Eluana vorrebbe morire. Di fame e di sete?

Fusco Mauro 24/07/08
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La Corte di Appello di Milano autorizza la sospensione dell’alimentazione e idratazione della giovane di Lecco da sedici anni in stato vegetativo permanente
 
            Sessantadue pagine di decreto, tre autonomi procedimenti, due pronunzie di Cassazione, nove anni di contenzioso. Bastano soltanto i numeri del travagliato iter processuale che vede come protagonista Eluana Englaro, la giovane di Lecco da oltre16 anni in stato vegetativo permanente, per avere idea della complessità di una vicenda che ha visto la tragicità del caso umano confrontarsi  con l’ormai cronica insufficienza dell’ordinamento italiano sui temi di bioetica.
            L’ultima, e si spera non solo in senso cronologico, pronunzia, è stata resa dalla Corte di Appello di Milano con decreto depositato lo scorso 9 luglio (Presidente Patrone, Estensore Lamanna) che, accogliendo l’istanza di Beppino Englaro, padre e tutore di Eluana, supportata anche dalla curatrice speciale, Avv. Franco Alessio, ha concesso l’«autorizzazione a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest’ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico». Il decreto, che costituisce uno storico, seppur atteso, cambiamento di orientamento della corte milanese, presenta numerosissimi spunti non solo per quanto concerne la situazione peculiare dei pazienti in stato vegetativo permanente, ma anche in relazione alla disciplina giuridica delle tematiche di fine vita in generale. Prima di passare tuttavia all’esame dei principali punti del decreto in questione è bene riassumere, seppure in breve, la triste e tormentata vicenda, umana e processuale di Eluana Englaro.
 
Una vita spezzata
 
 Aveva soltanto ventun anni Eluana Englaro quando, il 18 gennaio 1992, rimase coinvolta in un incidente stradale nel quale riportava un trauma cranico-encefalico con lesione di alcuni tessuti cerebrali corticali e subcorticali, che la fece sprofondare prima in coma e poi in uno stato vegetativo con tetraparesi spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore. Da allora Eluana è priva di ogni funzione percettiva e cognitiva nonché della capacità di avere contatti con l’ambiente esterno: respira, apre e chiude gli occhi, ha riflessi del tronco e spinali ma senza alcuna risposta comportamentale riproducibile, finalistica o volontaria a stimoli visivi, uditivi, tattili o dolorifici. Può sopravvivere soltanto grazie ad un sondino naso-gastrico che l’alimenta e l’idrata ed all’assistenza infiermeristica costante accanto a lei. Nonostante la completa ed irreversibile perdita della capacità percettiva e di quella cognitiva, il cervello di Eluana conserva però alcune delle proprie funzioni, motivo per cui, secondo la definizione convenzionale comunemente accertata in campo medico di morte cerebrale (recepita dall’ordinamento italiano dalla Legge 29.12.1993 n. 578 in base alla quale “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”), Eluana è sicuramente tuttora viva dal punto di vista medico-legale.
 Tuttavia, come acutamente fatto notare dai giudici di Cassazione nell’ultima pronunzia sul caso di Eluana, ovvero la sentenza n. 21748 del 16.10.07, la sua vita biografica si è irrimediabilmente interrotta da oltre sedici anni e la sua vita biologica, almeno secondo quanto afferma la scienza medica, è condannata a restare indefinitamente e irrimediabilmente priva della percezione del mondo esterno, di qualsiasi funzione “superiore” o di qualsivoglia attività fisica. Il notevole lasso di tempo trascorso senza alcun miglioramento apprezzabile non lascia infatti alcun dubbio sull’irreversibilità di tale stato o sulla correttezza della diagnosi di stato vegetativo permanente. Eluana è pertanto sicuramente viva, almeno finché continuerà ad essere alimentata ed idratata artificialmente, ma la sua vita biografica, ovvero quella fatta di pensieri, sensazioni, stimoli e percezioni di sé e del mondo esterno, si è spezzata nel lontano 1992.
 
