Diffamazione tramite social network e app, orientamenti nazionali e internazionali

Scarica PDF Stampa

Indice

  1. Il reato di diffamazione tramite social-network
  2. L’orientamento della CEDU

 Il reato di diffamazione tramite social-network

Con la sentenza n.33219/21, la Corte di Cassazione ha stabilito che la pubblicazione di messaggi offensivi nei confronti di una persona sul proprio stato di whatsapp, integra il reato di diffamazione, di cui all’art.595 c.p.

Dunque, nel caso di specie, il condannato, era il compagno di una donna che pubblicava sul proprio stato di whatsapp, messaggi offensivi sulla reputazione della ex-fidanzata, pertanto tali offese potevano essere lette da tutti i contatti della sua rubrica. Sebbene, il colpevole non sapesse chi effettivamente possedeva l’applicazione, egli non può essere considerato innocente, poiché non ha sicuramente limitato la visione di tali messaggi, pubblicandoli attraverso il proprio stato di whatsapp, ragion per cui risulta indubbia l’intenzione del soggetto di voler ledere la reputazione della propria ex compagna, in assenza di quest’ultima. In proposito, si tenga conto di quanto espresso dalla sentenza sopracitata: E’ condannato per diffamazione chi pubblica messaggi offensivi ai danni di una persona sul proprio stato di Whatsapp visibile a tutti i contatti della rubrica.”(Cass., Pen., Sez. V, Sent. N.33219/21).

Il reato di diffamazione, di cui all’art.595 c.p., sussiste quando un individuo rivolge delle offese che hanno come scopo quello di ledere la reputazione della persona assente, comunicando con più persone.

In particolare, la diffamazione avvenuta su whatsapp, comporta l’amplificazione dell’effetto lesivo dell’offesa, quando il messaggio non è inviato direttamente al destinatario in forma privata, viene diffuso ad una molteplicità di persone: possono visualizzarlo subito tutti i partecipanti del gruppo in cui esso viene inserito, o addirittura tutti i contatti della rubrica, se si tratta di un messaggio di stato. Nelle discussioni virtuali, che avvengono davanti ad un display e non in presenza diretta, è psicologicamente più facile lasciarsi andare ed esprimere parolacce, o altre espressioni pesanti, che altrimenti con ogni probabilità non verrebbero pronunciate di fronte all’interessato. Ma è proprio l’assenza del soggetto al quale l’insulto è rivolto che costituisce il discrimine tra la più lieve fattispecie di ingiuria, che ormai è stata depenalizzata, e la più grave di diffamazione, che invece costituisce reato. Inoltre, quando si realizza una diffamazione su WhatsApp, il soggetto colpito dalle offese può subire grossi danni, perché la sua reputazione viene lesa di fronte a una pluralità di persone.

In primo luogo, è opportuno distinguere che chi comunicando con un’altra persona, rivolge degli insulti commette il reato di ingiuria, che ormai è stato depenalizzato, pertanto non è prevista nessuna reclusione, bensì una semplice multa pecuniaria con la quale risarcire il danno nei confronti della persona offesa; mentre il più grave reato di diffamazione, si realizza nell’ipotesi in cui le offese vengano rivolte nei confronti di una persona assente al momento degli insulti, e che essi siano conoscibili da parte di due o più persone.

Pertanto, la diffamazione tramite whatsapp, è configurabile solo nelle ipotesi di conversazioni multiple, cioè ad esempio all’interno di gruppi, o attraverso i messaggi di stato. In particolare, nella prima eventualità, è richiesto un gruppo nel quale siano presenti più di due persone, oltre all’offeso e a colui che offende, e soprattutto nel momento in cui viene condivisa l’offesa sul gruppo, l’offeso deve essere offline, altrimenti si avrebbe ingiuria.
Per capirci meglio, l’ingiuria è l’offesa rivolta in faccia; la diffamazione è parlare alle spalle.
Tradotto nel linguaggio della comunicazione virtuale, c’è presenza quando la persona interessata è collegata all’applicazione in quel momento, e quindi è in grado di percepire i contenuti, anche se è fisicamente distante e a prescindere dal tipo di dispositivo che utilizza (Pc, tablet, smartphone, ecc.).
Quindi, il classico “botta e risposta” che avviene anche nelle conversazioni di gruppo, dove alcuni interloquiscono con replica immediata, sarà ingiuria se la persona che viene offesa sta partecipando alla discussione. Se invece l’offeso è assente e si collega dopo, quando il messaggio offensivo nei suoi confronti è già stato letto da almeno altri due partecipanti (oppure non è membro del gruppo e apprende i fatti successivamente), sussisterà il reato di diffamazione.

