Diritto e diritti in India La tradizione filosofico-giuridica dell’India nel confronto con l’Occidente e i diritti umani

Redazione 17/11/04
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di Giulia Marotta[1]
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a) Il dharma: legge spirituale e temporale nella società indiana,
dall’epoca classica al post-colonialismo
L’attuale sistema giuridico indiano è un insieme, piuttosto eterogeneo, di norme del recente diritto stabilito dall’autorità statuale e norme tradizionali, che si applicano ai diversi gruppi che costituiscono la popolazione indiana. Il gruppo più rilevante per numero (circa l’80% della popolazione) e per importanza è la comunità hindū, cui si aggiungono quella musulmana (seconda per dimensioni), e quelle più ridotte di sikhs, giainisti, buddhisti, parsi e cristiani. Il diritto tradizionale hindū è il più importante in India, in quanto è applicato non solo al gruppo più numeroso, ma anche ad altri gruppi, quali sikhs, giainisti e buddhisti.
La caratteristica distintiva del diritto indiano è l’esistenza di un solo sistema che racchiude al suo interno due tipi di ordinamento giuridico: uno moderno, laico e statuale[2], con notevoli influenze dei sistemi occidentali, e in particolare di quello inglese; un altro tradizionale, di origine religiosa, il cui “strato fondamentale è quello del dharma la cui coerenza interna è fornita dal sistema del karma, o dovere, e non da un sistema di diritti, come nella legge. [….] Al di sopra di questo strato fondamentale, abbiamo la recezione delle istituzioni di diritto e delle tecniche di amministrarlo di stampo occidentale.”[3]
La concezione del mondo e della vita, propria della cultura indiana, è di fondamentale importanza per comprenderne anche il diritto. In India il vocabolo dharma indica la religione; ma il suo significato si estende anche alla legge, alla giustizia, al dovere e in generale allude a ciò che è stabile e solido, derivando dalla radice dhṛ (sostenere, mantenere), a cui sono collegate le forme latine firmus e forma. Il dharma è “un [concetto] di larga portata [che] abbracciava l’intera vita dell’uomo.”[4] Esso si ricollega a un antico concetto vedico: l’ordine cosmico è retto da una legge immutabile (rta), che viene concepita sia come entità impersonale, a cui devono sottostare anche le divinità, sia come una potenza personale, dalla quale deriva direttamente la legge universale. Lo ṛta, il cui significato letterale è ‘ordine’, ‘disposizione’, regola tutta la vita naturale, morale e rituale: regola il sole, le acque, gli animali, il fuoco, i sacrifici, nonché la morale dell’uomo e la giustizia che premia il bene e punisce il male.[5]
Lo ṛta vedico è il presupposto ideologico del dharma, concezione filosofica che si svilupperà successivamente intorno al V secolo a. C.[6]; sempre al principio dello ṛta si ricollega la rappresentazione del tempo ordinato ciclicamente (III sec. a. C.) secondo quattro età del mondo (yuga) che si ripetono incessantemente. Il primo yuga è un’età perfetta (kṛtayuga), in cui regnano la giustizia e la felicità, e in cui il dharma è seguito da tutti spontaneamente, poiché non vi è alcuna ostilità tra gli uomini. Successivamente, secondo un modello progressivamente decadente, si giunge alla quarta età, il kaliyuga, l’epoca peggiore, in cui la società è dominata solo dalle passioni negative e la legge del dharma è sovvertita, fra gli uomini e nell’intera vita dell’universo.[7] Dal febbraio del 3102 a.C. viviamo nel kaliyuga. In questo periodo cresce l’importanza del diritto, in quanto non si può fare affidamento sul rispetto spontaneo delle regole di condotta del dharma.
Queste regole variano in base alla casta cui si appartiene, e a cui si è legati per tutta la vita. Ciascun uomo, al momento della nascita, acquisisce una determinata posizione sociale, che può comportare obblighi e privilegi molto diversi. Anche le regole etiche variano notevolmente in base all’età, al sesso e alla casta di provenienza: ad esempio lo stesso atto compiuto da uno śūdra (la casta dei lavoratori più umili, ma non schiavi) è punito diversamente, o addirittura non è punito, se a compierlo è un brāhmana, il sacerdote al vertice della gerarchia.[8]
Sebbene gli śūdra possano essere più o meno definiti come “servi della gleba”, la distinzione tra le caste non è paragonabile a quella che vi era nell’Europa medievale e moderna, tra nobili e contadini. Per fare un esempio, l’accesso alla fede e alla carriera ecclesiastica, in Europa, non è mai stato condizionato dalla posizione sociale, mentre nell’India tradizionale persino l’ascolto di un testo sacro era assolutamente interdetto alle caste più basse.
La moderatezza e la flessibilità della distinzione tra nobili e contadini derivano dai suoi fondamenti prettamente economici e sociali. Le caste indiane, invece, hanno delle profonde radici religiose e, proprio per questo, nonostante i ripetuti tentativi di abolizione da parte delle potenze coloniali, ancor oggi persistono, soprattutto nelle campagne e nei centri più piccoli, regole stabilite in base alle caste, per il lavoro, l’alimentazione, i matrimoni e gli altri riti. Queste norme si basano sul principio che ciò che per una casta è un dovere da compiere, è proibito alle altre.[9] Si ispirano a criteri di purezza, per cui una persona pura, come il brāhmana, non può contaminarsi con cibi impuri: dovrà essere vegetariano e mangiare solo ciò che è stato preparato da persone pure. Al contrario, per coloro che sono impuri, perché appartengono alle caste più basse o perché sono fuori casta, è un dovere svolgere quei lavori che potrebbero contaminare i puri (macellaio, lavatore di salme, boia).[10]
Nella tradizione occidentale moderna il vincolo giuridico per l’individuo è costituito dal principio di legalità e dal diritto positivo. Per diritto positivo si intende un diritto posto consapevolmente dalla volontà umana, e di cui vengono presi in considerazione solo gli aspetti positivi, cioè reali: si studia il diritto come è, e non come si vorrebbe che fosse, ponendo una distinzione fondamentale tra legalità e moralità.