I punti nodali della questione
 
            In questa sede non è possibile, per ovvi motivi di spazio, analizzare le varie posizioni di natura etica e morale in relazione all’evanescente confine tra accanimento terapeutico, eutanasia e legittimo rifiuto di cure o sull’insoluta, e forse irrisolvibile, questione sul difficile conflitto tra diritto alla vita e diritto ad una morte dignitosa. Ci si limiterà pertanto unicamente ad esaminare le questioni, di natura strettamente giuridica, che sono state poste a fondamento del decreto che ha autorizzato la sospensione dell’alimentazione per Eluana, onde comprendere le ragioni di una decisione che, ove non riformata in un probabile ulteriore giudizio di Cassazione, è destinata ad entrare, seppur fra mille polemiche, nella storia.
            In primo luogo va sicuramente osservato che il decreto di Corte di Appello riprende pedissequamente, e del resto non poteva essere altrimenti, quanto stabilito dalla già citata pronunzia di Cassazione n. 21748/07, nella quale erano già stati evidenziati i due presupposti fondamentali per poter ammettere la sospensione dei trattamento di sostegno vitale che tengono attualmente in vita Eluana, ovvero: “(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.
            Corollario, non meno indispensabile, delle due condizioni (e conseguentemente delle due tipologie di accertamento) sopra riportate vi è altresì la qualificazione della nutrizione/idratazione artificiale come cura/trattamento sanitario ed, eventualmente, come accanimento terapeutico nonché la legittimazione del tutore dell’incapace a richiedere la sospensione dello stesso.
            Tali questioni, emerse a più riprese nelle molteplici, spesso contraddittorie, a volte evasive pronunzie di merito e di legittimità emanate sul caso Englaro, sono state analiticamente riprese dalla Corte di Appello nel decreto che vale senza dubbio la pena ripercorrere nelle sue parti salienti.
 
Lo stato vegetativo di Eluana come condizione permanente ed irreversibile
 
            La prima, e sicuramente anche la meno discussa, problematica relativa alla vicenda della giovane lecchese attiene senza ombra di dubbio all’accertamento/qualificazione dell’irreversibilità della condizione in cui la stessa versa. A riguardo, pur non volendo considerare che tale accertamento, già oggetto di un precedente reclamo, fosse ormai “coperto” da giudicato interno, è sicuramente indiscutibile che, alla luce delle attuali conoscenze acquisite dalla scienza medica non vi sia, nel caso di Eluana, alcuna possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza o di ritorno ad una percezione del mondo esterno. Secondo la letteratura medico-scientifica internazionale richiamata anche dai giudici milanesi, lo stato vegetativo di origine traumatica può invero qualificarsi come permanente e irreversibile dopo un tempo di dodici mesi dall’evento che lo ha cagionato, senza che in tale periodo non si siano riscontrati eventuali miglioramenti. Nel caso di Eluana, il tempo trascorso dall’ormai lontano 18 gennaio 1992 nel corso del quale non si è avuto alcun miglioramento nella vita cognitiva della giovane, lascia ben pochi dubbi sull’irreversibilità di tale condizione e, di conseguenza, in ordine alla sussistenza del primo presupposto individuato dalla Corte di Cassazione per l’eventuale ordine di sospensione del trattamento.
 
La sospensione del trattamento di alimentazione ed idratazione artificiale
 
            Prima di verificare la sussistenza del secondo presupposto, individuato dai giudici di Cassazione per legittimare l’interruzione dell’alimentazione/idratazione artificiale, i giudici della Corte di Appello di Milano si sono soffermati su alcune questioni inerenti alla natura stessa di tale pratica e la possibilità di richiederne legittimamente la sospensione. A riguardo i giudici di secondo grado, così come quelli di legittimità hanno nuovamente ribadito che “l’alimentazione/idratazione artificiale con sondino naso-gastrico sia un trattamento di natura medica” sebbene non sia ravvisabile nello stesso “una forma di accanimento terapeutico in sé”. La questione è di non poco conto laddove è chiaro che soltanto la configurazione di tale pratica come terapia/trattamento di natura medica può consentire di applicare quell’orientamento, ancora non esplicitamente riconosciuto dal nostro ordinamento ma fondato sul combinato disposto degli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, che consente di sospendere le cure, ancorché salva-vita, qualora venga meno consenso del paziente. In proposito si precisa che, in caso di stato vegetativo permanente, “il trattamento di sostegno alimentare forzato non può che autolegittimarsi sempre, nell’immediatezza, anche in mancanza di esplicito consenso, e non solo per un elementare principio di precauzione, ma ancor prima per il suo carattere di cura medica doverosa sin dall’inizio, in quanto finalizzata al rispetto del diritto alla vita del malato incapace”. Tuttavia, viene affermato che tale trattamento, qualora erogato ad un soggetto in condizioni di riceverlo senza particolare difficoltà o intolleranza fisica (precisazione di non poco conto), potrà, in un momento successivo, essere eventualmente e motivatamente fatto interrompere su istanza del tutore, qualora si riscontri la sua contrarietà alla dignità o al migliore interesse del paziente.
Come è facilmente comprensibile, il passaggio successivo, relativo alla delicata tematica della legittimazione a prestare il consenso (rectius il dissenso) all’applicazione di tali cure per conto dell’incapace presenta aspetti di non facile risoluzione. Ne è una evidente testimonianza  l’ordinanza n. 8291 del 20 aprile 2005 con cui era stato dichiarato inammissibile un precedente ricorso presentato dal padre di Eluana per la mancata nomina di un curatore speciale che garantisse l’assenza di conflitto di interesse tra rappresentante e rappresentato. In proposito i giudici di appello hanno affermato l’interessante principio in base al quale “la possibilità di considerare legittima una richiesta del tutore volta all’interruzione del trattamento di sostegno vitale non può essere poi esclusa (nemmeno ora che una disciplina legislativa specifica non è stata ancora emanata su tale problematica) neppure nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire una volontà presunta dell’incapace orientata al rifiuto del trattamento”. Il principio enunciato, che va anche oltre i limiti dettati dalla precedente sentenza di Cassazione, trova la sua legittimazione nell’assunto, sicuramente innovativo secondo cui “il tutore possa adire l’Autorità Giudiziaria quando, pur non essendo in grado di ricostruire il pregresso quadro personologico del rappresentato incapace che si trovi in Stato Vegetativo Permanente, comunque ritenga, e riesca a dimostrare che, il (diverso) trattamento medico in concreto erogato sia oggettivamente contrario alla dignità di qualunque uomo e quindi anche di qualunque malato incapace, o che sia aliunde non proporzionato, e come tale una forma di non consentito accanimento terapeutico, e quindi un trattamento in ogni caso contrario al “best interest” del rappresentato, quale criterio, quest’ultimo, da utilizzare come dirimente fattore diacritico in via surrogatoria per una decisione di interruzione del trattamento”.
 
