Dicharata l’illegittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a) c.p.p.

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Corte costituzionale, 25 novembre 2021 (ud. 25 novembre 2021, dep. 18 gennaio 2022), n. 7 (Presidente Coraggio, Relatore Amoroso)

Indice:

Il fatto

Nel giudizio di merito, da cui è scaturita l’emissione della pronuncia qui in commento, si procedeva nei confronti di una persona (detenuta in carcere, al momento della proposizione delle questioni di legittimità costituzionale), condannata in ordine al reato di cui agli artt. 73, comma 1, e 80 del d.P.R. n. 309 del 1990 – con sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Verona, divenuta irrevocabile, alla pena di anni quattro, mesi dieci di reclusione ed euro 25.000 di multa, in relazione alla detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente del tipo cocaina del peso complessivo di 8.216 grammi.

In particolare, l’accordo, raggiunto dalle parti e cristallizzato con la sentenza emessa ex art. 444 cod. proc. pen., era stato articolato come segue: riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante in ragione dell’incensuratezza e del ruolo di mero corriere, pena base anni nove, mesi nove di reclusione ed euro 45.000 di multa, ridotta per le attenuanti prevalenti ad anni sei, mesi sei, di reclusione ed euro 30.000 di multa, ridotta per il rito ad anni quattro, mesi dieci di reclusione ed euro 25.000 di multa.

Ciò posto, a sua volta il condannato proponeva incidente di esecuzione, assegnato sempre al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Verona, per ottenere la rideterminazione della pena oggetto della suddetta sentenza di patteggiamento in quanto, dopo la formazione del giudicato, la Corte costituzionale, con sentenza n. 40 del 2019, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni.

Secondo il ricorrente, difatti, era possibile riproporzionare la pena patteggiata dal momento che, ponendo quale base di calcolo il minimo edittale risultante dalla citata sentenza costituzionale (anni sei di reclusione), cui addizionare la stessa percentuale in aumento individuata nell’accordo di applicazione della pena, si poteva fissare la pena base in anni sette, mesi nove di reclusione ed euro 45.000 di multa.

Poi, ritenute le attenuanti in regime di prevalenza rispetto alla contestata aggravante, la pena si riduceva ad anni cinque, mesi due di reclusione ed euro 30.000 di multa, pena ulteriormente ridotta per il rito a quella finale di anni tre, mesi cinque, giorni dieci di reclusione ed euro 25.000 di multa.

Il pubblico ministero, dal canto suo, esaminata tale istanza, prestava per iscritto il «consenso per pena base anni 7 mesi 6 di reclusione (resto del calcolo come da sentenza)», ma all’udienza fissata ex art. 666 cod. proc. pen., non essendo stato raggiunto l’accordo tra le parti sulla rideterminazione della pena, la difesa del condannato insisteva per l’accoglimento del ricorso.

Il giudice dell’esecuzione, però, con ordinanza adottata alla medesima udienza, rigettava la richiesta di rideterminazione della pena rilevando «che il condannato trasportava un quantitativo ingente di cocaina, tanto che il fatto era contestato come aggravato ex art. 80 DPR 309/90, precisamente ben 8,2 chili di cocaina con principio attivo pari a 5793 grammi (quasi sei chili), un fatto di allarmante gravità per il quale, nella sentenza, si erano riconosciute attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e si erano prese le mosse da una pena base ampiamente superiore a quello che all’epoca era il minimo edittale di otto anni di pena detentiva, ritenuto incongruo per difetto, in particolare essendosi prese le mosse dalla pena base di anni nove mesi nove di reclusione; pena base che, come argomentato nell’ordinanza, si riteneva dovesse essere tenuta ferma anche a seguito del citato intervento della Corte Costituzionale».

L’ordinanza di rigetto, a sua volta, era stata impugnata con ricorso per Cassazione dal difensore del condannato il quale aveva censurato l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 132, 133 e 133-bis del codice penale e dell’art. 125 cod. proc. pen. (ai sensi all’art. 606, comma 1, lettera b, cod. proc. pen.), nonché la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione (ai sensi all’art. 606, comma 1, lettera e, cod. proc. pen.).

