Dalla “carriera” alla “qualifica funzionale”: Evoluzione dell’assetto del personale della P.A. – Parte seconda

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“Mentre gli inglesi copiarono con successo l’apparenza esterna del sistema difensivo tedesco, essi furono incapaci di adottarne la sostanza” (Gudmundsson)


            Con gli avvenimenti storici che si susseguirono nel quinquennio 1943-1948, si entrò in una nuova fase della storia d’Italia; la caduta del fascismo, l’occupazione tedesca e la conseguente guerra di liberazione, l’avvento della Repubblica e la Carta Costituzionale del ’48 determinarono profondi rivolgimenti sociali ed istituzionali, che solo in minima parte ebbero un riflesso immediato sulla struttura amministrativa dello Stato. La burocrazia presentò una notevole resistenza alle innovazioni democratiche e partecipative espresse dal contesto sociale, dubbi che del resto erano già stati fatti propri da una parte della stessa classe politica, d’altronde, occorre considerare che essendo stato il personale assunto e formato durante il ventennio fascista lo status mentale ben difficilmente avrebbe potuto modificarsi così rapidamente (1).

            Queste tensioni le si ritrovano nella stessa Costituzione in cui vi è una netta divisione tra lavoro subordinato nell’impresa e rapporto di impiego nella pubblica amministrazione nella quale viene privilegiata la veste del “funzionario”, valutato come portatore dell’interesse generale della P.A.; tale diversità di impostazione viene ripresa ed accentuata dalla dottrina che attraverso una interpretazione combinata tra norme costituzionali, civili e penali dichiara l’inammissibilità dell’estensione ai pubblici dipendenti della normativa posta a tutela della libertà sindacale e di sciopero (artt. 39 e 40 Cost.). Gli artt. 330-333 e 504 C.P. sono utilizzati al fine di reprimere il diritto di sciopero e solo a partire dal 1958 la Corte Costituzionale, in una serie di sentenze, provvede a limitare progressivamente l’applicazione in materia degli stessi (2), ma come abbiamo detto, non solo la normativa penale trova applicazione bensì anche l’art. 2068 C.C., il quale in stretta correlazione con l’art. 97 Cost. viene utilizzato per escludere la possibilità di una regolamentazione mediante  contratto collettivo del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici (3).

            Nell’apparato si determinò una scollatura tra dirigenza politica e dirigenza burocratica determinata sia dal tentativo iniziale, poi rientrato, di una larga epurazione che dal mancato accoglimento delle rivendicazioni retributive in contrasto con le categorie concorrenziali (es. magistrati) a cui fu data soddisfazione. Lo scontro portò alla creazione di burocrazie parallele (es. Cassa per il Mezzogiorno) con il fine di rendere maggiormente controllabile il personale dirigente ed elastiche le strutture, ma l’azione politica non si limitò a questo ed investì direttamente gli apparati per tentarne il recupero; l’azione si svolse su due direttrici l’una sindacale e l’altra mediante il ricambio nei posti chiave con personale fedele; è il caso, ad esempio, delle unioni personali di funzioni dirigenziali al Ministero dell’Agricoltura con quelle della Federconsorzi (4).

            Il mantenimento di una struttura strettamente gerarchico-autoritaria e la necessità di garantirsi la fedeltà della dirigenza, lo si può riscontrare dall’analisi della circolare n. 75169/I.3.I. del 31/3/1954 P.C.M.

            Si legge testualmente: “Con richiamo alla recente deliberazione del Consiglio dei Ministri sulla necessità di adottare appropriate misure nei confronti di coloro che operano contro le istituzioni democratiche nei vari settori  della vita statale … invito tutte le Amministrazioni ad esercitare la più attenta vigilanza …” ed aggiunge” …le risultanze di tale controllo dovranno costantemente essere tenute presenti … nel conferimento ai funzionari di incarichi speciali nell’ambito dell’Amministrazione ovvero in rappresentanza o su designazione della medesima, …, ed in ogni altro incarico da conferire discrezionalmente, che comporti un’accentuata posizione di prestigio e di responsabilità nel quadro della organizzazione statale” (5).

            Riguardo al sindacato devono effettuarsi due rilievi  il primo con riferimento al sindacalismo autonomo, il secondo alla spaccatura esistente tra i sindacati confederati; l’azione dei sindacati autonomi, esistenti in ciascuna amministrazione, si indirizza verso rivendicazioni puramente settoriali a carattere prevalentemente economico che danno luogo ad una congerie di ‘leggine’ con chiari connotati clientelari. Si realizza così un ulteriore frazionamento retributivo dell’apparato amministrativo ed una spinta a richieste particolaristiche, facendo venire meno la possibilità di una analisi e conseguente riforma complessiva delle strutture, favoriscono lo status quo dietro apparenti domande di riordinamento; l’azione è favorita dal considerare il rapporto di impiego oggetto esclusivamente di norme e regolamenti ai sensi dall’art. 97 Cost. in combinato disposto dell’art. 2068 C.C., con assoluta esclusione della contrattazione.

