo esecutivo, Milano, 1971, 62 ss.
[40] Il creditore- ripetiamo- ha comunque il primario, fondamentale e sacrosanto diritto di continuare a giovarsi degli effetti sostanziali dell’azione esecutiva individuale intrapresa dopo il fallimento a cui si era sostituito il curatore secondo la regola “ chi prima arriva bene arriva” e poi bloccata dalla revoca del fallimento.

[41] Cfr., sull’argomento G.U. Tedeschi, in Commentario Scialoja- Branca, sub art 21, 589 e seg.

[42] Cfr. Trib. Roma 8.3.1969 in Dir. fall. 1969, II, 454: “ La sentenza che revoca la dichiarazione del fallimento che non contenga alcuna statuizione in ordine alla restituzione dei beni del fallito non ha efficacia di titolo esecutivo e non può legittimare l’azione esecutiva”.

[43] Secondo Cass. 28-4-1973 n.1172, in caso di mancata collaborazione del curatore, i provvedimenti restitutori e reintegratori potranno essere richiesti dal debitore tornato in bonis (n.d.r. o dal creditore) rivolgendosi direttamente all’ex giudice delegato che POTRA’ EMETTERE GLI OPPORTUNI PROVVEDIMENTI, SUSCETTIBILI DI RECLAMO EX ART 26 L.F.
Infine, secondo Cass. 4.10.1977, in Giur. Comm. 1978,II, 369 “ se la decisione di fallimento risulta nulla, la revoca ha effetto retroattivo. In tal caso non è precluso che si possa procedere ad una nuova dichiarazione di fallimento”.
[44] Cfr. Cass. 5.4.1984 n.2210, in Rep. Giust. Civ. 1984, 2412, 3;Cass. 26.5.1991 n. 7162, in Rep. Giust. Civ. 1991, 2412, 6; Cass. 30.11.1987 n. 8895.
Sempre che non si ritenga di poter agire con l’azione di rivindica ex art 948 c.c.

Redazione

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