Nella tradizione classica indiana invece ciò che vincola l’individuo non è la forza della legalità, ma l’autorità morale del dharma, che erede, come si è detto dello rta vedico, si riferisce allo stesso tempo alla legge eterna che mantiene l’equilibrio dell’universo (sanātana-dharma), e alla legge civile (sva-dharma), che regola la vita di ciascun individuo. Perciò l’autorità del dharma, come legge che governa la società, è direttamente connessa con l’ordine universale. La divinità suprema, o meglio l’Assoluto, il principio che regge l’universo, è la fonte stessa della legge, la quale determina quindi un punto d’unione tra il mondo trascendente della divinità, il mondo terreno della società e il mondo interiore dell’individuo.
È chiaro quindi che il diritto, che conosciamo attraverso gli Śāstra e le Smrti[11], anche se viene considerato come espressione della volontà umana, è un corpus di norme e precetti il cui fine, il mantenimento dell’ordine civile e religioso, corrisponde alla volontà divina. Questo insieme di regole è perciò preesistente alla sua rivelazione e alla sua successiva formulazione umana.
Mentre nelle tradizioni indiane gli uomini rifiutano la pretesa di essere essi stessi la fonte del dharma, nell’ Occidente moderno, la legge, anche in senso astratto come ciò che consente l’ordine civile, è priva di qualsiasi connotazione sacrale. Essa deriva da una decisione cosciente degli uomini, determinata da necessità del tutto profane: si tratta di un patto sociale stabilito al fine di evitare la prevaricazione dei più forti sui più deboli.[12]
Apparentemente, le cause dell’esistenza della legge in senso occidentale, e del dharma sono comunque molto simili. Come già detto, il dharma è preesistente alla sua espressione umana, ma la mancanza di un’autorità costituita lasciava agli uomini la libertà di allontanarsi da esso; queste deviazioni dall’ordine civile causavano sconvolgimenti dell’ordine cosmico, producendo una situazione di arajakata. Questo termine è solitamente tradotto con ‘anarchia’[13]; indica l’assenza di un potere politico, ma più precisamente una condizione in cui domina il matsya-nyāya, la legge dei pesci, in base alla quale il pesce più grosso ingoia il più piccolo, senza rimorsi personali né sanzioni sociali. “È difficile vivere in un paese senza un re. Gli uomini si comportano come pesci in quel luogo, mangiandosi a vicenda.”[14] L’oppressione dei più deboli determina quindi la necessità che il dharma venga compiutamente rivelato agli uomini, ma non sono essi stessi a imporsi il governo della legge.
Ciononostante, in questa situazione l’uomo è tutt’altro che passivo, poiché non basta che le leggi siano conosciute ed espresse dagli uomini per instaurare l’ordine pubblico.
La causa prima dell’arajakata è infatti insita nella natura di ogni uomo: l’avidità, la brama di ottenere il maggior numero di beni possibile anche a danno degli altri. Per questa ragione, per raggiungere la pace sociale è necessario conseguire in primo luogo una pace interiore, una vittoria sull’egoismo e sulle passioni, seguendo una condotta virtuosa dedicata alla coltivazione del dharma.
Il mantenimento dell’ordine universale è possibile se viene seguita la via del dharma, nella vita interiore e nella vita pubblica. In questa prospettiva la tradizione intellettuale indiana enfatizza l’importanza della formazione spirituale del proprio io, di contro all’oggettiva limitatezza della legislazione come mera imposizione delle istituzioni. Le leggi sono costrizioni e repressioni esterne, il cui scopo appare immediato e terreno. L’individuo deve invece coltivare una propria forza spirituale, che favorisca la salvezza personale e la pace sociale, nonché la conservazione dell’ordine universale.
Il dominio delle leggi sugli uomini può essere considerata l’idea etico-politica a fondamento dello stato di diritto, conquista dell’Occidente moderno, rispetto al dominio degli uomini sulle leggi.[15] Il pensiero indiano contrappone a sua volta il dominio dell’uomo su se stesso, ritenendo gli individui di una società basata sul governo della legge privi di forze spirituali e psichiche, e costretti per questo al continuo ammonimento esterno delle leggi e delle sanzioni.
L’ordinamento giuridico moderno in Occidente, come evidenzia Robert Lingat, “ è un sistema adatto a una società ugualitaria e individualistica. […] Parte dagli individui ed è una manifestazione della loro visione dell’ordine sociale. […] Il sistema giuridico classico dell’India sostituisce la nozione di autorità a quella di legalità. I precetti dei smṛti sono un’autorità perché in essi viene vista l’espressione di una legge nel senso in cui la parola è utilizzata nelle scienze naturali, una legge che regola l’attività umana. Tutti sanno che nessuno può fuggire da questa legge. Come risultato, ognuno deve fare del proprio meglio per conformarsi ad essa. Ma di per sé non ha un potere vincolante. Essa si pone avanti, mostra la via che ciascuno dovrebbe seguire, ma non impone quella via. Perciò la società è organizzata sul modello di se stessa, con il quale viene presentata, come se lo avesse realmente raggiunto.”[16]
Il tentativo personale di vincere la passioni, per potersi realizzare, deve cioè avvenire all’interno di un sistema politico e sociale coerente, che renda possibile il “reciproco adeguamento”[17] dei due elementi (struttura politico-sociale e singolo individuo). Non si tratta però di una mera conformità esteriore, ma di un rapporto intenso e dinamico di mutua salvaguardia, che si stabilisce a un livello assoluto, intimo e profondo.
Questa concordanza perfetta viene espressa più chiaramente dagli stessi pensatori indiani, tra i quali Srî Aurobindo, che afferma: “la vera relazione dell’anima singola col Supremo, mentre questa si trova nell’universo, non è affermare egoisticamente la propria esistenza né annullarsi nell’Indefinito, ma realizzare la propria unità col Divino e il mondo e riunirli nella sua individualità; [allo stesso modo] la vera relazione dell’individuo e della collettività non consiste nel ricercare egoisticamente il proprio progresso materiale o mentale o la propria salvezza spirituale senza preoccuparsi dei propri simili, e nemmeno nel sacrificare o mutilare il proprio sviluppo sull’altare della comunità, ma nell’assommare in se stesso le migliori e più complete possibilità della comunità e prodigarle attorno a sé a mezzo del pensiero, dell’azione o di qualsiasi altro strumento affinché la specie intera possa avvicinarsi alle realizzazioni raggiunte dai suoi rappresentanti più elevati.”[18]
Un altro grande pensatore dell’India moderna, A.K. Coomaraswamy sostiene inoltre che il nucleo della politica e della vita civile è lo swaraj, l’autodisciplina, determinata a sua volta dall’atmasamyama, l’autocontrollo, che si raggiunge mediante la guida morale del Dharma o Spirito Immanente.[19]
Ma evidentemente nell’autodisciplina il controllo di sé e delle proprie passioni non può avvenire nello stesso modo in cui il dharma, come legge, governa l’intera società, secondo un modello inevitabilmente autoritario. Il conseguimento dell’autodisciplina non può essere un processo coercitivo, ma deve scaturire quasi naturalmente da un nuovo confronto con se stessi, che stabilisca un rapporto di dialogica esortazione alla virtù. Sarà questo modello di governo del sé a tradurre in realtà una “democrazia dialogica”[20] come governo della collettività.
D’altronde anche nell’Arthaśāstra di Kautalīya, testo contenente le regole del buon governo, viene esplicitamente affermato che “solo un governante che governa se stesso può governare a lungo gli altri.”[21] Egli, come ogni altro individuo, potrà ispirarsi ai codici di comportamento descritti negli śāstra come esemplari; ma dovrà principalmente cercare la realizzazione del governo di sé a prescindere dall’imposizione delle norme di condotta.
I dharmaśāstra non sono infatti testi giuridici, consimili ai codici occidentali. Essi indicano regole generali, che si adatteranno alle varie situazioni reali, in maniera piuttosto flessibile. Questo perché per qualunque autorità costituita non è possibile consultare, per ogni singolo caso, l’intero corpus di opere sul dharma.
Per questo motivo, a partire dall’epoca compresa fra il 200 e il 1100 d.C., l’esigenza di trattati sistematici di maggiore praticità cominciò a concretizzarsi, con la produzione di vari testi che permettevano di trarre dal dharma delle regole di più semplice applicazione. Successivamente, fra i secoli XI e XVII, durante i quali ebbe inizio la dominazione islamica, si assiste al moltiplicarsi di questi trattati, chiamati nibandha[22], ognuno dei quali raccoglie tutte le fonti riguardanti uno specifico problema o uno specifico aspetto del dharma.
Il dharma è la fonte più elevata, in quanto di origine divina, e l’unica che possa essere oggetto di una vera e propria dottrina, ma vi sono altre fonti di livello più basso, le cui regole hanno comunque legittimità. Si tratta di fonti di vario tipo, non tipiche del sistema indiano, ma presenti più o meno in tutti gli ordinamenti. Una delle più comuni è il diritto consuetudinario, che nasce da quelle abitudini, spontaneamente praticate, probabilmente ancor prima della diffusione del dharma come fonte scritta. La validità della consuetudine deriva dall’esortazione generale a non compiere azioni che non sono ben viste dalla società, anche se nei testi esse possono essere considerate assolutamente corrette.
Tuttavia l’etica sapienziale dei testi non entrò mai in diretto contrasto con le tradizionali abitudini, le quali gradualmente riuscirono ad assorbire e fare propri i principali aspetti del dharma.[23]
Furono invece le dominazioni straniere, o in generale gli assetti politici fortemente tesi all’unificazione delle molteplici realtà indiane, ad esercitare un’azione uniformante, inevitabilmente a scapito delle particolarità delle consuetudini.
Anche l’artha è fonte della legge tramite la persona del principe. Il capo politico non può alterare il dharma; “non passò mai, per la mente a un re hindū, il pensiero che egli potesse, se lo sceglieva, alterare o abrogare alcuna delle leggi esistenti.”[24] Ma egli ha il potere e il dovere di mantenere e garantire la pace e la giustizia, per il bene dello Stato. Per fare ciò può in parte lasciare che sia la società stessa, secondo le consuetudini, ad autoregolarsi per le questioni di diritto familiare o civile; ma quando è necessario esercita il suo potere legislativo, ispirandosi all’artha, soprattutto in materia amministrativa, fiscale e penale.
Sarà poi compito del giudice raggiungere una conciliazione tra le leggi promulgate dal principe e il dharma, per evitare che quest’ultimo venga trascurato. Anche il giudice costituisce quindi una fonte secondaria, ma, come il principe, non può intervenire per modificare il dharma. Come strumento ausiliario egli può avvalersi di alcuni particolari testi di dharma, elaborati in epoca medievale, chiamati Vyavahāra. Queste opere raccolgono essenzialmente le leggi riguardanti l’amministrazione della giustizia e la procedure giudiziarie, applicabili alle controversie sia civili sia penali. Gradualmente, questi testi si sono imposti come fonte principale del diritto statuale, anche se in effetti le regole del buon governo hanno origine più dall’artha che dal dharma. I Vyavahāra rappresentarono una innovativa separazione della dottrina strettamente giuridica dagli altri aspetti del dharma. Si è così formata una moderna teoria del diritto, concretamente e facilmente applicabile, che in buona parte trascura i tratti religiosi dell’ordinamento del dharma. Di conseguenza, le nuove opere giuridiche trattano solamente la normativa riguardante “persone (incapacità), famiglia di sangue (matrimonio, divorzio, filiazione) o elettiva (adozione), proprietà familiare, in divisione perpetua, successioni (legali o testamentarie), fondazioni pie, convenzioni (fiduciarie) ‘benami’, regola ‘damdupat’ contro l’accumulo degli interessi.”[25]
Tutte le caratteristiche peculiari del diritto hindū subirono però alterne vicende, conseguentemente alle dominazioni straniere che si impadronirono dell’India.
I contatti col mondo arabo, iniziati nel VI secolo, come rapporti commerciali, sfociarono nell’effettiva occupazione del suolo indiano, avvenuta nel 1192, ad opera dell’esercito dei turchi, guidati da Muhammād di Ghūr. Fino al 1206 gli indiani vennero trattati come dhimmi, con l’introduzione della gizya, una tassa che essi erano costretti a pagare se desideravano continuare a praticare la propria religione. I capi del governo islamico “erano soddisfatti con l’imposizione della gizya, e si astennero dall’interferire con le leggi civili degli Hindū. […] era un governo interessato a prendere tasse, e non a fare leggi.”[26]
Per questo motivo l’influenza islamica non riuscì a indebolire i fondamenti del dharma; fu invece l’Impero britannico, che dal 1798 al 1947 detenne il totale controllo dei territori indiani, a introdurre modelli e ideali giuridici che ancor oggi caratterizzano il diritto indiano.
Già quasi un secolo prima del 1798, le istituzioni coloniali britanniche avevano l’autorità politica necessaria per legiferare, ma non intervenivano nel diritto privato o nelle relazioni fra gli indiani. Inoltre non vi erano norme precise che indicassero quali fonti applicare e in quali casi.
Nel 1781 l’autorità delle corti regie fu estesa anche alle dispute fra indiani, nelle quali fino a quel momento veniva solitamente applicato il diritto hindū o islamico. Ancora nel 1781 il governatore del Bengala Warren Hastings, al servizio della Compagnia delle Indie Orientali, attuò una riorganizzazione della struttura giudiziaria della colonia, cercando di dare al sistema legale un carattere il più possibile indigeno. Per questo fece tradurre numerosi codici hindū e decise che, almeno per lo statuto personale della popolazione locale (matrimonio, filiazione, capacità giuridica, successioni), sarebbe rimasto in vigore il diritto hindu o musulmano. In tutte le altre situazioni si sarebbero dovuti applicare i ‘principles of justice, equity and good conscience’ [27], senza imporre la common law[28]. D’altra parte neanche i giudici erano common lawyers inglesi, e pertanto si tentava di risolvere i conflitti ispirandosi ai metodi e alle concezioni locali. Questo sforzo restò invariato anche quando, nel 1858, il governo regio acquisì il controllo diretto del subcontinente indiano. I giudici britannici lavorarono autonomamente all’individuazione del principio fondamentale del diritto hindū. Avendo compreso che questa principio era il dharma, essi si impegnarono nell’applicazione dei dharmaśāstra e dei nibandha, senza tener conto del fatto che questi non contenevano la somma complessiva dei criteri di giudizio.
Proprio allo scopo di conoscere gli altri criteri di giudizio, nacque l’iniziativa di raccogliere e codificare le consuetudini, al fine di consentirne una ordinata applicazione. Ma l’impresa non fu priva di errori: consuetudini locali vennero ritenute generali, ed inoltre le informazioni subirono sostanziali travisamenti, sul piano logico e pratico, a causa dell’uso della lingua inglese.[29]
L’intromissione del diritto inglese fu invece vantaggiosa laddove il diritto hindū mancava di precisione, tanto che in determinati casi erano gli stessi soggetti coinvolti nella disputa a richiedere l’applicazione delle norme britanniche. Ciò accadeva soprattutto per i problemi riguardanti le obbligazioni[30], che a differenza di altri ambiti, quali la famiglia, la casta, la terra o la successione, non erano trattate in modo particolareggiato dalle fonti hindū. Ad esempio, non era previsto un esplicito provvedimento da attuare nel caso in cui un debito non fosse stato pagato, anche se l’inosservanza degli obblighi di pagamento era considerata un peccato.
A poco a poco, i giudizi della magistratura inglese vennero raccolti e pubblicati in modo da renderne possibile l’utilizzazione a tutti i giudici, i quali preferirono largamente adattare le proprie decisioni ai precedenti casi simili o identici, piuttosto che ricorrere alle enigmatiche fonti hindū. Questo modo di procedere permise una certa autonomia dalle effettive fonti indigene; la complessità di quest’ultime, agli occhi dei funzionari inglesi, era tale da definirle “un mostro chiamato diritto hindu”[31] .
Fu perciò abbandonata l’idea di compilare semplici raccolte e si cercò invece di conferire alle fonti hindū un assetto in gran parte nuovo e più funzionale, sistematizzandole in base ai principi e alle interpretazioni inglesi.
L’efficienza delle modifiche apportate, almeno dal punto di vista inglese, consisteva nell’aver reso l’ordinamento più attuale e uniforme, sia idealmente sia materialmente. In effetti, oggi molti studiosi, indiani e non, valutano questa rielaborazione non necessariamente come un fattore negativo.[32] Anche “ i giudici hindū, gli avvocati hindū, e il pubblico hindū nell’insieme accettarono completamente questo benintenzionato ma perfettamente ibrido sistema giuridico creato dai britannici. Lo accettarono prima dell’indipendenza, e continuarono a vivere di esso dopo il 1947.”[33]
Le trasformazioni introdotte furono considerevoli: il dharma venne considerato come un diritto astratto e naturale; esso comprendeva norme derivate da principi generalmente validi, anche se storicamente determinati, e percepiti nella coscienza di ciascun individuo come ideale di giustizia. Pertanto, questo modello astratto inutilizzabile fu tradotto in norme positive (dal latino positum = posto), cioè in norme poste dallo Stato, e non dalla divinità; e vigenti in un determinato momento storico, piuttosto che eternamente immutabili.
La consuetudine venne teoricamente considerata di legittima applicazione, ma assunse un ruolo sempre più limitato, almeno all’interno delle Corti. Il diritto consuetudinario popolare, infatti, continuava ad essere praticato come prima dell’arrivo degli inglesi, con la differenza che l’autorità superiore a cui esso si contrapponeva non era più un diritto divino, ma un diritto statuale.
Le nuove norme si applicavano a tutti coloro che si trovavano sul suolo indiano, ma ne vennero create alcune dirette esclusivamente agli indigeni, i quali avevano goduto ancora di una certa autonomia nello statuto personale. Perciò queste leggi specifiche riguardavano soprattutto il diritto personale e di famiglia, e miravano in particolare all’abolizione del sistema castale, e all’affermazione della capacità giuridica della donna. Questo significava rendere le donne soggetti giuridicamente attivi e passivi, capaci quindi di essere, sia titolari di diritti, sia vincolate dagli obblighi della legge.
L’opera di codificazione fu svolta dalla Indian Law Commission, istituita nel 1835. Dalla sua attività nacquero: un codice di procedura civile (1859), uno di procedura penale (1861), leggi sui contratti (Contract Act, 1872), sulle prove (Evidence Act, 1872), sul trasferimento della proprietà (Transfer of Property Act, 1882, e poi 1929), sul trust (Trusts Act, 1882), sull’esecuzione forzata delle obbligazioni (Specific Relief Act, 1872), sui titoli di credito (Negotiable Instruments Act, 1881).[34]
Ma le norme che suscitarono le reazioni più consistenti furono quelle che intervenivano nell’ambito delle persone, della famiglia e delle successioni, comprese nei Succession Act del 1865 e del 1925.