Un’altra ipotesi di diffamazione tramite whatsapp, si configura quando attraverso lo stato di whatsapp, una persona pubblica dei commenti offensivi nei confronti di un’altra persona.  La Suprema Corte ha ritenuto che la «prova della diffusività» dell’offesa in tal modo propagata tramite WhatsApp non richiede la specifica dimostrazione che i vari contatti della rubrica disponessero dell’applicazione e, dunque, potessero effettivamente visionare lo stato contenente il messaggio offensivo. D’altronde, i giudici hanno ritenuto «del tutto razionale» l’intento diffamatorio realizzato attraverso la pubblicazione dello stato offensivo della reputazione altrui, poiché, se fosse mancata questa intenzione, il mittente avrebbe potuto mandare un messaggio individuale al destinatario.

Leggi anche gli articoli:

L’orientamento della CEDU

La CEDU, si è occupata della diffamazione attraverso i social network. Difatti, chiunque pubblica delle offese nei confronti di una persona tramite i social, viola l’art.8 della CEDU, che tutela il diritto alla privacy di ogni individuo, comprendendo anche quello della reputazione. Difatti, la Corte Europea obbliga gli Stati a legiferare norma che assicurino la tutela di tale diritto. Nello specifico, la Corte ha elencato quali sono gli interessi che devono essere presi in considerazione, ad esempio: il contributo dell’espressione incriminata a un dibattito di interesse generale; il livello di notorietà della persona la cui reputazione è lesa; l’argomento della comunicazione; la condotta della persona offesa precedente alla dichiarazione; il metodo seguito per ottenere le informazioni e la veridicità di queste ultime; il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione; la severità della sanzione imposta.

Ad esempio, con sentenza n.24703/2017, nel caso di un blogger e scrittore irlandese che era stato accusato di stupro, ricoma poi prosciolto, una sua immagine manipolata era stata diffusa su instagram, accompagnata da una frase offensiva che lo definiva “stupratore”, per i giudici di Strasburgo, c’è stata una violazione da parte dei giudici nazionali che non avevano raggiunto lo giusto equilibrio tra i diversi diritti in gioco: da un lato la libertà di espressione, e dall’altro la tutela della reputazione privata.

Con la sentenza n.74742/14, la CEDU chiarisce la responsabilità degli Stati nella tutela della reputazione. Nel caso di specie il signor Pihl, cittadino svedese, ha presentato ricorso davanti ai giudici di Strasburgo, sostenendo una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata, in quanto i tribunali nazionali avevano respinto, in ogni grado, la sua richiesta di procedere per il reato di diffamazione nei confronti del gestore di un blog sul quale erano stati pubblicati commenti anonimi dove si affermava l’appartenenza del ricorrente al partito nazista. La CEDU, con voto unanime, ha respinto il ricorso sostenendo che i giudici svedesi hanno bilanciato in modo corretto il diritto al rispetto della vita privata (art. 8 convenzione europea dei diritti dell’uomo) con quello alla libertà di espressione (art. 10 della convenzione). In altri termini, quindi, secondo la Corte Europea il gestore di un blog non è legalmente responsabile per i commenti diffamatori pubblicati da terzi in forma anonima.

In conclusione, possiamo quindi affermare che il tema della diffamazione tramite i social network, richiede una continua e specifica valutazione del corretto bilanciamento dei diritti fondamentali dell’individuo, quali il diritto alla libertà di espressione e il diritto alla reputazione.


Fonti:

  • brocardi.it;
  • Pen. Sent. N. 33219/21, del 9.9.2021
  • Roberto Garofoli, “Manuale di diritto penale generale”, edizione 2021.
  • Sentenza CEDU, N.24703/2017.
  • Sentenza CEDU, N.7474/2014.

Sentenza collegata

115888-1.pdf 498kB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Dott. Marco De Chiara

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento