Equivalenza delle mansioni e giurisprudenza

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Nel diritto del lavoro la trattazione delle mansioni del lavoratore occupa una posizione di grande rilievo. Le questioni che ruotano intorno a tale tematica sono state oggetto di un’attenta analisi ed interpretazione giurisprudenziale. In particolare, è ricca la giurisprudenza relativa al concetto di “equivalenza delle mansioni” e ai limiti dello jusvariandi in capo al datore di lavoro. Quest’ultimo dovrà prestare particolare attenzione nell’esercitare lo jusvariandi delle mansioni del dipendente poiché un errato esercizio potrebbe comportare un demansionamento del lavoratore con tutte le conseguenza che da esso ne discendono. Si tratta, dunque, di un tema di grande rilevanza per la corretta gestione del rapporto di lavoro.

Il referente normativo è l’art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 13 della L. n. 300/70 (c.d. Statuto del lavoratore), il quale prevede che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. (…) Ogni patto contrario è nullo”.

La norma di cui all’art. 2103 al primo comma disciplina una delle possibili manifestazioni del potere direttivo del datore di lavoro rappresentato dallo jusvariandi, ossia il potere del datore di lavoro di modificare, nel corso del rapporto di lavoro, le mansioni assegnate al lavoratore al momento della sua assunzione, con il limite della sua equivalenza.                                                     

Prima di analizzare il controverso concetto di equivalenza e i limiti entro i quali il datore di lavoro può esercitare il potere conferitogli dalla norma, è opportuno soffermarsi preliminarmente sul significato da dare ad alcuni termini e ad alcuni principi giuridici inerenti all’inquadramento del lavoratore:

1)      la Mansione assegnata al lavoratore si concretizza nei compiti che egli dovrà estrinsecare durante la sua attività lavorativa e costituisce l’oggetto della sua prestazione lavorativa;

2)      la Qualifica consiste in un raggruppamento  di mansioni omogenee che permette di designare lo status professionale del lavoratore;

3)      la Categoriariunisce qualifiche tra di loro omogenee. L’art. 2095 c.c. individua quattro categorie legali: dirigenti, quadri, impiegati e operai.

Come sopra accennato, l’art. 2103 c.c. conferisce al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.Prima delle modifiche operate dal legislatore del ‘70, la norma subordinava, in caso di conflitto, l’interesse del lavoratore a quello dell’impresa: tra le esigenze dell’impresa e quelle relative alla tutela del patrimonio professionale dei lavoratori, le prime prevalevano sulle seconde, tenuto conto anche situazione di inferiorità in cui versava in quel periodo il prestatore di lavoro, essendo esposto al potere di licenziamento ad nutum da parte datoriale. A seguito dell’entrate in vigore dello statuto dei lavoratori, con l’art. 13 di detta legge la situazione è stata radicalmente modificata. La norma, infatti, è volta non più a garantire prioritariamente il datore di lavoro, bensì a contemperare i contrapposti interessi del lavoratore e del datore di lavoro. Da una parte, infatti, ci sono  gli interessi dei primi a vedersi tutelati la loro professionalità, e ciò in armonia con alcuni principi costituzionali: il combinato disposto degli artt. 4 e 35 Cost. delinea una tutela del lavoro inteso non solo come fonte di sostentamento, ma soprattutto come strumento che garantisce la dignità e la personalità del lavoratore. Dunque una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2103 c.c. ci permette di cogliere più nel profondo il significato di quest’articolo:il diritto alla mansione convenuta al momento dell’assunzione ovvero a mansioni compatibili con la qualifica e la categoria di appartenenza consente di apprestare una più efficace e pregnante tutela del patrimonio professionale del lavoratore e gli consente di esplicare al meglio la propria personalità.

Dall’altra parte, il legislatore ha tenuto in considerazione anche gli interessi dell’impresa.  Viene qui posto l’accento sull’interesse dell’imprenditore, ex art. 41 Cost., ad un impiego elastico e duttile delle prestazioni lavorativa in funzione dell’organizzazione produttiva.

Si è detto che la disposizione dell’art. 2103 c.c. disciplina anche l’equivalenza delle mansioni.Le nuove vanno raffrontate con quelle “definitive” ed effettive che il lavoratore ha ricoperto per ultimo: il raffronto, al fine di valutarne l’equivalenza,va fatto con le mansioni assegnate al momento dell’assunzione, le mansioni effettive, qualora non coincidano con quelle assegnante e, variante di quest’ultima ipotesi,   quelle corrispondenti alla categoria superiore nel frattempo acquisite dal dipendente.Nel momento dell’assunzione le parti (lavoratore e datore di lavoro), in base al principio della contrattualità delle mansioni, concordano i compiti che il prestatore di lavoro dovrà concretamente svolgere nel prosieguo del rapporto (inoltre, strettamente connessa con la mansione concordata, l’art. 96 delle disposizioni attuative del codice civile prevede l’obbligo per il datore di lavoro di far conoscere al prestatore di lavoro al momento dell’assunzione anche la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate). Questa operazione riveste un notevole rilievo ai fine dello jusvariandi in quanto, come testè detto, uno dei possibili parametri per definire l’equivalenza delle mansioni è proprio la mansione di assunzione. Tuttavia, talvolta l’individuazione del contenuto delle suddette mansione può apparire problematica, ciò in considerazione del fatto che nella contrattazione le parti potrebbero non definirla con dovuta precisione oppure essere ambigui. In tali casi è necessario fare riferimento alle figure professionali previste espressamente nella contrattazione collettiva. Non va esclusa la possibilità che vi possa essere una qualche discrepanza tra ciò che le parti concordano astrattamente e le mansioni concrete che il dipendente è chiamato a svolgere nell’ambito dell’organizzazione aziendale.  In questo caso la giurisprudenza fa riferimento al principio di effettività in virtù del quale per l’individuazione dell’esatto inquadramento del lavoratore si fa riferimento a dati empirici, ossia alle mansioni da questo effettivamente svolte, anche quando tale mansioni, ove superiori, non abbiano ottenuto il formale riconoscimento di una categoria o qualifica superiore. Anche in queste ipotesi il giudizio di equivalenza dovrà essere svolto attraverso l’esclusivo riferimento alle mansioni ultime effettivamente svolte,purché in modo stabile e continuativo.

Una volta definiti i termini di raffronto tra nuove e vecchie mansioni, è rilevante soffermarsi sul concetto di equivalenza contenuto nella disposizione di cui si discetta. Esso si presta a numerosi dubbi esegetici in quanto la norma contiene una nozione aperta (quale quella di mansioni equivalenti), non definita dalla stessa disposizione. Le questioni emerse sono sostanzialmente due. In primo luogo ci si è chiesti se fosse sufficiente un concetto di equivalenza formale, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva e non sindacabile dal giudice  o se quest’ultimo, invece, dovesse indirizzarsi soprattutto su un’analisi in concreto,avendo una considerazione relativa dell’inquadramento formale. La seconda questione ermeneutica verte sul concetto stesso di equivalenza, ci si è interrogati se la nuova mansione, per essere considerata equivalente, debba ancorarsi al patrimonio già acquisito, consentendone eventualmente un accrescimento professione oppure se la nuova mansione, salva sempre l’equivalenza di valore professionale, possa essere meno legata alla precedente esperienza lavorativa e alla relativa professionalità maturata.

Sulla prima questione la giurisprudenza è unanime nel ritenere che l’equivalenza formale (equivalenza di inquadramento basata sull’autonomia collettiva) è soccombente rispetto a quella  sostanziale. L’idea che la contrattazione collettiva sia idonea ad adattare il concetto di equivalenza alle specificità dell’organizzazione del lavoro è un’idea che non trova riscontri nella giurisprudenza più recente. Nonostante la dottrina abbia consigliato una maggiore attenzione per le valutazioni operate in ambito negoziale, le quali rappresentano una ragionata sintesi tra le esigenze dei nuovi modelli produttivi e gli interessi dei lavoratori, la giurisprudenza che si accontentava del solo requisito formale è stata superata e gli ultimi orientamenti in tal senso risalgono a metà degli anni 80 (Cass. 301/1985; 5098/85). Di recente le Sezioni Unite della Cassazione (25033/2006)hanno avallato la legittimità della scelta dell’autonomia collettiva (il caso specifico riguardava il contratto collettivo delle poste),statuendo che attraverso le clausole del contratto collettivo si può“ legittimare una fungibilità funzionale tra mansioni diverse al fine di sopperire a contingenti esigenze aziendali”. Tuttavia l’apertura della Suprema Corte è circoscritta all’esistenza di precarie e irripetibili esigenze aziendali di riconversioni produttive. Infatti, come testé affermato, il costante orientamento dell’ultima giurisprudenza è nel senso di conferire assoluta preminenza all’aspetto sostanziale rispetto a quello formale.In tal senso il Supremo Collegio ha affermato: “Se ben può la disciplina collettiva prevedere il reinquadramento in una nuova unica qualifica di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con conseguente parificazione del trattamento economico e normativo riferibile alla nuova qualifica, ciò non implica necessariamente che insorga anche un rapporto di equivalenza tra tutte le mansioni rientranti nella qualifica. L’inderogabilità della disciplina legale si atteggia, infatti, anche a limite per la contrattazione collettiva, sicché l’eventuale accorpamento, da parte della contrattazione collettiva, in un’unica categoria (qualifica o area) di plurime mansioni, anche di diversa professionalità e livello, rende sì applicabile alle stesse la medesima disciplina collettiva che a tale categoria faccia riferimento, ma non è di ostacolo alla operatività della disciplina legale di carattere inderogabile dell’art. 2103, primo comma c.c., che preclude la previsione di una indiscriminata fungibilità delle mansioni, per il sol fatto di tale accorpamento convenzionale. Anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva opera la garanzia dell’art. 2103 c.c. e, pertanto, il lavoratore addetto a determinate mansioni non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella medesima qualifica professionale. E ferma restando la possibilità per la contrattazione collettiva di individuare meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale, prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale fra le mansioni per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati nella qualifica” (Cass. 10 dicembre 2009, n. 25897).

In senso conforme cfr. Cass. n. 7351/2005; Cass. 8 ottobre 2007, n. 21025; Cass. 8 giugno 2009, n. 13173; Cass. 17 giugno 2009, n.2593; Cass. 11 novembre 2009, n. 23877; Cass. 31 maggio 2010, n. 13281; Cass. 14 giugno 2013, n. 15010.

Il principio di diritto sopra esposto non si applica al pubblico impiego, nel cui ambito vige tuttora un criterio di equivalenza non affidato all’interpretazione giudiziale, ma ad una valutazione delle parti in sede di contrattazione collettiva.In materia di pubblico impiego privatizzato,infatti, l’art. 52, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001,“che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente (pubblico) è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito – attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell’organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse – un concetto di equivalenza “formale”, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice” (Cass. 21 maggio 2009, n. 11835). Ciò dovrebbe consentire di avere un quadro della situazione dai contorni più certi.

Il punto più critico dell’art. 2103 c.c.  riguarda il concetto di equivalenza sostanziale delle mansioni. Diviene, infatti, di grande importanza stabilire quale sia il criterio in base al quale sia possibile conferire al prestatore di lavoro mansioni diverse, rispettando il livello di inquadramento assegnato o successivamente acquisito, così come disposto dalla norma.

Gli orientamenti della giurisprudenza sul punto sono discordanti: il primo (maggioritario) interpreta l’art. 2103 c.c. in modo statico; il secondo (minoritario) propende per un concetto più dinamico.

La giurisprudenza che ha sposato il primo orientamento richiede che le nuove mansioni consentano un impiego pressoché integrale del patrimonio professionale utilizzato in precedenza, richiedendo a tal fine l’omogeneità tra le mansioni pregresse e quelle successivamente assegnate. Ciò, per conseguenza, restringe fortemente lo jusvariandi datoriale.

Il consolidato indirizzo giurisprudenziale “statico” è sintetizzato in alcune massime:

“Le nuove mansioni possono considerarsi equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anzi di arricchire, il patrimonio professionale acquisito con lo svolgimento della precedente attività lavorativa, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze” (Cass. Sez. lav., 30 luglio 2004, n. 14666).

“L’equivalenza tra le nuovi mansioni e quelle precedenti – che legittima l’esercizio dello jusvariandi del datore di lavoro, a norma dell’art. 2103 c.c. – deve essere intesa non solo come identità di valore professionale e di inquadramento contrattuale, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto; in assenza di tali requisiti il mutamento di mansioni è illegittimo essendo irrilevante che detto mutamento – quand’anche contestuale a un trasferimento – sia determinato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” (Cass., Sez. lav., 26 luglio 2006, n. 17022).

“La Corte territoriale non si è discostata dagli indicati principi mettendo a raffronto l’attività svolta da C. prima del provvedimento (…) con quella successiva (…) pervenendo alla conclusione della concreta dequalificazione, sul piano fattuale, del predetto lavoratore in violazione del disposto dell’art. 2103 c.c., sotto il profilo che lo svolgimento di attività semplici e meramente ripetitive determinasse l’impossibilità per il dipendente di utilizzare le pregresse capacità professionali ed, eventualmente, di accrescerle, ma anzi importasse necessariamente la progressiva perdita delle capacità già acquisite nei precedenti incarichi” (Cass., Sez. lav., 14 giugno 2013, n. 15010).

Tale lettura, fortemente riduttiva, impedisce di adibire il lavoratore a mansioni diverse che, pur essendo equivalenti dal punto di vista professionale, tuttavia richiedono un bagaglio di conoscenze e professionalità non omogenee a quelle già possedute dal prestatore di lavoro.

L’orientamento dinamico, invece, è sostenuto dalla maggioranza della dottrina e, a partire dagli anni ‘80, da una parte minoritaria della giurisprudenza. La logica giuridica che permea questo filone trova fondamento nell’idea evolutiva del concetto di professionalità da tutelare, la quale non è concepita come un elemento acquisito una volta per tutte, ma basata su una capacità professionale potenziale del lavoratore. Si accetta anche che quest’ultimo sia adibito a mansioni completamente diverse, pur senza mutamento di livello. Ci si basa, infatti, su una nozione più elastica di equivalenza, incentrata sul «saper fare» e sul «poter fare» piuttosto che sull’assoluta continuità con quanto si è fatto e si è dimostrato di essere capaci di fare. Con ciò ridimensionandosi il ruolo della professionalità acquisita e valorizzandosi invece la capacità professionale potenziale del lavoratore.

Emblematica a tal riguardo la statuizione della Suprema Corte legittimità che fornisce il seguente principio di diritto: “ Costituisce, invero, principio ormai acquisito che possano legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità d’inquadramento, mansioni anche del tutto nuove e diverse, purchè affini alle precedenti dal punto di vista del contenuto professionale. L’esistenza, per così dire, di un “minimo comune denominatore” di conoscenze teoriche e capacità pratiche è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta. Anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore d’incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto” (Cass., Sez. lav., 02 maggio 2006, n. 10091).  E ancora:” Se è vero che le nuove mansioni affidate al dipendente debbono essere coerenti con la specifica competenza da lui maturata, ciò non significa che il lavoratore che abbia acquisito una esperienza nell’ambito di un determinato settore dell’azienda non possa mai essere trasferito ad altro settore nell’ambito del quale egli venga chiamato ad affrontare problemi diversi o a dover soggiacere ad una organizzazione del lavoro concepita con modalità diverse rispetto a quelle afferenti la precedente mansione: ciò che importa, nel rispetto della tutela delineata dall’art. 2103 c.c., è che, attraverso l’affidamento di compiti nuovi, del tutto estranei rispetto all’attività precedentemente svolta ed alle cognizioni tecniche già acquisite, non venga del tutto disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato dal dipendente, compromettendo altresì irrimediabilmente le sue prospettive di carriera all’interno dell’impresa cui appartiene. In sostanza, il rispetto della professionalità del lavoratore subordinato – cui tende l’art. 2103 c.c. nel porre limiti allo iusvariandi del datore di lavoro – non si traduce necessariamente nella continuazione delle medesime operazioni lavorative effettuate in precedenza, potendosi esso esprimere anche in tutti i casi in cui, pur nel contesto di una diversa attività lavorativa, l’esperienza professionale ivi maturata possa ritenersi utile alfine del miglior espletamento della prestazione richiesta. In tale ipotesi, infatti, il quadro complessivo delle attitudini professionali del lavoratore non viene ristretto, ma al contrario viene ampliato, potendo il lavoratore, già forte dell’esperienza acquisita, arricchire il proprio bagaglio professionale attraverso l’effettuazione di una esperienza nuova a lui affidata proprio in considerazione della consapevolezza dei problemi che egli ha già affrontato nel corso della pregressa attività” (Cass., Sez. lav., 02 maggio 2006, n. 10091).

 

Angelo Buscaglia
Avvocato in Pisa

Buscaglia Angelo

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