Dunque, l’intervento britannico non si è limitato all’applicazione del diritto hindū, con le ampie alterazioni di cui abbiamo parlato ma, tramite un’intensa opera legislativa, ha provocato l’introduzione di un intero apparato straniero, che ha distorto o abbattuto il diritto hindū tradizionale e sacro. Nonostante l’assorbimento dei fondamenti del diritto inglese, il nuovo diritto indiano non rappresentò affatto una brutta copia dell’ordinamento britannico. Infatti, i giuristi incaricati della riorganizzazione ritenevano che lo stesso diritto inglese richiedesse una riforma sostanziale. Molte norme erano considerate desuete, in contrasto con la logica e la funzionalità moderne; i legislatori attinsero quindi abbondantemente a sistemi non inglesi (scozzese, francese). Il risultato fu che il diritto indiano rielaborato, sembrava piuttosto un diritto inglese rielaborato, privato di tutti i suoi aspetti più criticati nel periodo in questione.[35]
Le idee e le concezioni giuridiche occidentali non poterono essere cancellate nel momento in cui l’India ottenne l’indipendenza politica dall’Impero britannico. Nel 1947, dopo lunghe lotte, l’Unione indiana si è liberata dal dominio coloniale, e ha inoltre sancito la propria separazione dai territori più fortemente islamizzati, riuniti nel Pakistan.
Il mantenimento di buona parte dell’apparato giuridico inglese dipende probabilmente da ciò che è stato definito “il più grande contributo alla posterità fatto dalla tradizione indiana.”[36] Seymour Vesey-Fitzgerald, autore di questa affermazione, si riferisce all’estrema apertura mentale della cultura indiana, la quale rifugge da ogni brusco cambiamento, e si affida invece alla continuità, accogliendo punti di vista anche del tutto differenti. In breve, possiamo definirlo inclusivismo. L’India è vista come un enorme contenitore culturale, al cui interno aspetti apparentemente inconciliabili si fondono e si ricombinano in una solida armonia; ogni nuovo elemento introdotto non costituisce un fattore di rottura o di contaminazione, ma contribuisce ad arricchire l’esistenza collettiva. Allo stesso modo “il moderno giurista indiano, guardando al suo antico diritto con orgoglio patriottico, volge anche lo sguardo al diritto inglese con l’affetto di chi ne è possessore. Non separerebbe neanche se potesse i due sistemi dei quali egli è la sintesi vivente”;[37] un attuale giurista non fa altro che fornire, al diritto dei suoi avi, i requisiti richiesti dall’epoca e dalla società in cui vive, cosa che anch’essi furono in qualche misura tenuti a fare.
È così che il sistema indiano ha tratto alcuni benefici dalla tradizione giuridica occidentale. Le decisioni prese dalla Commissione legislativa, incaricata della riforma del diritto indiano dopo il 1947, dimostrano largamente l’acquisizione giuridica dei principi di uguaglianza. L’impegno dell’autorità politica nell’opera legislativa è già un fondamentale passo verso la rigenerazione della società indiana.[38] Tuttavia, le comunità di villaggio restano profondamente legate alla loro cultura tradizionale. Per questo motivo, soprattutto nelle zone rurali, l’acquisizione sociale e culturale di quei principi risulta difficoltosa, come anche il controllo dell’applicazione delle nuove leggi.[39]
Ad esempio, nella Costituzione del 1950, viene apertamente ripudiato il sistema delle caste (art.15), ma sul piano sociologico il problema è rimasto irrisolto. Perciò il governo ha istituito delle speciali misure protettive e delle agevolazioni per aiutare gli ex fuoricasta. Molti di loro però si erano convertiti ad altre religioni abbandonando l’induismo, la cui pratica era causa della loro condizione di fuoricasta, e quindi, ufficialmente, anche della loro emarginazione; nonostante questi soggetti subiscano ancora gravi svantaggi pregiudiziali, solo in ragione della loro origine familiare, legalmente essi non possiedono lo status di ex fuoricasta, e pertanto non possono essere loro applicate le misure speciali.[40]
È da precisare però che nelle città la situazione è spesso differente; il desiderio di modernità, inevitabilmente collegato all’Occidente, porta a vedere il proprio diritto tradizionale come un oggetto di studio accademico, e non come l’eredità su cui modellare il proprio presente e futuro. Al contrario, specialmente tra i giovani, l’esempio da imitare è dato dalla cultura occidentale e dai suoi ideali ugualitari.[41] I nuovi atti legislativi, a partire dai 395 articoli della Costituzione, si muovono quindi in questa direzione.
Dopo l’indipendenza, l’India ha visto il sorgere di problemi in realtà non nuovi, ma che il dominio inglese aveva in qualche modo celato. Fra questi in primo luogo la mancanza di coesione, in uno Stato che racchiude più Stati, anche molto diversificati.
L’Unione indiana è uno Stato federale, che ha il potere di sospendere l’autorità dei singoli Stati, se necessario al mantenimento della pace e dell’ordine (art. 160 Cost.). Normalmente però, l’autonomia dei singoli Stati è piuttosto ampia, proprio a causa delle diversità interne. Ad esempio in campo linguistico, in India si contano almeno 177 lingue, distribuite in 4 gruppi. Secondo la Costituzione (art.345), ognuno dei 22 Stati federati ha libertà nelle scelte linguistiche, anche se la lingua nazionale è la hindi.
Ma l’inglese è la lingua della cultura, e l’unica attualmente dotata di un vocabolario scientifico adatto ad esprimere gli argomenti e i ragionamenti giuridici. Si spera che con il tempo, la hindi si arricchirà dei vocaboli moderni e specifici che gli permetteranno di soppiantare del tutto l’inglese come lingua unificante dell’India. Al momento però, è chiaro che il rapporto fra il cittadino indiano e la legge, espressa in inglese, non può essere chiaro e stabile come potrebbe esserlo se essa fosse enunciata nella sua lingua di uso comune. Questo è solo uno dei problemi emersi nella compilazione della Costituzione, e causati dall’eterogeneità interna dello Stato indiano.
L’attività legislativa è continuata con i quattro statuti che costituiscono lo Hindu Code. Con questa grande opera di codificazione sono state attuate delle importanti riforme. È stato regolamentato il matrimonio, con un’età minima stabilita, l’obbligo del consenso dei coniugi, la monogamia, la possibilità di sciogliere il matrimonio, anche fornendo una pensione alimentare all’ex coniuge[42] (Hindu Marriage Act, 1955 e 1964).
