Effetti delle misure di prevenzione. Illegittimità art. 67 del Codice antimafia

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Il fatto

Veniva proposto ricorso per l’annullamento, previa sospensione cautelare, del provvedimento del prefetto di Udine, con cui è stata comunicata alla locale Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura la sussistenza delle cause di divieto, sospensione o decadenza di cui all’art. 67 cod. antimafia, automaticamente ostative al conseguimento o al mantenimento di una serie di licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni per lo svolgimento di attività professionali o imprenditoriali.

Tale provvedimento, in particolare, era stato adottato a seguito della condanna – divenuta irrevocabile – per il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen., per aver il ricorrente posto in essere artifizi e raggiri al fine di conseguire fondi europei dell’importo di euro 42.000,00, facendo risultare lavori di ristrutturazione di un immobile per finalità di commercializzazione dell’acquacoltura regionale, in luogo della vera natura degli interventi, funzionali alla ristrutturazione di un immobile a uso abitativo nell’interesse dell’imputato e del suo nucleo familiare.

Tra le ragioni d’illegittimità del provvedimento impugnato, il ricorrente lamentava, appunto, la violazione e falsa applicazione di legge per illegittimità costituzionale dell’art. 67 cod. antimafia, in virtù dell’inserimento del delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche tra i reati che implicano l’emanazione dell’interdittiva antimafia.

Il giudice a quo, a sua volta, con ordinanza, rigettava l’istanza cautelare ma tale decisione era stata riformata dal Consiglio di Stato, sezione terza, ritenendosi necessario un ulteriore approfondimento, in sede di merito, proprio in relazione alla prospettata illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

In sede di merito, il rimettente aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, cod. antimafia, laddove si prevede che gli effetti automaticamente interdittivi all’ottenimento dei vari provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali conseguano anche per la condanna per il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen.; in particolare, il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia, sezione prima, con ordinanza del 26 maggio 2020 (reg. ord. n. 120 del 2020), aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, 27, 38 e 41 della Costituzione – anche in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 1, lettera d), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132, che modifica l’art. 67, comma 8, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136).

L’art. 67, comma 8, cod. antimafia, difatti, prevede che le misure interdittive di cui ai commi 1, 2 e 4 del medesimo articolo si applicano «anche nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello, per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale» e, in virtù della novella di cui al d.l. n. 113 del 2018, come convertito, per i reati previsti dagli artt. 640, secondo comma, numero 1), del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e 640-bis cod. pen..

A fronte di ciò, l’intervento del legislatore era censurato nella parte in cui era stato inserito, tra i delitti per i quali la condanna determina i suddetti effetti interdittivi, anche quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’art. 640-bis cod. pen..

Più nel dettaglio, in punto di rilevanza, il TAR Friuli-Venezia Giulia evidenziava come il tenore letterale della disposizione censurata avrebbe implicato necessariamente la reiezione del ricorso avendo il ricorrente riportato una condanna per il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche posto che, per come formulata, la disposizione de qua non lascerebbe alcuno spazio a un’eventuale interpretazione costituzionalmente orientata, neanche nel senso di escluderne l’applicazione retroattiva e questo perché l’interdittiva antimafia, in quanto priva del carattere punitivo e assimilabile a una misura di sicurezza, sarebbe stata assoggettata al regime temporale stabilito dall’art. 200 cod. pen..

Di conseguenza, qualora la questione di legittimità fosse stata accolta, ciò avrebbe comportato l’annullamento dell’interdittiva antimafia notificata al ricorrente quale effetto automatico della condanna riportata a riprova della rilevanza della questione sollevata.

Riguardo alla non manifesta infondatezza, venivano anzitutto richiamate le argomentazioni del Consiglio di Stato che, esprimendosi in sede di appello cautelare, aveva messo in luce come debba necessariamente verificarsi se la previsione di un effetto interdittivo automatico, conseguente a determinate condanne penali, persegua la finalità di completare il trattamento sanzionatorio o, invece, si colleghi all’interesse pubblico del contrasto alle organizzazioni mafiose.