Cosa avrebbe voluto Eluana?
 
            Come è facilmente intuibile, la seconda parte del decreto è chiaramente finalizzata alla ricostruzione della “volontà presunta” di Eluana, orientata al rifiuto del trattamento di sostegno vitale. Così come richiesto dai giudici di legittimità, compito della Corte milanese era principalmente quello di ricostruire la personalità della ragazza nonché “il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive”. A tal proposito, accanto alle indicazioni del padre, Beppino Englaro, in merito alla personalità “indipendente” di Eluana, suffragate dall’analoga versione data dalla curatrice speciale (nominata al fine di verificare che la scelta del tutore “non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita del rappresentante di Eluana, anziché di quest’ultima, e che non sia stata in alcun modo condizionata da altro fine o interesse se non quello di rispettare la sua volontà ed il suo modo di concepire dignità e vita”), numerosi sono i riferimenti a testimonianze di amici e conoscenti della giovane, ritenuti incompatibili con il protrarsi della situazione in cui Eluana versa da oltre sedici anni. Sicuramente significative sono in proposito le testimonianze relative al giudizio della giovane su alcuni amici coinvolti in gravi incidenti stradali, testimonianza della “inconciliabilità tra il carattere e le intime convinzioni di Eluana da un lato, e uno stato di costrizione dovuta all’incapacità di sentire, pensare, comunicare ed agire”. Inevitabile è stata pertanto la constatazione della conformità del “best interest” della giovane, ricostruito, in mancanza di testamento biologico, in base ad una sorta di “interpretazione autentica” della sua volontà, alla richiesta del tutore secondo il quale sarebbe stato “inconcepibile subire non solo un trattamento invasivo finalizzato a tenerla artificialmente in vita in condizioni di totale soggezione all’altrui volontà, di necessità tali da implicare un’ inevitabile esposizione allo sguardo e alla manipolazione da parte di altri soggetti, ma più in generale restare immobilizzata a letto come un “oggetto”, indefinitivamente privata della possibilità di vivere pienamente la sua vita, stato per definizione incomponibile con la sua concezione di dignità individuale, le condizioni di sopravvivenza meramente biologica non potendo considerarsi “degne di lei”, per come lei stessa concepiva la dignità e una vita dignitosa”.
            Nella ricostruzione di tale volontà venivano ritenute non determinanti la “formazione religiosa” e la “impostazione conforme a quella della religione cattolica” sostenute nel parere del Pubblico Ministero, evidentemente più orientate ad una difesa di principio della vita che al reale accertamento della personalità e volontà della giovane. E’ in questo evidente, al di là del dato processuale, la contrapposizione tra le due diverse impostazioni ideologiche ed etiche che spesso si trovano in conflitto sui temi di bioetica, ovvero da un lato la tutela dell’autonomia e della volontà del singolo e, dall’altro lato, la difesa ad oltranza della Vita, con l’iniziale maiuscola, anche laddove la stessa si manifesti priva di ogni coscienza o consapevolezza di sé come nel caso dei pazienti in stato vegetativo permanente.
 
Conclusioni?
 
            Se ci si volesse fermare al dispositivo del decreto reso dalla Corte di Appello di Milano, ci sarebbe poco altro da dire se non che Beppe Englaro è autorizzato a “disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest’ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico” unitamente alla “sospensione dell’erogazione di presidi medici collaterali (antibiotici o antinfiammatori, ecc.) o di altre procedure di assistenza strumentale” che dovrà avvenire in hospice o altro luogo di ricovero confacente. Tra le “modalità” di interruzione del trattamento indicate dai giudici vi è la “ perdurante somministrazione di quei soli presidi già attualmente utilizzati atti a prevenire o eliminare reazioni neuromuscolari paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio funzionale a tale scopo, comunque con modalità tali da garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad es. anche con umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell’igiene del corpo e dell’abbigliamento, ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento, e in modo da rendere sempre possibili le visite, la presenza e l’assistenza, almeno, dei suoi più stretti familiari”. Tali “modalità”, di ispirazione evidentemente pietistica, possono mascherare soltanto al lettore superficiale la cruda realtà dei fatti, ovvero che Eluana, una volta interrotta la terapia di sostegno vitale, morirà lentamente di fame e sete. Differentemente da quanto riportato da molti media in questi giorni, nel caso di Eluana non c’è nessuna spina, nessun respiratore da staccare come nell’altrettanto discusso caso di Piergiorgo Welby, ammalato di distrofia muscolare progressiva all’ultimo stadio, staccato dalle macchine il 20 dicembre 2006. Come molti altri casi di stato vegetativo permanente, Eluana respira infatti da sola, il suo cuore batte autonomamente, i suoi reni funzionano, sebbene, non sia in grado di alimentarsi e non abbia il controllo degli sfinteri. Nel suo caso l’espressione, per molti versi ipocrita, “lasciare che la natura faccia il suo corso” significa che il suo corpo impiegherà diversi giorni per morire di inedia, così come accaduto per Terry Schiavo, giovane donna americana in stato vegetativo permanente, deceduta il 31 marzo 2005 dopo 13 giorni dall’interruzione dell’alimentazione artificiale ottenuta al termine di un’aspra battaglia legale.
            L’alternativa sarebbe ovviamente consentire la somministrazione di farmaci idonei ad accelerare l’inevitabile processo di morte con un vero e proprio, seppur pietoso, atto di eutanasia attiva, inevitabilmente configurabile come omicidio o, al più, omicidio del consenziente. E’appena il caso di osservare che se la giurisprudenza italiana sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo, attesi i repentini cambiamenti di orientamento tristemente noti a chi ha seguito la vicenda) ormai orientata ad accettare il principio della sospensione dei trattamenti in presenza del dissenso del paziente (o del suo tutore), è quantomeno indiscutibile che nessun giudice potrebbe nel nostro paese arrivare ad ordinare, o quantomeno scriminare, un’eventuale accelerazione di quel processo di morte che il decreto del 9 luglio scorso ha, di fatto, autorizzato. Ancora una volta, come per il caso Welby, emerge in tutta la sua gravità la cronica, e ormai quasi irrimediabile, lacunosità del sistema italiano sulle più scottanti questioni di bioetica, con l’incapacità del parlamento di legiferare in materia (basti pensare al mancato riconoscimento giuridico del testamento biologico o delle coppie di fatto nella passata legislatura) e l’immancabile e molto spesso disorganico intervento di soluzioni “tampone” create dalla giurisprudenza per sopperire al perdurante vuoto normativo.
            Alla luce di quanto fin qui esposto, appare in ogni caso prevedibile che, a meno che la famiglia non decida di attendere l’eventuale impugnativa del decreto in Cassazione o che venga sollevato l’improbabile quanto inusitato difetto di attribuzione da parte del Parlamento nei confronti della Corte di Cassazione paventato in questi giorni, Eluana avrà lo stesso triste destino di Terry Schiavo, accompagnato, come nel caso della giovane americana, dalle polemiche feroci che hanno fatto seguito al decreto del 9 luglio, con cui i giudici hanno definitivamente accertato che Eluana vorrebbe morire, ma sicuramente non di fame e di sete.
 
Mauro Fusco
Avvocato e Dottore di ricerca in bioetica

Fusco Mauro

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