Altre leggi sono state fatte per tutelare i minori, vietando l’alienazione dei loro beni al cosiddetto tutore de facto, cioè a chi si occupa del minore pur non essendo un genitore o un tutore legale[43](Hindu Minority and Guardianship Act e Hindu Adoption and Maintenance Act 1956).
Lo Hindu Succession Act (1956) sancisce la parità tra uomo e donna nell’ambito delle successioni. Infine, viene ridimensionato il ruolo della potestà della famiglia sui beni del singolo affermando il diritto alla proprietà individuale.
La stesura di questi statuti si è valsa, in gran parte, dell’apporto dei principi occidentali, non contenendo praticamente nessun elemento dei Dharmaśāstra, o comunque del diritto tradizionale; anzi “se qualche somiglianza può essere scoperta si tratta di una coincidenza.”[44]
Non c’è stato neanche il tentativo, di inserire nella nuova codificazione, aspetti dell’antico diritto, anche se una parte di esso è stata mantenuta poiché non entrava in conflitto con le nuove leggi.
Dal punto di vista sociale, la caratteristica principale del nuovo diritto hindū è la tendenza, non ancora pienamente realizzata, al riconoscimento dei diritti e della dignità dell’individuo, indipendentemente dall’origine, dalla posizione sociale o dal sesso.
La progressiva decadenza della ‘famiglia congiunta’ (joint family), i cui diritti erano riconosciuti in quanto unità sociale indivisibile, è stata confermata dall’affermazione dei diritti di proprietà separati[45]. Nella joint family “ Il soggetto normativo […] è costituito non da un singolo uomo, ma da un gruppo di persone che formano un intero. […] Invece dell’indivisibilità (l’individuo), il soggetto è una totalità di opposti, empiricamente multipla, ontologicamente unica. In altri termini, l’unità elementare è la più piccola nella quale l’ordine è ancora presente, perché la realtà umana è contigua all’ordine, non all’individuo.”[46]
Nella tradizione hindū, mentre l’individuo è collegato al movimento e al cambiamento, e quindi al disordine, la famiglia rappresenta la stabilità, la continuità, l’eterno ripetersi delle vicende dell’Universo. Il soggetto che agisce nel dharma “è un sé che accetta l’eticità della comunità a cui appartiene come eticità sua propria, si conforma alle regole che essa gli impone, svolge il suo ruolo in relazione alla famiglia, alla società, allo Stato, come anche in relazione a se stesso e agli dèi.”[47]
Fra le idee occidentali penetrate in India, vi è l’enfasi data all’individuo, alle sue possibilità di modificare la realtà in suo favore e di crearsi il proprio futuro. Queste idee hanno avuto perciò un forte impatto in una società per cui l’ordine esistente, sia esso sociale o universale, non è suscettibile all’intervento umano.[48]
Dal punto di vista strettamente giuridico, l’intenzione manifestata dai legislatori è quella di conferire uniformità alle leggi indiane e alla loro applicazione. Il compito presenta notevoli difficoltà: un unico sistema legale che dovrebbe abbracciare, effettivamente, più società, con tradizioni e leggi differenti; gruppi umani la cui cultura spazia dalla successione patrilineare a quella matrilineare, e in cui si distribuiscono almeno una decina di religioni diverse, a loro volta divise in varie scuole.[49]
Sono attualmente presenti anche numerose scuole di legge hindū, tra cui tuttavia è stato raggiunto un discreto livello di uniformità. Tutta la moderna legge hindū si basa sui codici, secondo un modello generale di tipo occidentale, ma lo specifico metodo di interpretazione adottato è quello inglese; con precisione si tratta dello schema interpretativo più peculiarmente inglese della common law, libero dalle influenze del diritto romano della civil law (vedi nota 32, p.22). La procedura tipica della common law (‘legge comune’), è l’utilizzo delle sentenze precedentemente applicate ai casi simili. Le sentenze più frequentemente emesse per gli stessi casi saranno le più autorevoli, semplicemente in quanto sono le più comuni. “Chiunque si occupi del diritto in India si sente legato all’idea del precedente. Si ricerca la norma nel precedente. L’amministrazione si occupa della redazione di raccolte di decisioni giudiziarie, della loro pubblicazione e diffusione.”[50]
Questo è dunque l’indirizzo generalmente seguito dalle scuole di diritto hindū, ma l’autorità politica mira a raggiungere ancora una maggiore coesione sul piano giuridico. L’importanza attribuita a questo fattore è testimoniata dal fatto che esso rientra fra i principi di indirizzo politico-statale espressi nella Costituzione (art.44).
L’aspirazione all’uniformità cui tenderebbe il governo, è stata spesso imputata dall’opinione pubblica indiana del rischio di violare il diritto fondamentale alla libertà di religione. Ma i membri dell’Assemblea Costituente hanno espresso un diverso parere: “La religione deve restare confinata nella sua propria sfera, e gli altri aspetti della vita devono essere regolati e unificati, così che si possa diventare una nazione forte e consolidata. Il nostro primo problema è l’unità nazionale.”[51]
È utile contrapporre a queste parole quelle di Ludo Rocher, il quale afferma: “Nell’induismo, legge, religione e tutti gli altri argomenti che sono trattati nei Dharmaśāstra sono inestricabilmente intrecciati. Ogni tentativo di scindere la varie categorie ed etichettare particolari concetti o istituzioni come essenzialmente religiosi o essenzialmente legali, è destinato a imporre su di essi categorie che sono estranee al modo di pensare hindu.”[52]
Questa concezione, opposta alla prima, mette in luce quanto l’influenza del punto di vista occidentale abbia modificato l’effettivo modo di pensare hindū.
Oggi l’India si trova ancora in un momento di transizione: non può opporsi alle trasformazioni scientifiche, tecnologiche e sociali, in atto; ma deve anche raggiungere un compromesso con una realtà che, in virtù di fattori prevalentemente economici, minaccia di cancellare la memoria della sua preziosa ideodiversità.
Note:
[1]Estratto della tesi di laurea di primo livello in Beni DemoEtnoAntropologici, conseguita il 22/07/2004, relat. Prof. A. Pellegrini, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia.
[2] In questo lavoro l’aggettivo ‘statuale’ sarà adottato come termine relativo agli aspetti specificamente
politico-giuridici dell’attività dello Stato, contrapposto a ‘statale’, termine che indica la mera pertinenza
amministrativa.