Orbene, sulla base di ciò, il giudice a quo riteneva che siffatto effetto interdittivo avrebbe potuto effettivamente risultare irragionevolmente sproporzionato rispetto alla finalità preventiva perseguita dal legislatore, giacché la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche sarebbe una fattispecie priva di natura associativa, punita con sanzioni molto inferiori a quelle previste per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. e non necessariamente correlata ad attività della criminalità organizzata.

In particolare, la norma eccederebbe rispetto al suo scopo di contrastare, con misure di carattere preventivo, il dilagare della criminalità organizzata nel tessuto socio-economico, che costituisce il fine delle misure interdittive (è richiamata Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 24 aprile 2020, n. 2651) mentre, al più, dalla commissione di una truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, si potrebbe desumere la sussistenza di elementi di contiguità con il fenomeno mafioso, ma non in automatico, bensì guardando allo specifico caso concreto ed effettuando una diffusa valutazione di carattere necessariamente discrezionale.

L’automatismo previsto dal legislatore, invece, in quanto non direttamente e immediatamente correlato all’interesse pubblico generale, secondo il giudice rimettente, sarebbe stato una misura fortemente limitativa della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., stante l’impossibilità di svolgere una qualsivoglia attività lavorativa, professionale o economica soggetta a provvedimenti di natura autorizzatoria, concessoria o abilitativa, né alcun elemento utile avrebbe potuto desumersi dai lavori preparatori alla legge di conversione del d.l. n. 113 del 2018, se non che la fattispecie delittuosa in esame sia, nella prassi, una delle più frequentemente poste in essere per ottenere il controllo illecito degli appalti.

Quanto affermato, inoltre, sarebbe emerso e in particolare nel caso di specie, ove, pur non essendo stata dimostrata alcuna effettiva correlazione con il fenomeno mafioso, il ricorrente aveva visto precludersi interamente la possibilità di svolgere attività imprenditoriale.

Oltre a ciò, veniva altresì fatto presente che l’affiancamento dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 640-bis cod. pen. a quelle previste dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., inoltre, si sarebbe tradotto in un sostanziale inasprimento del regime sanzionatorio per il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, senza che – per di più – sia possibile un’equa valutazione giudiziale del caso concreto.

Tale natura sostanzialmente punitiva della misura in esame avrebbe reso la disposizione censurata incompatibile con i principi di cui agli artt. 25 e 27 Cost. (anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU), in particolare laddove, come nel caso di specie, gli effetti pregiudizievoli venivano fatti derivare anche da sentenze pronunciate antecedentemente all’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, come convertito.

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Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che venisse dichiarata l’inammissibilità o comunque l’infondatezza delle questioni sollevate.

In primo luogo, l’Avvocatura generale dello Stato osservava come l’impostazione del giudice a quo – secondo cui l’effetto ostativo automatico previsto dalla disposizione oggetto di censura celerebbe una finalità punitiva e non preventiva – non considererebbe il fatto che il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen. rappresenterebbe una delle attività delittuose poste in essere più frequentemente per ottenere il controllo illecito degli appalti.

Più in generale, la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche avrebbe natura «lucro-genetica» risultando, nella prassi investigativa e giudiziaria, sistematicamente commessa dalle associazioni criminali per il raggiungimento dei loro scopi illegali.

Sarebbe, quindi, tale circostanza a giustificare le limitazioni alla libertà di iniziativa economica contemplate dalla disposizione censurata, volte a prevenire il condizionamento degli operatori economici a opera delle organizzazioni di stampo mafioso.

D’altronde, la ratio delle misure previste dal codice antimafia sarebbe proprio di tipo anticipatorio e indiziario, in un’ottica diversa da quella delle misure punitive e afflittive, basandosi su una valutazione prognostica, in una logica preventiva ispirata alla regola del “più probabile che non”, che consente di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa.

Tra l’altro, anche la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea avrebbe affermato come il fenomeno del contrasto all’infiltrazione della criminalità organizzata nelle procedure pubbliche costituisca un legittimo motivo di restrizione delle regole concorrenziali garantite dal diritto europeo (viene richiamata Corte EDU, sezione quinta, sentenza 26 settembre 2019, in causa C-63/18, Vitali spa).

In questo senso, la disposizione oggetto di censura, sempre per l’Avvocatura generale dello Stato, rappresenterebbe il frutto di una ponderata valutazione discrezionale rimessa al legislatore e legittimamente manifestata con l’inclusione del reato in questione tra le ipotesi delittuose sintomatiche della criminalità organizzata, in un’ottica che non sarebbe certamente sanzionatoria o afflittiva, ma squisitamente preventiva tenuto conto altresì del fatto che tali considerazioni troverebbero un ulteriore fondamento nell’art. 84, comma 4, lettera a), cod. antimafia che contempla una serie di situazioni da cui poter desumere un tentativo di infiltrazione mafiosa, idonee all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva e, tra di esse, vi è per l’appunto quella della condanna (anche non definitiva) per il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen..

Quest’ultimo, quindi, rientrerebbe tra quei reati comunemente definiti “reati spia” che contemplano condotte ritenute dal legislatore espressive di un pericolo di infiltrazione mafiosa e rispetto alle quali, con maggiore regolarità statistica, gravita il mondo della criminalità organizzata (sul punto erano richiamate le sentenze del Consiglio di Stato, sezione terza, 2 maggio 2019, n. 2855; 27 novembre 2018, n. 6707; 28 ottobre 2016, n. 4555).

Nella disposizione censurata, pertanto, non potrebbero ravvisarsi elementi di irragionevolezza o sproporzione rispetto allo scopo di contrastare il fenomeno delle organizzazioni di stampo mafioso (sul punto era richiamata la sentenza della Consulta n. 57 del 2020).

In secondo luogo, infondate sarebbero altresì le questioni sollevate in relazione agli artt. 25 e 27 Cost..

Il solo carattere automatico degli effetti interdittivi, infatti, non potrebbe incidere sulla natura della misura irrogata, trasformandola da preventiva in sanzionatoria, dovendosi escludere, quindi, anche le ulteriori censure relative all’incompatibilità con i principi che governano la successione nel tempo delle norme penali.

Le misure di prevenzione antimafia a carattere interdittivo, d’altronde, potrebbero legittimamente dare rilevo a fatti (e reati) accaduti prima dell’entrata in vigore della disciplina che le prevede, proprio in considerazione della loro funzione preventiva.

Per quanto riguarda il contrasto con gli artt. 38 e 41 Cost., l’Avvocatura generale dello Stato osservava come la normativa antimafia troverebbe la sua ratio nella necessità di bilanciare la libertà di iniziativa economica con l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine e della sicurezza e alla prevenzione di eventuali infiltrazioni mafiose nel tessuto economico e produttivo del Paese.

Anche in questi termini la disposizione censurata risulterebbe proporzionata e ragionevole.

Infine, sebbene a sostegno dell’illegittimità costituzionale il giudice rimettente avesse portato la vicenda sottesa al caso di specie, caratterizzata dalla mancanza di qualsivoglia correlazione con il fenomeno mafioso, si sarebbe dovuto necessariamente prescindere da un accertamento in concreto dei legami con le organizzazioni della criminalità organizzata atteso che la disposizione censurata sarebbe frutto di una scelta discrezionale del legislatore, che ha individuato a monte la tipologia di reati a cui riconnettere gli effetti interdittivi previsti, a prescindere dalla valutazione degli elementi caratterizzanti il singolo caso mentre, ragionando diversamente, invece, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, si svilirebbero la finalità preventiva e la logica di anticipazione della soglia di difesa sociale che permea la disciplina antimafia (venivano richiamate le sentenze del Consiglio di Stato, sezione terza, 30 gennaio 2019, n. 758; 8 marzo 2017, n. 1109; 15 dicembre 2015, n. 5678).

Ciò posto, si costituiva altresì in giudizio la parte ricorrente nel giudizio a quo sostenendo l’ammissibilità e la fondatezza delle questioni sollevate dal TAR Friuli-Venezia Giulia illustrando le proprie ragioni nella memoria presentata in prossimità dell’udienza.

Premessa una ricostruzione della vicenda fattuale, tale difesa sottolineava la rilevanza delle questioni poiché l’art. 67, comma 8, cod. antimafia sarebbe strettamente pregiudiziale al giudizio a quo (sul punto venivano richiamate le sentenze della Consulta n. 91 del 2013 e n. 184 del 2006, nonché l’ordinanza n. 5 del 2012).