Successivamente, la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, aveva annullato l’ordinanza impugnata con rinvio «per nuovo giudizio al Tribunale di Verona, Ufficio GIP» ritenendo che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, il principio della cosiddetta flessibilità del giudicato imponesse la rideterminazione della pena, da ritenersi illegale anche là dove formalmente rientrante nella cornice edittale della «norma ripristinata», escludendo al contempo la validità di criteri di tipo matematico proporzionale o automatismi tali da replicare le scelte operate originariamente nella fase di cognizione, oltre ad affermare che il giudice deve rideterminare la pena utilizzando i criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen. secondo i canoni dell’adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto del nuovo quadro edittale e, infine, si sosteneva che la riduzione della pena è necessaria nell’an, sviluppandosi la discrezionalità giudiziale nel solo quantum, secondo i criteri previsti dagli artt. 132 e 133 cod. pen.

Il giudizio di rinvio, da ultimo, era nuovamente assegnato al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Verona in applicazione dell’art. 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. per il quale: «se è annullata un’ordinanza, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che l’ha pronunciata, il quale provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento».

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

Alla stregua dell’excursus processuale sin qui riportato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Verona in funzione di giudice dell’esecuzione, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 111 (recte: artt. 3, primo comma, e 111, secondo comma) della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 34 (in realtà: 34, comma 1) e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio in capo al giudice dell’esecuzione che abbia pronunciato ordinanza di rigetto (o di accoglimento) della richiesta di rideterminazione della pena – avanzata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio – annullata dalla Corte di Cassazione e, in via subordinata, sollevata, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, questioni di legittimità costituzionale nei confronti delle medesime disposizioni nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio in capo al giudice dell’esecuzione che abbia pronunciato ordinanza di rigetto (o di accoglimento) della richiesta di rideterminazione della pena avanzata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, dell’art. 73, comma l, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), annullata dalla Corte di Cassazione.

In particolare, in punto di rilevanza, il rimettente precisava che, chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla questione, «non potrebbe che ribadire le proprie valutazioni, già operate nell’ordinanza annullata», stante la spiccata gravità in concreto del fatto (trasporto di oltre otto chili di cocaina, con principio attivo di quasi sei chili); fatto rispetto al quale egli aveva già ritenuto del tutto congrua la pena detentiva di anni quattro e mesi dieci di reclusione, originariamente applicata con la sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., pur a fronte della cornice edittale modificata a seguito della richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale.

Quindi – affermava il rimettente – egli, dovendosi uniformare alla sentenza di annullamento, sarebbe stato portato ad operare, nei confronti del condannato, una riduzione di pena assolutamente minima.

Invece, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo osservava come il giudice dell’esecuzione, chiamato a pronunciarsi su un’istanza di rideterminazione della pena oggetto di giudicato a fronte della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma considerata in sede di cognizione incidente sul trattamento sanzionatorio, come nel caso di specie, dovesse esercitare penetranti poteri di valutazione di merito.

Ciò posto, a tal riguardo, il rimettente richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice dell’esecuzione, nel procedere all’intervento «correttivo», può avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione conferitigli dalla legge, non potendo operare una mera trasposizione matematica del giudizio formulato in sede di cognizione entro la nuova cornice edittale ma dovendo formulare un nuovo giudizio commisurativo, deve operare alla stregua dei principi di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., tenendo conto della cornice edittale «ripristinata».

Pertanto, il rimettente riteneva che a decidere sul giudizio di rinvio, a seguito di annullamento da parte della Corte di Cassazione dell’ordinanza di rigetto dell’istanza di rideterminazione della pena, non debba e non possa essere il medesimo giudice-persona fisica, che si sia già espresso nell’ordinanza annullata, con le proprie «penetranti poteri di valutazione di merito», su un aspetto fondamentale quale è quello della quantificazione della pena posto che l’art. 111, secondo comma, Cost., prescrive che il giudice sia terzo e imparziale, mentre, a suo avviso, non è terzo e imparziale quel giudice che dopo essersi pronunciato su una questione esprimendo un giudizio di merito, in particolare un giudizio attinente alla commisurazione della pena, venga nuovamente chiamato a decidere la medesima questione.

Sussisterebbe, dunque, secondo il giudice a quo, il contrasto con il principio dell’imparzialità e terzietà del giudice posto dall’evocato parametro costituzionale.

Le disposizioni censurate contrasterebbero anche con l’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento tra le fasi della cognizione e dell’esecuzione, laddove si tratti di decisioni attinenti alla commisurazione della pena.