[3] V.P. Nanda, S.P. Sinha, (edited by) Hindu law and legal theory, Dartmouth, Aldershot, 1996, p. xxi
[trad. mia] (“Its fundamental layer is of dharma whose internal coherence is provided by a system of
karma, or duty, and not by a system of rights, as in law. [….] Upon this fundamental layer, we have the
reception of Western-style institutions of law and techniques of administering it.”).
[4] P.V. Kane, History of Dharmaśāstra, Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1975, vol. II, pt. I,
[trad. mia] p. 2. (“ […] a far-reaching one, how it embraced the whole life of man.”).
[5] H. Von Glasenapp, Le religioni dell’India, Società Editrice Internazionale, Torino, 1963, [trad. it.] p.67.
[6] Al V secolo a.C. possiamo datare l’Âpastamba-Dharmashâstra, uno dei primissimi codici di diritto.
Cfr. H. Von Glasenapp, Filosofia dell’India, Società Editrice Internazionale, Torino, 1962, [trad. it.]
p. 53.
[7] Cfr. A.T. Embree, F. Wilhelm, India. Dalla civiltà dell’Indo fino all’inizio del dominio inglese,
Feltrinelli, Milano, 1968, [trad. it.] p. 127.
[8] W. Doniger (translated by), The laws of Manu, Penguin Books, Londra, 1991, Cap. 8, pp. 182-3,
[27984].
[9] H. Von Glasenapp, Filosofia cit., p. 365.
[10] H. Von Glasenapp, Le religioni cit., pp. 80-1.
A.T. Embree, F. Wilhelm, op.cit, .p. 38.
[11] Il termine Śāstra significa letteralmente ‘trattato’. In questo caso si fa riferimento ai
dharmaśāstra, testi sacri di ‘scienza del dharma. Per Smṛti si intende ‘ciò che si ricorda’, la tradizione
di ispirazione umana, in contrapposizione a Śruti, ‘ciò che è udito’, ossia la rivelazione divina. Per
ciò che riguarda il dharma, oltre al Dharmaśāstra di Manu probabilmente risalente al I secolo a.C.,
vi sono altri śāstra riconosciuti validi, e a cui si deve fare riferimento. Tra essi, i più importanti
sono i Dharmaśāstra di Yājnavalkya e di Nārada (III o IV secolo d.C). Il dharma comprende
norme di natura religiosa (riti, sacrifici, penitenze per i peccati), di natura etica (benevolenza,
tolleranza, carità), e alcuni precetti volti a impedire o a risanare ostilità e conflitti. In questo modo
all’uomo viene indicata la condotta da seguire e vengono preordinate delle sanzioni per le
trasgressioni, sia nella vita terrena sia in quella dell’aldilà.
[12] D. Zolo, “Teoria e critica dello Stato di diritto”, in P. Costa, D. Zolo, (a cura di) Lo Stato di diritto.
Storia, teoria e critica, pp. 17-88, in particolare p. 34.
[13] Cfr. A.K. Giri, “Il ‘governo della legge’ e la società indiana. Dal colonialismo al postcolonialismo”, in
P. Costa, D. Zolo, op.cit., pp. 708-738, in particolare p. 709.
[14] Rāmāyaṇa, II, cap.67, v.31, in K.A. Roy, N.N.A. Gidwani, A dictionary of Indology, Oxford and IBH
Publishing Co., New Delhi, 1986, [trad. mia] vol.3, p. 93. (“It is difficult to live in a country without a
king. Men behave like fish there, eating each other.”)
[15] P. Costa, D. Zolo, op.cit., p. 46.
[16] R. Lingat, The classical law of India, Oxford University Press , New Delhi, 1999, [trad. mia] pp. 257-8
(“It is a system which fits an egalitarian and individualistic society. […] It starts with individuals, and
it is a manifestation of their own picture of the social order.[…] The classical legal system of India
substitutes the notion of authority for that of legality. The precepts of smṛti are an authority because in
them was seen the expression of a law in the sense of which that word is used in the natural sciences, a
law which rules human activity. Everyone knows that no one can escape from that law. As a result, one
must try his utmost to conform to it. It puts itself forward, it shows the way which one should follow,
but it does not impose that way. Society is thus organised on the model of itself, with which it is
presented, as if it had actually achieved it.”).
[17] A.K. Giri, art.cit., p. 711.
[18] S. Aurobindo, La sintesi dello yoga, Ubaldini, Roma, 1967, [trad. it.] p. 27 .
[19] A.K. Coomaraswamy, Spiritual authority and temporal power in the Indian theory of government,
Munshiram Manoharlal, Delhi, 1978, pp. 84-5, citato in Giri, art.cit., p. 711.
[20] F.Dallmayr, What is swaraj? Lessons from Gandhi, dattiloscritto, Notre Dame (Ind.), University of
Notre Dame, 1997, in Giri, art.cit., p. 712.
[21] A.K. Giri, art.cit., p. 712.
[22] Cfr. A. Gambaro, R. Sacco, Sistemi giuridici comparati, Utet, Torino, 2002, p. 500.
“La moltiplicazione di nibandha e la diversa fortuna di ognuno di essi hanno permesso all’induismo di
segmentarsi in tendenze, che a loro volta prevalgono in aree geografiche distinte. Così la tendenza
Dayabhaya prevale nel Bengala e nell’Assam, e la tendenza Mitsakara prevale in India e in Pakistan.”

[23] Cfr. P.V. Kane, op.cit., vol.III, pp. 856-8, 969-71.
M.D.J. Derrett, Essays in classical and modern Hindu law, E.J. Brill, Leiden, 1976, vol. I
Dharmaśāstra and related ideas, p. 67.
L. Sternbach, Juridical studies in ancient Indian law, Motilal Banarsidass, Delhi, 1967, p. 90.
[24] S.G. Banerjee, The Hindu law of marriage and stridhana, Mittal Publications, Delhi, 1984, [trad. mia]
p. 3. (“the thought never entered the mind of a Hindu king that he could, if he chose, alter or abrogate
any of the existing laws.”).
[25] A. Gambaro, R.Sacco, op.cit., p. 502.
[26] S.G. Banerjee, op.cit., [trad. mia] p. 3. ([…] “were satisfied with imposing the Jezia, and they refrained
from interfering with the civil laws of the Hindus. […] a tax-taking and not law-making government.”).