Non sarebbe stato possibile, d’altronde, un’interpretazione di tale disposizione che ne escluda l’applicabilità al caso di specie, anche per la sola portata retroattiva, ostandovi l’espressa previsione normativa di un automatismo incondizionato.

Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, sempre siffatta difesa sottolineava che il codice antimafia, prima della novella del 2018, prevedeva che il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa dovesse evidenziare fatti aventi caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali il giudice amministrativo, laddove chiamato a verificare l’effettivo pericolo di infiltrazione mafiosa, posto alla base dell’informativa antimafia, potesse pervenire in via presuntiva alla conclusione ragionevole e più probabile della sussistenza del rischio di permeabilità dell’impresa e non necessariamente l’avvenuta infiltrazione, da parte di associazioni mafiose, valutate e contestualizzate tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona (venivano richiamate Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 7 ottobre 2015, n. 4657 e 9 febbraio 2017, n. 565).

In tale sistema non potrebbe trovare spazio una previsione che introduce un automatismo applicativo per le interdittive antimafia anche per reati comuni, privi di legame con l’ambiente mafioso dato che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituirebbe e non potrebbe costituire, in uno Stato di diritto democratico, un «diritto della paura» (era richiamata Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 5 settembre 2019, n. 6105).

L’inserimento dei reati di truffa aggravata tra le ipotesi di applicazione automatica delle misure interdittive sarebbe risultato, ad avviso della difesa del ricorrente, oltremodo illogico e irragionevole ove si consideri che già l’art. 84, comma 4, cod. antimafia prevede che l’autorità amministrativa possa desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa non solo da una serie di elementi fattuali tipizzati dal legislatore, ma anche da provvedimenti di condanna non definitiva per vari reati, tra i quali quello di cui all’art. 640-bis cod. pen., da valutare «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata» (art. 91, comma 6, cod. antimafia).

La sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, d’altronde, ha sottolineato l’esigenza generale di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, essenziali garanzie di tassatività sostanziale, inerenti alla precisione, alla determinatezza e, per quanto rileva in questa sede, alla prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale, che costituisce oggetto di prova, e altrettanto essenziali garanzie di tassatività processuale, attinenti alle modalità di accertamento probatorio in giudizio mentre tale garanzia verrebbe irrimediabilmente frustrata ove si consentisse l’applicazione automatica e retroattiva delle misure interdittive antimafia anche a soggetti che non hanno mai avuto contatti con l’ambiente mafioso, né sono mai stati anche soltanto sospettati di averne avuto, come avverrebbe nel caso di specie.

In proposito, sottolineava la difesa della parte come questa fosse stata condannata per vicende verificatesi addirittura negli anni 2012-2013, definite con sentenza di patteggiamento divenuta irrevocabile nel 2017, allorché il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen. non era incluso nel novero dei reati spia.

Ebbene, per la difesa del ricorrente, striderebbe, con tutti i più elementari principi in materia sanzionatoria, che una disposizione sopravvenuta nell’anno 2018 consentisse di ritenere automaticamente e inesorabilmente mafioso chi ebbe a patteggiare nel 2017 una condotta contestatagli all’epoca.

Sotto un altro profilo, il contrasto, con i principi costituzionali di ragionevolezza, proporzionalità e irretroattività, veniva ritenuta sussistente alla luce del fatto che la stessa legislazione antimafia prevede che le misure interdittive siano precedute da giudizi vertenti sull’attualità del pericolo di infiltrazione mafiosa; tanto più che il carattere dell’attualità delle risultanze delle informative prefettizie sarebbe richiesto dal legislatore, che ha determinato in termini univoci il periodo di validità dei documenti antimafia (sul punto è richiamata la sentenza della Consulta n. 57 del 2020).

La previsione dell’automatica applicazione delle misure interdittive anche alle persone che abbiano commesso, magari molti anni prima dell’entrata in vigore della novella del 2018, reati di truffa aggravata, si porrebbe in antitesi con il requisito dell’attualità che svolgerebbe, invece, un ruolo centrale in materia di misure di prevenzione.

Inoltre, non potrebbe trascurarsi che il giudice delle leggi in più occasioni ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative formulate in modo tale da non permettere al giudice o alla pubblica amministrazione di tenere conto delle particolarità del caso concreto al fine di modulare gli effetti della regola (erano richiamate le sentenze n. 24 del 2020, n. 265 del 2010, n. 253 del 2003 e n. 240 del 1997).

La particolare afflittività della misura in questione emergerebbe, poi, in considerazione del fatto che, in virtù della stessa, l’odierno ricorrente si sarebbe trovato nella condizione di vedersi decadere di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni, oltre che a essere sottoposto al divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti.

Nel caso di specie troverebbe altresì applicazione il comma 4 dell’art. 67 cod. antimafia ai sensi del quale «[i]l tribunale, salvo quanto previsto all’articolo 68, dispone che i divieti e le decadenze previsti dai commi l e 2 operino anche nei confronti di chiunque conviva con la persona sottoposta alla misura di prevenzione nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi. In tal caso i divieti sono efficaci per un periodo di cinque anni».

Gli effetti interdittivi risulterebbero così particolarmente gravosi e dannosi, soprattutto per chi svolge attività lavorative, professionali ed economiche in stretto contatto con la pubblica amministrazione, determinando un aggravio non solo della situazione patrimoniale dell’interdetto, ma anche della sua credibilità ai fini dello svolgimento di attività imprenditoriali.

Da ciò il rischio di un’indebita lesione di diritti costituzionalmente garantiti, primo fra tutti la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., gravemente pregiudicata dalle interdizioni derivanti automaticamente per la commissione di reati che nulla avrebbero a che vedere con l’ambiente mafioso.

L’avere ricompreso entro il perimetro applicativo dell’art. 67 cod. antimafia anche le condotte previste e punite dall’art. 640-bis cod. pen., dunque, sarebbe del tutto eccessivo e sproporzionato, se non proprio aberrante posto che l’ampliamento delle fattispecie incriminanti dovrebbe rappresentare un’eventualità assolutamente eccezionale, poiché l’integrazione di ulteriori delitti di minor gravità eliderebbe di fatto i principi di proporzionalità e ragionevolezza e la libertà di iniziativa economica privata.

Come sottolineato dal giudice a quo, d’altronde, esisterebbero reati molto più sintomatici delle cosiddette infiltrazioni mafiose, come ad esempio quelli di turbata libertà degli incanti (artt. 353 e seguenti cod. pen.), non inseriti però all’interno dell’art. 67, comma 8, cod. antimafia.

Inoltre, per i reati già in origine previsti da tale disposizione sono applicate pene ben più alte che per il reato in questione.

Ulteriore sintomo «dell’aberrazione normativa» censurata deriverebbe dal fatto che ai destinatari dell’informativa interdittiva antimafia ai sensi dell’art. 67, comma 8, cod. antimafia verrebbe riservato un trattamento persino deteriore rispetto a quello che il comma 5 del medesimo articolo prevede per chi sia definitivamente accertato come mafioso visto che, in tale evenienza, il giudice che ha applicato con provvedimento definitivo una misura di prevenzione potrebbe escludere le decadenze e i divieti nel caso in cui, per effetto degli stessi, venissero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.

Dovrebbe poi tenersi presente che la Corte costituzionale (era richiamata la sentenza n. 57 del 2020), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 89-bis cod. antimafia, pur dichiarando la questione non fondata, ha avuto modo di precisare che l’informazione antimafia implica una valutazione tecnico-discrezionale dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa.

Come affermato anche dalla giurisprudenza amministrativa, l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco richiede un’attenta valutazione di tali elementi che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa.

La disposizione censurata, invece, andrebbe a incidere proprio su quella necessaria prognosi di appartenenza al mondo mafioso che costituisce un’indispensabile premessa per la valida emanazione di una interdittiva.

Infine, questa difesa ricordava come il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, avesse sollevato, con motivazioni similari al caso di specie, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, cod. antimafia, nella parte in cui, rinviando all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., si riferisce anche al reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., in quanto l’automatismo legislativo non permetterebbe alla pubblica amministrazione di tenere conto delle peculiarità del caso concreto.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale

In via preliminare veniva dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 38 Cost. stante il fatto che la questione era del tutto immotivata limitandosi il giudice rimettente a evocare il parametro costituzionale senza alcuna specifica illustrazione dei motivi di censura (in tal senso, ordinanza n. 26 del 2012 e sentenza n. 356 del 2008).

Precisato ciò, nel merito venivano reputate fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost..

Si osservava a tal proposito prima di tutto che la disposizione oggetto d’esame interviene sulla disciplina della comunicazione antimafia interdittiva, provvedimento di natura cautelare e preventiva che, come sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa, determina una particolare forma d’incapacità del destinatario, in riferimento ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione (tra tutte, si richiamava Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3).

Ciò posto, veniva inoltre ricordato che, secondo la vigente legislazione, esistono due diversi documenti, la comunicazione antimafia e l’informazione antimafia.

La comunicazione antimafia, ai sensi dell’art. 84, comma 2, cod. antimafia, consiste in una attestazione circa la sussistenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui al precedente art. 67.

Tale articolo, in particolare, stabilisce che le persone alle quali sia stata applicata in via definitiva una delle misure di prevenzione previste dal codice antimafia non possono essere destinatarie di un’ampia gamma di provvedimenti di natura autorizzatoria, concessoria o abilitativa (comma 1). Così, l’applicazione di una misura di prevenzione determina la decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni, nonché il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti (comma 2).

I divieti e le decadenze, inoltre, operano (per un periodo di cinque anni) anche nei confronti di chiunque conviva con la persona sottoposta alla misura di prevenzione, nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la stessa persona sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi (comma 4).

Il rilascio della comunicazione antimafia liberatoria, invece, è immediatamente conseguente alla consultazione della banca dati nazionale unica, quando non emerge, a carico dei soggetti ivi censiti, la sussistenza delle citate cause di decadenza, sospensione o divieto (art. 88, comma 1, cod. antimafia).

La comunicazione antimafia, in conclusione, è il frutto di un’attività amministrativa vincolata, volta al mero accertamento delle cause di decadenza o divieto di cui all’art. 67 cod. antimafia.

Diverso è l’altro documento antimafia, ossia l’informazione antimafia prevista dall’art. 84, comma 3, cod. antimafia, necessaria per le pubbliche amministrazioni prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nel citato art. 67, il cui valore superi talune soglie, individuate dal successivo art. 91, comma 1.

Tale provvedimento, oltre a quanto già previsto dalla comunicazione antimafia, attesta la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o delle imprese, desumibili da una serie di elementi indicati dall’art. 84, comma 4, cod. antimafia, i quali sono oggetto di verifica da parte del prefetto.

Tra questi elementi vi sono anche taluni provvedimenti penali per determinati reati ritenuti strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, comunemente denominati “reati spia”, come, tra l’altro, le misure cautelari, il rinvio a giudizio o le condanne, anche non definitive, proprio per il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen..

Precisato ciò, veniva oltre tutto fatto presente che, ai sensi dell’art. 67, comma 8, cod. antimafia, gli effetti interdittivi della comunicazione antimafia non conseguono solo all’applicazione di una misura di prevenzione, ma anche alle condanne definitive o non definitive, purché confermate in grado di appello, per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., nonché – in virtù della novella operata dall’art. 24, comma 1, lettera d), del d.l. n. 113 del 2018, come convertito – per quelli previsti dall’art. 640, secondo comma, numero 1), cod. pen. (truffa ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico) e dall’art. 640-bis cod. pen. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), quest’ultima previsione oggetto di censura.

Qui, dunque, l’interdittiva antimafia, sebbene derivi da una condanna, non necessariamente definitiva, prescinde da una valutazione di specifica pericolosità del soggetto (che è invece alla base dell’applicazione di una misura di prevenzione), ma, allo scopo di prevenire l’infiltrazione mafiosa, genera l’incapacità giuridica sopra ricordata.

Veniva inoltre rilevato che gli altri casi previsti dalla disposizione censurata, cioè quelli di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., hanno una specifica valenza nel contrasto alla mafia, tant’è che essi vengono qui elencati allo scopo di attribuire le funzioni di pubblico ministero ai magistrati addetti alla direzione distrettuale antimafia, su designazione del procuratore distrettuale (art. 102 cod. proc. pen.) trattandosi nella specie: dei delitti di cui agli artt. 452-quaterdecies, 600, 601, 602 e 630 cod. pen.; del delitto di associazione per delinquere finalizzato al compimento di gravi reati contro la personalità individuale, elencati dall’art. 416, commi 6 e 7, cod. pen., nonché al compimento dei reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen.; dei delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis cod. pen,), di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter cod. pen,) e dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. e al fine di agevolare l’attività di tali associazioni; dei delitti di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza») e di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale»).

Tali fattispecie delittuose hanno in gran parte natura associativa oppure presentano una forma di organizzazione di base (come per il sequestro di persona ex art. 630 cod. pen) o comunque richiedono condotte plurime (come per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen.), oltre a prevedere pene che possono essere anche molto alte ed è, proprio in virtù di siffatta complessità, che si radica la competenza della procura distrettuale antimafia operante secondo linee di intervento dotate della necessaria coerenza, organicità, programmazione.

Detto questo, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano inoltre che, per quanto concerne il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen., invece, ci si trova innanzi a una fattispecie che non ha natura associativa e non richiede neppure la presenza di un’organizzazione volta alla commissione del reato.

Esso ha una dimensione individuale, può riguardare anche condotte di minore rilievo – quale risulta essere quella del giudizio a quo – ed è punito con pene più lievi (massimo edittale di sette anni), senza che vi siano tantomeno deroghe al regime processuale ordinario.

Certamente si tratta di un reato che, come argomentato dall’Avvocatura generale dello Stato, può riscontrarsi anche nell’ambito delle attività della criminalità organizzata, allo stesso modo dei più gravi reati sopra esaminati ma ciò non toglie che tale condotta delittuosa ha ben altra portata e non costituisce, di per sé, un indice di appartenenza a un’organizzazione criminale.

Per tale ragione, per la Consulta, farne dipendere con rigida consequenzialità la ricordata incapacità giuridica ad avere rapporti con le pubbliche amministrazioni appare non proporzionato ai caratteri del reato e allo scopo di contrastare le attività della criminalità organizzata (si richiamavano le sentenze della Corte costituzionale n. 172 del 2012 e n. 141 del 1996) e risulta, quindi, contrario al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost..

Altresì violato veniva stimato l’art. 41 Cost. poiché l’estensione degli effetti interdittivi di cui all’art. 67, comma 8, cod. antimafia anche alle condanne per il delitto di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche provoca danni irragionevolmente elevati alla libertà d’iniziativa economica, sia sul piano patrimoniale, sia della “reputazione” imprenditoriale, specie per chi svolge attività lavorative e professionali in rapporto con la pubblica amministrazione.

Ciò posto, si considerava per di più che il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen. già era ed è considerato quale “reato spia” al fine dell’applicazione nei confronti dell’indiziato di una misura di prevenzione ex art. 4, comma 1, lettera i-bis), cod. antimafia tenuto conto altresì del fatto che, come già accennato, ai sensi del successivo art. 84, comma 4, lettera a), l’essere destinatario dei provvedimenti che per tale delitto dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva, costituisce un elemento da cui il prefetto può desumere un tentativo di infiltrazione mafiosa, idoneo a consentire l’adozione di una informazione antimafia interdittiva.

Infine, si notavano come gli artt. 32-ter e 32-quater cod. pen. consentano di aggiungere alla pena principale per il reato di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche anche quella accessoria dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione; pena i cui effetti sono in parte sovrapponibili alle conseguenze interdittive di cui all’art. 67, commi 1 e 2, cod. antimafia e ciò dimostra, per il giudice delle leggi, da un lato, che la disposizione censurata s’inserisce in modo disarmonico in un contesto normativo nel quale, ai medesimi fini di contrasto alla penetrazione della criminalità organizzata nel tessuto socio-economico, già sono regolate, seppur in modo diverso, le medesime misure limitative della libertà economica di chi sia destinatario di provvedimenti relativi al reato di cui all’art. 640-bis cod. pen. e, dall’altro lato, e per la stessa ragione, che l’illegittimità costituzionale della novella legislativa lascia intatto il rilievo che tale reato possiede come indice d’infiltrazione mafiosa ai sensi dell’art. 84, comma 4, cod. antimafia.

Precisato ciò, dopo essersi fatto presente come restassero assorbite le ulteriori censure di legittimità costituzionale indicate nell’ordinanza di rimessione, si rilevava come, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 1, lettera d), del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, dovesse essere dichiarata anche per la parte in cui inserisce all’art. 67, comma 8, cod. antimafia il reato previsto dall’art. 640, secondo comma, numero 1), cod. pen.

Infatti, una volta osservato che tale disposizione disciplina il delitto di truffa commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico (o dell’Unione europea) e lo punisce con la reclusione da uno a cinque anni; pena più severa di quella per la truffa semplice (da sei mesi a tre anni), ma inferiore alla forbice individuata dall’art. 640-bis cod. pen. (da due a sette anni) e che l’affiancamento di tale reato a quelli di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. risulta, in tal modo, una scelta ancora più sproporzionata ed eccessiva di quella riguardante l’art. 640-bis cod. pen., si evidenziava che anche, per la truffa ai danni dello Stato, d’altronde, l’esigenza di prevenire l’infiltrazione mafiosa nel tessuto socio-economico rimane coperta da altre previsioni legislative visto che, da un lato, sebbene la truffa stessa non rientri tra i “reati spia” di cui all’art. 84, comma 4, cod. antimafia, una condanna per tale fattispecie può sempre costituire un elemento da cui desumere che il condannato vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose fermo restando che tale elemento, ai sensi degli artt. 1, comma 1, lettera b), e 4 cod. antimafia, può portare all’adozione di una misura di prevenzione (con i conseguenti effetti interdittivi), dall’altro lato, anche per tale delitto, i già ricordati artt. 32-ter e 32-quater cod. pen. consentono di aggiungere alla pena principale quella accessoria dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione; pena che, come sottolineato, ha effetti in parte sovrapponibili alle conseguenze interdittive di cui all’art. 67, commi 1 e 2, cod. antimafia.

Per tutti questi motivi, la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 1, lettera d), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132, che modifica l’art. 67, comma 8, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), limitatamente alle parole «e all’articolo 640-bis del codice penale» nonché, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 1, lettera d), del d.l. n. 113 del 2018, come convertito, che modifica l’art. 67, comma 8, del d.lgs. n. 159 del 2011, limitatamente alle parole «nonché per i reati di cui all’articolo 640, secondo comma, n. 1), del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico».

Conclusioni

Con tale pronuncia, l’art. 67, c. 8, cod. antimafia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevedeva che le disposizioni dei commi 1, 2 e 4, di questo stesso articolo si applicassero anche nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello per i reati di cui all’articolo 640, secondo comma, n. 1), del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e all’articolo 640-bis del codice penale.

Da ciò deriva che, per effetto di tale decisione, i commi

  • 1 (“Le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II non possono ottenere:
    a) licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio;
    b)  concessioni di acque pubbliche e diritti ad esse inerenti nonché concessioni di beni demaniali allorché siano richieste per l’esercizio di attività imprenditoriali;
    c)  concessioni di costruzione e gestione di opere riguardanti la pubblica amministrazione e concessioni di servizi pubblici;
    d)  iscrizioni negli elenchi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la pubblica amministrazione, nei registri della camera di commercio per l’esercizio del commercio all’ingrosso e nei registri di commissionari astatori presso i mercati annonari all’ingrosso;
    e)  attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici;
    f)  altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati;
    g)  contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali;
    h)  licenze per detenzione e porto d’armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materie esplodenti”),
  • 2 (“Il provvedimento definitivo di applicazione della misura di prevenzione determina la decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni, abilitazioni ed erogazioni di cui al comma 1, nonché il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera. Le licenze, le autorizzazioni e le concessioni sono ritirate e le iscrizioni sono cancellate ed è disposta la decadenza delle attestazioni a cura degli organi competenti”)
  • 4 (“Il tribunale, salvo quanto previsto all’articolo 68, dispone che i divieti e le decadenze previsti dai commi 1 e 2 operino anche nei confronti di chiunque conviva con la persona sottoposta alla misura di prevenzione nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi. In tal caso i divieti sono efficaci per un periodo di cinque anni”)

di questa disposizione legislativa non sono più applicabili allorché taluno sia stato condannato, anche se con sentenza non definitiva, ma confermata nel secondo grado di giudizio, per questi illeciti penali.

Per effetto di tale intervento, quindi, non potranno conseguire siffatti effetti dalle misure di prevenzione in riferimento alla commissione di cotali delitti.

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