Sotto tale profilo, il rimettente, a sostegno della non manifesta infondatezza, richiamava la sentenza n. 183 del 2013 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento, il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato e del concorso formale, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen..

In particolare, ad avviso del giudice a quo, le argomentazioni ivi contenute, in riferimento alla violazione degli artt. 3 e 111 Cost., valevono anche nel caso in esame, a fronte di quella «penetrante valutazione di merito» attinente al fondamentale aspetto della quantificazione della pena che è demandata al giudice dell’esecuzione (anche) in caso di istanza di rideterminazione della stessa per sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sul trattamento sanzionatorio.

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Consulta di dichiarare inammissibili e, comunque, non fondate le questioni.

La difesa dello Stato osservava a tal riguardo che l’art. 623 cod. proc. pen. indica il giudice competente a pronunciarsi nei casi di annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione e, solo nei casi tassativamente previsti dalle lettere c) e d), relativi all’annullamento di una sentenza, stabilisce espressamente che deve trattarsi di altra sezione o di giudice diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata; nel caso in cui venga annullata una ordinanza, gli atti vanno trasmessi al giudice che l’ha pronunciata, e in assenza di una specifica previsione della diversità, deve ritenersi che può essere anche la stessa persona fisica che ha emesso il precedente provvedimento.

L’Avvocatura, richiamando le pronunce della Corte di Cassazione – sia con riferimento ai provvedimenti in materia “de libertate”, laddove si è ribadito che la disciplina dell’incompatibilità deve essere circoscritta «ai casi di duplicità del giudizio di merito sullo stesso oggetto», sia con specifico riguardo ai provvedimenti di archiviazione – affermava che l’art. 623 cod. proc. pen. non presenta profili di criticità in relazione ai parametri costituzionali invocati dal rimettente, così come non li presenta l’art. 34 cod. proc. pen..

Osservava altresì la difesa dello Stato che il giudice dell’esecuzione, pur avendo penetranti poteri di merito ai fini della commisurazione della pena, non è chiamato ad esprimere valutazioni sulla responsabilità dell’imputato, diversamente da quanto accade in caso di riconoscimento della continuazione e del concorso formale, cui accede, in via conseguenziale, l’applicazione del più mite trattamento sanzionatorio, che trova giustificazione nel fatto che la riprovevolezza complessiva dell’agente viene ritenuta minore rispetto ai normali casi di concorso di reati, in ragione dell’accertata unicità del disegno criminoso o dell’unicità della condotta.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

Il giudice delle leggi osservava in via preliminare la rilevanza delle questioni e quindi la loro ammissibilità.

Difatti, una volta fatto presente come il rimettente avesse richiamato l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme incidenti sulla stessa, non ancora interamente espiata, la Consulta faceva presente che l’esigenza di non lasciare senza rimedio l’illegalità, lato sensu intesa, della condanna o del trattamento sanzionatorio, anche se oggetto di res iudicata, è all’origine della elaborazione del principio della cosiddetta flessibilità del giudicato secondo il quale quando dopo una sentenza irrevocabile di condanna sopravviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non sia stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato (Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 maggio-14 ottobre 2014, n. 42858).

L’efficacia del giudicato penale, quindi, per la Corte costituzionale, non implica l’immodificabilità, in assoluto, del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna, nei casi in cui la pena debba subire modificazioni imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona.

Del resto, sotto il profilo della «ampiezza dei poteri ormai riconosciuti dall’ordinamento processuale» al giudice dell’esecuzione, si notava come sempre la Consulta avesse affermato che ben può tale giudice essere investito anche della istanza volta ad ottenere l’adeguamento a una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che accerta l’illegalità convenzionale della pena (sentenza n. 210 del 2013).

Tal che se ne faceva conseguire che, nella fattispecie in esame, il giudice rimettente, quale giudice dell’esecuzione, doveva – e deve tuttora in sede di giudizio di rinvio – procedere alla rideterminazione della pena, quale operazione resasi necessaria a seguito della citata sentenza n. 40 del 2019.

A tal fine, denotavano i giudici di legittimità costituzionale, il giudice rimettente aveva fatto applicazione, in particolare, dello schema processuale di cui all’art. 188 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) – in tema di concorso formale e reato continuato nel caso di più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti – secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7-21 luglio 2020, n. 21815).

Pertanto, in assenza dell’accordo delle parti sulla rinegoziazione della pena, il rimettente, attivando i propri poteri di ufficio, l’aveva inizialmente rideterminata, ma confermando – con l’ordinanza poi annullata dalla Corte di Cassazione con rinvio al medesimo giudice – quella originariamente inflitta con la sentenza emessa ex art. 444 cod. proc. pen..

Ciò posto, era altresì evidenziato come non potesse escludere la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale la circostanza – evidenziata dal rimettente – il fatto che, nelle more del giudizio di costituzionalità, «il condannato terminerà di espiare la pena inflitta con la sentenza in esecuzione, allo stato non ancora “rideterminata”, alla data del 1.10.2021» visto che l’incidente di legittimità costituzionale era scaturito dalla richiesta del condannato di rideterminazione della pena, in ordine ad un trattamento sanzionatorio non ancora definitivamente espiato, che aveva a sua volta determinato l’obbligo per il rimettente, nella funzione di giudice del rinvio, di procedere ad una nuova commisurazione della pena.

Perciò, per il giudice delle leggi, l’integrale espiazione del trattamento sanzionatorio durante la pendenza del giudizio di legittimità costituzionale – in disparte ogni profilo attinente alla riparazione da ingiusta detenzione – non incideva sulla perdurante rilevanza delle questioni prospettate in quanto l’art. 21 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, reca «un principio generale di autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità, che come tale non risente delle vicende di fatto successive all’ordinanza di rimessione (ex multis, sentenza n. 270 del 2020) sicché la rilevanza delle questioni rispetto alla decisione del processo a quo deve essere vagliata ex ante, con riferimento al momento della prospettazione delle questioni stesse (sentenza n. 84 del 2021)» (sentenza n. 127 del 2021).

Oltre a ciò, era altresì considerato il fatto che l’ordinanza di rimessione – «recando una formale e testuale qualificazione delle due questioni sollevate, rispettivamente, come “principale” (la prima) e “subordinata” (la seconda)» – mostra, con chiara evidenza, il nesso sequenziale che ne caratterizza la prospettazione e che esclude ogni connotazione ancipite del petitum (sentenza n. 152 del 2020).

Orbene, a questo punto della disamina, la Consulta rilevava oltre tutto come il rimettente muovesse da una (ritenuta) corretta premessa ermeneutica nell’affermare che le norme censurate vanno interpretate nel senso che il giudizio di rinvio, a seguito dell’annullamento dell’ordinanza di rideterminazione della pena da parte della Corte di Cassazione, possa essere celebrato innanzi allo stesso giudice, persona fisica, che ha pronunciato l’ordinanza impugnata.

Nella fattispecie in esame, con norma speciale rispetto all’art. 34, comma 1, cod. proc. pen., l’art. 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., prevede che, in riferimento al giudizio di rinvio, «se è annullata un’ordinanza, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che l’ha pronunciata, il quale provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento».

Parimenti, lo stesso art. 623, comma 1, cod. proc. pen., alla lettera d), prevede che «se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale»; ma aggiunge: «tuttavia, il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata».

Quest’ultima prescrizione, presente nella lettera d) e non anche nella lettera a) – quella secondo cui il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata –, confermava, per la Corte di legittimità costituzionale, la correttezza del presupposto interpretativo del giudice rimettente, declinata nei seguenti termini: “ove oggetto di annullamento sia un’ordinanza e non già una sentenza, non opera tale più specifica prescrizione”.

Del resto, al riguardo, veniva anche evidenziato che la Corte costituzionale nella sentenza n. 183 del 2013 – dichiarativa della illegittimità costituzionale delle medesime disposizioni oggi censurate, nella parte in cui non prevedevano che non potesse partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice che avesse pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione, in sede esecutiva, della disciplina del reato continuato, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen. – ha affermato che la premessa interpretativa da cui partiva allora il rimettente, analoga a quella da cui muoveva attualmente il rimettente, fosse «oggettivamente conforme al dato normativo e comunque rispondente al corrente orientamento della giurisprudenza di legittimità, così da poter essere assunta quale “diritto vivente”».

Premesso ciò, passando all’esame del merito, la Consulta riteneva opportuno prima di tutto ricordare, in estrema sintesi, il contesto normativo e giurisprudenziale in cui si collocavano le sollevate questioni di legittimità costituzionale.

Detto questo, si evidenziava a tal riguardo – una volta fatto presente che la vicenda processuale da cui scaturiva l’incidente di legittimità costituzionale in questione traeva origine da una fattispecie, del tutto peculiare, determinata dalla sentenza della Corte costituzionale, la n. 40 del 2019, che aveva dichiarato, in riferimento alla violazione degli artt. 3 e 27 Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevedeva la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni e che in tale pronunzia e che la Consulta – nel solco già tracciato dalla sentenza n. 179 del 2017, recante «un pressante auspicio affinché il legislatore proceda rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio» – aveva osservato che la divaricazione di quattro anni, determinatasi a seguito del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, tra il minimo edittale di pena previsto per i fatti non lievi connessi al traffico di stupefacenti (pari ad otto anni di reclusione) e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 del medesimo art. 73 per i fatti lievi (pari a quattro anni di reclusione), costituisse un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, oltre che con il principio di rieducazione della pena e che, a seguito di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale, “sostitutiva” del minimo della cornice edittale del reato di traffico di sostanze stupefacenti, i condannati per tale reato, anche a seguito di patteggiamento, avevano avuto la facoltà di richiedere, nel corso della espiazione della pena originariamente inflitta, l’applicazione del trattamento sanzionatorio più mite sicché i giudici dell’esecuzione sono stati investiti – come nel caso di specie – di richieste di nuova commisurazione della pena – che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente attenevano, in particolare, all’ambito di operatività delle cause di incompatibilità, disciplinate dall’art. 34 cod. proc. pen., del quale, nel caso di specie, rileva il comma 1.

In particolare, in relazione a quanto sancito da questa disposizione legislativa, i giudici di legittimità costituzionale osservavano che da tale norma sono disciplinate le incompatibilità che attengono alla progressione “in verticale” del processo determinata dall’articolazione e dalla sequenzialità dei diversi gradi di giudizio fermo restando che vi sono poi i casi di incompatibilità relativi allo sviluppo “orizzontale” del processo attinenti, cioè, alla relazione tra la fase del giudizio e quella immediatamente precedente (art. 34, comma 2, cod. proc. pen.), e i casi di incompatibilità del giudice, derivanti dall’aver esercitato, nel medesimo procedimento, altre funzioni o uffici (art. 34, comma 3, cod. proc. pen.).

Precisato ciò, il giudice delle leggi prendeva altresì atto del fatto che, con specifico riferimento alla disposizione di cui all’art. 34, comma 1, cod. proc. pen., è stato affermato in sede di legittimità costituzionale che essa «dettando la regola primaria in tema di incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento, delinea una incompatibilità di tipo “verticale” – in senso tanto “ascendente” quanto “discendente” – escludendo segnatamente che il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento possa esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, ovvero partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento o al giudizio per revisione» (sentenza n. 224 del 2001), tenuto conto inoltre che tale norma, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, mira ad assicurare la tutela del principio fondamentale dell’imparzialità del giudice, obiettivo cui tendono anche gli istituti dell’astensione e della ricusazione dal momento che, come affermato dalla stessa Consulta (sentenza n. 131 del 1996), il “giusto processo” comprende l’esigenza di imparzialità del giudice, la quale non è che «un aspetto di quel carattere di “terzietà” che connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici, e condiziona l’effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio»; pertanto, «[l]e norme sulla incompatibilità del giudice sono funzionali al principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione e ciò ne chiarisce il rilievo costituzionale».

Orbene, in questa prospettiva, per la Corte, la disciplina sulla incompatibilità del giudice è volta a evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla “forza della prevenzione” – ovvero dalla naturale propensione a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – derivante da valutazioni che il giudice abbia precedentemente svolto in ordine alla medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 66 del 2019, n. 18 del 2017, n. 183 del 2013, n. 153 del 2012, n. 177 del 2010, n. 224 del 2001, n. 283 del 2000 e n. 241 del 1999) e, perché possa configurarsi una situazione di incompatibilità, nel senso della esigenza costituzionale della relativa previsione, è necessario, sempre ad avviso della Corte costituzionale, che la valutazione «contenutistica» sulla medesima res iudicanda si collochi in una precedente e distinta fase del procedimento, rispetto a quella della quale il giudice è attualmente investito (sentenza n. 66 del 2019), rilevandosi a tal riguardo come sia stato costantemente affermato che «[è] del tutto ragionevole, infatti, che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999)» (sentenza n. 18 del 2017) fermo restando che, in pronunce più risalenti, la Consulta ha anche chiarito che non è sufficiente, per determinare una situazione di incompatibilità, la semplice conoscenza degli atti anteriormente compiuti riguardanti lo svolgimento del processo ma occorre che il giudice sia chiamato a compiere “una valutazione non formale, di contenuto” di essi, strumentale alla decisione da assumere che riguardi il merito dell’accusa (sentenza n. 177 del 2010; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 153 del 2012 e n. 131 del 1996).

Ciò premesso, le questioni erano, nel merito, reputate fondate per le seguenti ragioni.

Si rilevava a tal proposito innanzitutto che la mancata previsione dell’incompatibilità del giudice dell’esecuzione, persona fisica, che abbia pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena proposta a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, poi annullata con rinvio dalla Corte di cassazione, confligge con entrambi i parametri evocati dal giudice rimettente (artt. 3, primo comma, e 111, secondo comma, Cost.).

Ciò posto, una volta fatto presente che la regola generale di incompatibilità del giudice che abbia già compiuto atti nel procedimento è posta dall’art. 34 cod. proc. pen., che ne definisce termini e limiti, e che, in particolare, stabilisce al comma 1 che il giudice che ha pronunciato o ha concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento, si notava come questa regola poi sia stata declinata più specificamente dall’art. 623 cod. proc. pen. che, con riferimento alla pronuncia di annullamento con rinvio a seguito del giudizio di cassazione, prevede – alle lettere b), c) e d) – i vari casi di annullamento della sentenza impugnata, indicando il giudice competente per il giudizio di rinvio.

In particolare, se è annullata una sentenza di un giudice collegiale (corte di assise di appello o corte di appello o corte di assise o tribunale in composizione collegiale) il giudizio è rinviato rispettivamente a un’altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale o, in mancanza, alla corte o al tribunale più vicini mentre se è annullata una sentenza di un giudice monocratico (tribunale in composizione monocratica o giudice per le indagini preliminari) il giudizio è rinviato al medesimo tribunale, ma il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata fermo restando che, ove invece sia annullata un’ordinanza, il medesimo art. 623, comma 1, cod. proc. pen., alla lettera a), detta una regola diversa, prevedendo che la Corte di Cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che l’ha pronunciata, il quale provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento, senza che sia prescritto – come nella successiva lettera d) con riferimento alla sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari – che il giudice, se monocratico, debba essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza annullata.

Oltre a ciò, si evidenziava inoltre che l’ordinanza è il tipico provvedimento decisorio del giudice nel procedimento di esecuzione (art. 666, comma 6, cod. proc. pen.) il quale ha caratteristiche e peculiarità ben distinte dal procedimento di cognizione.

Il giudice dell’esecuzione, invero, esercita un’attività pur sempre giurisdizionale, ma entro confini limitati, quali sono in particolare quelli del giudicato formatosi in sede di cognizione, essendo, in generale, nell’attività della cognizione che il giudice del rinvio, in caso di annullamento pronunciato dalla Corte di Cassazione, è esposto alla forza della prevenzione insita nel condizionamento per aver egli adottato il provvedimento impugnato ma ciò accade anche quando nel procedimento di esecuzione il giudice del rinvio, al pari del giudice dell’ordinanza annullata, è chiamato a una valutazione che travalica la stretta esecuzione del giudicato e attinge, in via eccezionale, il livello della cognizione; ossia quando al giudice dell’esecuzione è demandato un «frammento di cognizione inserito nella fase di esecuzione penale» (sentenza n. 183 del 2013).

Si ha, infatti, che il giudice dell’esecuzione – in caso di annullamento dell’ordinanza pronunciata sulla commisurazione della pena, a seguito di istanza di rideterminazione della stessa proposta dal condannato in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale che, riguardando la misura della pena edittale, rende recessivo, in questa parte, il giudicato penale – è chiamato a esprimersi nuovamente sulla medesima istanza e, in tale evenienza il giudice dell’esecuzione, nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento dell’ordinanza con cui egli stesso si è già pronunciato sulla rideterminazione della pena, è nuovamente investito della decisione circa la “misura” della responsabilità del condannato, dovendo a tal fine esercitare incisivi poteri di merito, volti alla rivalutazione sanzionatoria del fatto illecito, alla luce del nuovo e più favorevole minimo edittale, non trattandosi di una operazione da condurre alla stregua di criteri oggettivi, di mero riproporzionamento automatico della pena già quantificata in sede di cognizione, nell’ambito della diversa cornice edittale, in quanto – come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 3 marzo-30 aprile 2020, n. 13453) – il giudice deve effettuare una nuova valutazione alla stregua dei parametri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., per assicurare la finalità rieducativa della pena ai sensi dell’art. 27 Cost..

Ebbene, ad avviso della Consulta, è proprio nella prospettiva della finalità rieducativa della sanzione penale che il giudice dell’esecuzione procede alla necessaria riduzione della pena perché la modifica sopravvenuta del minimo edittale rende non adeguata al fatto concreto una sanzione calcolata quando la previsione edittale per quel reato – nel caso di specie, per il reato di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 – era, nel minimo, sensibilmente più elevata (otto anni di reclusione invece di sei).

Pertanto, se sopravviene la dichiarazione della illegittimità costituzionale di una norma che incide sul trattamento sanzionatorio – di cui la sentenza n. 40 del 2019 costituisce una tipica fattispecie – il giudice dell’esecuzione, dovendo far ricorso ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., “ritorna” sulla valutazione del fatto illecito, già compiuta in sede di cognizione, occupandosi nuovamente della gravità del reato e, dunque,  al pari del giudice della cognizione, il giudice dell’esecuzione, in sede di giudizio di rinvio in relazione al caso considerato, esercita un potere discrezionale di commisurazione della pena per adeguare la risposta punitiva al fatto concreto che, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena, ha assunto un diverso disvalore, tenuto conto altresì del fatto che la Corte costituzionale ha pure affermato che «“l’individualizzazione” della pena, in modo da tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali» così da rendere «quanto più possibile “personale” la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall’art. 27, primo comma; […] e quanto più possibile “finalizzata” nella prospettiva dell’art. 27, terzo comma, Cost.» (sentenza n. 50 del 1980).

Da ciò discende allora che l’apprezzamento demandato al giudice in sede di rinvio assume, con riferimento alla individuazione del “giusto” trattamento sanzionatorio, la natura di «giudizio» che, in quanto tale, integra il «secondo termine della relazione di incompatibilità […], espressivo della sede “pregiudicata” dall’effetto di “condizionamento” scaturente dall’avvenuta adozione di una precedente decisione sulla medesima res iudicanda» (sentenza n. 183 del 2013), fermo restando che, avendo la Consulta affermato a tal proposito che «la locuzione “giudizio” è di per sé tale da comprendere qualsiasi tipo di giudizio, cioè ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito» (ordinanza n. 151 del 2004), esso è pertanto un «“giudizio” contenutisticamente inteso, […] ogni sequenza procedimentale – anche diversa dal giudizio dibattimentale – la quale, collocandosi in una fase diversa da quella in cui si è svolta l’attività “pregiudicante”, implichi una valutazione sul merito dell’accusa, e non determinazioni incidenti sul semplice svolgimento del processo, ancorché adottate sulla base di un apprezzamento delle risultanze processuali» (sentenza n. 224 del 2001).

La valutazione complessiva del fatto illecito, che compete al giudice dell’esecuzione nell’attività di commisurazione della pena, resa necessaria a seguito di una pronuncia di illegittimità costituzionale, presenta, di conseguenza, per il giudice delle leggi, tutte le caratteristiche del “giudizio” per come delineate dalla giurisprudenza costituzionale sicché, in sede di rinvio dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione, il giudice dell’esecuzione – per essere «terzo e imparziale» (art. 111, secondo comma, Cost.) – deve essere persona fisica diversa dal giudice che, in precedenza, si è già pronunciato con l’impugnata (e annullata) ordinanza sulla richiesta di nuova determinazione della pena.

In sostanza, ogni qual volta il giudice deve provvedere sulla richiesta di rideterminazione della pena a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, deve trovare applicazione una regola analoga a quella posta dall’art. 623, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., secondo cui «se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale; tuttavia, il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata».

La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione.

Conclusioni

Con la pronuncia qui in esame, la Consulta, sulla scorta di un lungo e articolato ragionamento giuridico che, proprio perché tale, è del tutto condivisibile, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione.

Pertanto, ove dovesse presentarsi una situazione processuale di questo genere, ben potrà essere contestato un provvedimento emesso da un giudice “incompatibile” nei modi e nelle forme previste dal codice di rito penale.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, per le ragioni appena enunciate prima, non può che essere positivo.

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