[27] I ‘principi di giustizia, equità e retta coscienza’, a cui dovevano ispirarsi i giudizi non dipendenti dal
diritto hindu o musulmano, si identificarono ben presto con i principi del diritto inglese. Nel 1887 il
Comitato giudiziario del Privy Council dichiarò inequivocabilmente che l’equità e la retta coscienza
indicavano le norme inglesi, nella misura in cui esse potevano essere applicate alla situazione indiana.
[28] Il termine common law indica il diritto inglese elaborato dalle Corti centrali di Londra, il quale non
presenta influssi romanistici ed è fondato sull’autorità dei precedenti, cioè sul vincolo che una
determinata pronuncia giudiziale rappresenta per le pronunce successive. La common law si oppone alla
civil law, espressione usata dagli anglosassoni per indicare il diritto romano.
[29] L. Rocher, “Hindu conceptions of law”, Hastings Law Journal, 29, 1978, pp. 1283-305, in particolare
p. 1304, in V.P. Nanda, S.P. Sinha, op.cit.,p.24.
[30] Nel linguaggi giuridico, per ‘obbligazione’ s’intende un rapporto tra due soggetti per il quale uno dei
soggetti ha diritto a una determinata prestazione o una soddisfazione patrimoniale, e l’altro ha l’obbligo
di fornire quella prestazione o soddisfazione.
[31] Nelson, Prospectus of the scientific study of the Hindu law, 1881, in A. Gambaro, R. Sacco, op. cit.
p. 506.
[32] A. Gledhill, “The influence of common law and equity on Hindu law since 1800”, International and
Comparative Law Quarterly, 3, pp. 576-603, in particolare p. 580, in V.P. Nanda, S.P. Sinha, op.cit.,
p. 283.
M.D.J. Derrett, op.cit., vol. IV Current problems and the legacy of the past, p. 8.
[33] L. Rocher, art.cit., [trad. mia] p. 1305. (“[…] the Hindu judges, Hindu attorneys, and the Hindu public
at large fully accepted this well-intended but perfectly hybrid system of law created by the British.
They accepted it before independence, and they continued to live by it after 1947.”).
[34] A. Gambaro, R. Sacco, op.cit., p. 510.
[35] Ivi, p. 511.
A.K. Giri, art.cit., p. 722.
[36] S. Vesey-Fitzgerald, “Law, Hindu,” 9 Encyclopaedia of the Social Science, p. 262, in H.A. Freeman
“ An introduction to Hindu Jurisprudence”, American Journal of Comparative Law, 8, 1959, pp. 29-43,
in particolare p. 42, nota 62, in V.P. Nanda, S.P. Sinha, op.cit., [trad. mia], p. 94. (“The greatest
contribution to posterity made by the Hindu tradition was the broad-mindedness, sympathy, and the
toleration of different viewpoints exhibited almost alone in India amongst the civilised communities of
the earlier days.”).
[37] Ivi, [trad. mia]. (“The modern Hindu lawyer, regarding his ancient law with patriotic pride, looks upon
English law also with possessory affection. He would not separate even if he could the two systems of
which he is the living synthesis, [….].”).
[38] D. Subhayu, Hindu ethos and the challenge of change, Arnold Heinemann, Calcutta, 1977, p. 298.
[39] G.D. Sontheimer, “Recent developments in Hindu law”, International and Comparative Law Quarterly
Supplement, 8, 1964, pp. 32-45, in particolare p. 35, in V.P. Nanda, S.P. Sinha, op.cit., p. 254.
[40] Cfr. Human Rights Watch, Broken People. Caste violence Against India’s“Untouchables”, pt.III The
context of caste violence (http://www.hrw.org/reports/1999/india/).
[41] G.D. Sontheimer, art.cit.,p. 32.
[42] Proprio a causa del sistema delle caste, che prevede una rigida endogamia, il matrimonio tradizionale
hindū ha delle caratteristiche particolari, tra cui la possibilità di far sposare due bambini ancor prima
che nascano, quindi evidentemente senza il loro consenso; l’indissolubilità del matrimonio per la
moglie, che rimane all’interno della famiglia del marito per sempre. (Cfr. Ivi, p. 35).
[43] G.D. Sontheimer, art.cit., p. 43.
[44] Derrett M.D.J., “Statutory Amendments of the Personal Law of Hindus since Indian Independence”,
American Journal of Comparative Law, 7, pp. 380-93, in particolare p. 383, in V.P. Nanda, S.P. Sinha,
op.cit. , [trad. mia] p. 268. (“[…] if some resemblance can be discovered it is a coincidence.”).
[45] A. Gledhill, art.cit., p. 603.
[46] L. Dumont, Religion, Politics and History in India, Mouton, Parigi, 1970, [trad. mia], p. 141. (“The
normative subject […] is constituted not by a single human person, but by a constellation of persons
making up a whole. […] Instead of an indivisibility (the individual), the subject is a totality of opposites,
empirically multiple, ontologically one. In other terms, the elementary unit is the smallest where order
is till present, because human reality is coterminous with order, not with the individual man.”).
[47] J.N. Mohanty, art.cit., in F. Squarcini, op.cit., p. 177.
[48] A.B. Creel, Dharma in Hindu Ethics, Firma KLM, Calcutta, 1977, p. 37.
[49] G.D. Sontheimer, art.cit., p. 45.
[50] A. Gambaro, R. Sacco, op.cit., p. 511.
[51] S.K.M. Munsi, membro del Comitato di redazione della Costituzione indiana, Debates of Constituent
Assembly, pp. 547-8, in A. Gledhill, art.cit., p. 603, in V.P. Nanda, S.P. Sinha, op.cit., [trad. mia],
p. 306. (“Religion must be confined to its proper sphere, and the rest of life regulated and unified so
that we can become a strong and consolidated nation. Our first problem is national unity.”).
[52] L. Rocher, art..cit., p. 1286, in V.P. Nanda, S.P. Sinha, op.cit., [trad. mia], p.6. (“[…] in Hinduism, law,
religion, and all other topics dealt with in the dharmaśāstras, are inextricably interwined. All attempts
to disentangle the various categories and to label particular concepts or institutions as essentially
religious or essentially legal, are bound to force upon them categorizations which are foreign to the
Hindu way of thinking.”).

Redazione

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