Anche i sindacati confederati favoriscono con la loro divisione l’azione del sindacalismo autonomo, così gradito alla classe politica al potere, del resto in un’epoca di forte contrapposizione ideologica anche le associazioni sindacali ne risentono negativamente, puntando più al loro scontro frontale che all’analisi delle strutture su cui dovrebbero incidere; in quest’ottica la C.I.S.L. agisce come elemento catalizzatore, anche nei confronti dei sindacati autonomi, al fine di convogliare il consenso verso le forze politiche al potere mediante il trasferimento ai vertici delle richieste più disparate delle varie categorie impiegatizie (6).

            La mancata democratizzazione della struttura burocratica con il conseguente mantenimento di una stretta gerarchia ricalcata su modelli militari è avvalorata dall’operato del Consiglio di Stato;  infatti si afferma nel parere dell’adunanza generale del 10/1/1957 che “il  pubblico funzionario ha il dovere di riferire ai superiori gerarchici gli inconvenienti da lui rilevati nel servizio e non può ricorrere direttamente alla stampa e contribuire alla diffusione di notizie che possano nuocere al prestigio dell’Amministrazione e scuoterne la compagine : ancor meno poi egli può denunciare alla pubblica opinione pretese omissioni o mancati interventi da parte dell’Amministrazione da cui dipende; la violazione di codesti doveri costituisce manifestazione sconveniente alla compagine amministrativa dello Stato (Art. 59 lett. H del R. D. 30/12/1923, n. 2960), la cui tutela postula la rigorosa osservanza dei principi della dipendenza gerarchica e della subordinazione dell’impiegato”. (7).

            Conseguente a questo indirizzo è la giurisprudenza amministrativa che, indipendentemente dai principi costituzionali, ribadisce l’ampia discrezionalità propria della Amministrazione prevista dal T.U. del 1923, si va dall’affermare l’assoluta discrezionalità nella valutazione del personale, indipendentemente da qualsiasi motivazione, alla piena potestà dell’Amministrazione nel denunciare fatti emersi in un procedimento disciplinare che possa avere carattere di reato (8).

            Dal 1950 al 1954 si susseguono una serie di commissioni per la riforma burocratica che, partendo da un notevole slancio riformatore tale da sostenere la necessità dell’introduzione del grado funzionale al posto di quello gerarchico del 1923, si stemperano progressivamente fino alla legge delega del 20/12/1954, n. 1181 ed ancor più nei susseguenti provvedimenti legislativi.

            Sulla base di tale delega il Governo emana una serie di decreti delegati nn. 4, 16, 17, 19 e 20 dell’11/1/1956, successivamente raccolti organicamente nel T.U. del 10/1/1957, n. 3 a cui segue il regolamento di esecuzione del D.P.R. 3/5/1957, n. 686, l’emanazione del T.U. avrebbe dovuto essere occasione di un ripensamento dell’intera struttura amministrativa, si risolve invece in una conferma sostanziale del precedente apparato con alcuni aggiustamenti. Le carriere non vengono riformate sul piano funzionale, ma la divisione in “direttivi”, “di concetto”, “esecutivi” e del “personale ausiliare” ricalca grosso modo la classificazione dei gruppi A, B, C e del personale subalterno propria del precedente T.U. – molte categorie di impiegati statali non vengono ricomprese nel T. U. del 1957, anche se questi costituisce il fulcro da cui estendere i “principi generali” dell’impiego pubblico.

            Anche per quanto riguarda la semplice razionalizzazione della gerarchia non vi sono sostanziali innovazioni venendo mantenuti i gradi precedenti, con alcune lievi modifiche al grado iniziale della carriera direttiva in cui vi è la sostituzione con la qualifica di “consigliere di III classe” dei due gradi iniziali previsti dal T.U. del 1923; la riconferma di questa struttura fa sì che una importante innovazione introdotta con il successivo T.U. del 1957, ossia il Consiglio superiore della Pubblica Amministrazione, non possa diventare organo attivo ma si limiti ad assumere la funzione di organo consultivo del Governo (9).

            Nel decennio successivo sia la dottrina che la giurisprudenza, sulla base del T.U. del 1957 confermano la distinzione fra rapporto di lavoro subordinato privato a carattere contrattuale e l’impiego pubblico a carattere normativo ed amministrativo, la differenza tra i due tipi di subordinazione consiste nella matrice tecnico-funzionale del primo e disciplinare -gerarchica del secondo, in concreto questo significa che nel pubblico l’attività dell’impiegato non si esaurisce nella realizzazione della prestazione per cui si è impegnato, ma si estende all’interesse finale istituzionalmente previsto per la singola amministrazione.

            In definitiva si ha una insubordinazione organizzativa e non solo creditoria (10), naturalmente la contro partita consisterà nella stabilità o semistabilità del posto di lavoro, nel diritto all’ufficio, ossia alle funzioni della propria qualifica, e alla promozione alla qualifica superiore.

            La rigidità che si viene così a costituire, aggravata dalla rigida separazione dei ruoli e predeterminazione della piante organiche, non permette la mobilità e flessibilità necessaria alla gestione del personale statale, l’unica mobilità è a carattere  verticale e non orizzontale il potere si riduce alla determinazione dei compiti da assegnare nel quadro della competenza attribuita stabilmente. A superare tale frangente interviene l’utilizzo del personale non di ruolo che progressivamente assume dimensioni quantitative notevoli (11), concepito per fronteggiare situazioni transitorie viene utilizzato per esigenze permanenti o per fini elettorali assumendo carattere degenerativo, fino a doversi stabilizzare con immissione in ruoli speciali a carattere aggiuntivo o provvisorio.

            Negli anni ’60 le Confederazioni, superati i contrasti interni nel mutato clima politico, assunsero progressivamente l’iniziativa giungendo nel 1967 a concordare nel Comitato misto di Palazzo Vidoni con i rappresentanti del Ministero della Riforma Burocratica e dei Ministeri finanziari una intesa operativa sintetizzabile nel blocco della concessione di nuove indennità e di ogni maggiorazione di quelle esistenti, nei diritti e libertà sindacali e nella parità normativa tra operai e impiegati (12); in base agli accordi raggiunti viene emessa la legge delega 18/3/1968, n. 249 a cui segue la legge 28/10/1970, n. 775, contenente modifiche ed integrazioni della legge 249/68.

 La legge delega n. 775/70 presenta notevoli spunti innovativi sia in materia di chiarezza retributiva che di gestione del personale, tuttavia nel momento del passaggio all’attuazione molti di questi spunti si perdono. Sulla base della delega vengono emanati i decreti nn. 1077, 1078, 1079, 1080, 1081 del 28/12/1970, riguardanti gli impiegati civili dello Stato e gli operai, il trattamento economico dei magistrati e del personale, la liquidazione e riliquidazione del trattamento di quiescenza; il D.P.R. 31/3/1971, n. 276, sulle assunzioni temporanee; il D.P.R. 21/4/1972, n. 477, sul riordino della Scuola Superiore della P.A.; il D.P.R. 1/6/1971, n. 319, sul riordino delle ex carriere speciali; il D.P.R. 30/6/1972, n. 748 sulla disciplina della dirigenza.

            Le modifiche introdotte dalla normativa sopra citata riguardano la progressione di carriera, l’equiparazione fra operai ed impiegati di alcuni istituti giuridici, una progressione economica sganciata dalla carriera anche per gli operai, la possibilità di passare dalle categorie operaie alla carriera esecutiva, norme relative agli incarichi speciali ed ai collocamenti fuori ruolo, l’istituzione di classi di stipendio in rapporto alla riduzione del numero delle qualifiche (13).

            Particolarmente rilevante è la legge sulla dirigenza, tale da modificare profondamente la struttura di vertice dell’apparato, si distacca per la prima volta e in modo netto, anche da un punto di vista formale l’alta dirigenza dalla bassa dirigenza, riservando alla prima delle funzioni gestionali autonome e quindi non solo di trasmissione delle direttive. In realtà il discorso è più complesso in quanto non si ha una effettiva rivoluzione manageriale, ma un moltiplicare di gradi e promozioni affiancato da un esodo di alti burocrati incentivato da una serie di agevolazioni concesse dalla normativa in esame con la giustificazione del ricambio generazionale; il risultato ultimo è lo svuotamento dei vertici di Ministeri particolarmente importanti, come  le Finanze e il Bilancio, senza la contemporanea creazione di meccanismi atti a selezionare dirigenti idonei ma ricorrendo alla vecchia promozione per anzianità, proprio nel momento in cui si tenta di introdurre o almeno si incomincia a meditare la modifica dei vecchi apparati (14).

            Mentre si svolge questa attività legislativa, sull’onda sindacale della fine degli anni ‘60, interviene la normativa della L. 20/5/1970, n. 300, ossia il c.d. statuto dei lavoratori, le due normative, quella pubblica e quella privata, dovrebbero essere parallele in realtà vi sono profonde differenze, in quanto la normativa prodotta dalle leggi delega n. 249/68 e n. 775/70 risulta essere meno avanzata di quanto previsto, con notevoli lacune rispetto allo statuto dei lavoratori. Si prenda ad esempio la repressione della condotta antisindacale prevista dall’art. 28 della L. n. 300/70, questa normativa risulta essere assai incisiva per la rapidità e semplicità della procedura innanzi al giudice monocratico, ebbene vi è stato un rigetto totale dell’estensibilità di tale procedura con una notevole compattezza da parte della magistratura, in speciale modo delle Corti Superiori (15).

            Altri esempi li si possono trarre dalla mancata introduzione della c.d. qualifica funzionale, prevista dall’art. 9 della L. 28/10/1970, n. 775, al posto della c.d. qualifica gerarchica (16), così come la non estensione dell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, codificante il principio della promozione automatica per mutamento di mansioni, al rapporto di pubblico impiego; infatti l’innovazione sarebbe tale da scardinare l’intero sistema, fatto che induce il Consiglio di Stato a riconoscere, limitatamente ai dipendenti pubblici non statali, il diritto al solo trattamento economico con l’esclusione al corrispondente grado (17).

            In quegli anni maturano altre trasformazioni di particolare importanza per la struttura statale, la più importante delle quali è l’attuazione della normativa Costituzionale in materia di decentramento regionale.

            La L. 22/7/1975, n. 382, contenente “norme sull’ordinamento regionale e sull’organizzazione della pubblica amministrazione”, con la quale il Governo è delegato al trasferimento di funzioni statali alle regioni a statuto ordinario ed al riordino dei ministeri e relativi organi periferici, nonché del personale pubblico, crea notevoli aspettative che risultano in gran parte deluse per il ricostituirsi nei nuovi organismi dei vecchi modelli statali e l’accentuarsi della direzione politica diretta nell’attività amministrativa a danno di una autonoma dirigenza, la quale da parte sua assume aspetti sempre più clientelari.

 Altro provvedimento carico di speranze è la L. 20/3/1975, n. 70 la quale prevede che il Governo, entro tre anni, con una serie di decreti delegati, sopprima gli enti risultanti “inutili” allo “sviluppo economico, civile, culturale, democratico del Paese”. E’ una legge destinata a sconvolgere il sottogoverno per cui si assiste ad una serie notevole di resistenze, visti anche i privilegi che vengono intaccati, tuttavia si osserva anche in questo caso un fenomeno altamente negativo, consistente nel rifluire di tutto il personale che risulta eccedente al termine dell’operazione negli apparati statali con conseguente tensione di organico e senza che vi sia nel contempo una riqualificazione dello stesso ma provvedendo esclusivamente alla salvaguardia degli status raggiunti (18).

            Si può concludere affermando che alla fine degli anni ’70 si sono messi in moto, seppure in forma ancora confusa, vari meccanismi giuridici e sociali atti a muovere la stagnazione verificatesi nei decenni precedenti dopo l’esplodere e l’altrettanto improvviso acquietarsi dei venti riformatori degli anni della Costituente. La legislazione si dibatte ancora tra slanci riformatrici e prudenti ritorni ma ormai i tempi sono maturi per un ripensamento globale del rapporto di pubblico impiego, anche in vista delle nuove esigenze economiche e sociali manifestatesi in forma talvolta violenta in quegli anni; il problema ultimo e sostanziale è se la trasformazione verrà pilotata in forma equilibrata o non darà luogo a nuovi squilibri e favoritismi innescando un meccanismo da assalto alla diligenza.

 

 

 

Bibliografia

Dalla Costituzione agli anni ’70

 

  1. Robert D. Putnam, Atteggiamenti politici dell’alta burocrazia nell’Europa occidentale (Riv. Italiana di Scienza Politica, 1973-I) pp. 172-173
  2. Corte Costituzionale 2/7/1958, n. 45 (Giur. Cost. 1958, p. 569). Corte Cost. 28/12/1962, n. 123 (Giur. Cost. 1962, p. 1506). Corte Cost. 17/3/1969, n. 31 (Giur. Cost. 1969, p. 410).
  3. M. Rusciano, citato, pp. 156-7.
  4. G. Amato, La burocrazia nei processi decisionali (Riv. Trim. di Diritto Pubblico, 1975-I) pp. 492-3.
  5. In Consiglio di Stato, 1954 – II parte, p. 50.
  6. M. Rusciano, citato, pp. 161 e ss.
  7. Cons. di Stato, parere del 10/1/1952, n. 698 in (Cons. Stato, 1952-I parte) p. 629.
  8. Cons. di Stato, sez. VI, 17/10/1959, n. 691 (Cons. Stato 1959 – I parte) p. 1399.
  9. Cons. di Stato, sez. IV, 18/1/1950 (Foro Amm. 1950-1) pag. 174.
  10. M. Rusciano, citato, p. 182.
  11. E. Ghera, Lavoro e organizzazione amministrativa nel pubblico impiego (Riv. Trim. di Dir. Pubblico, 1975-I), pp. 51-52.
  12. R.D.L. 4/2/1937, n. 100 e D.L. del Capo provvisorio dello Stato 4/4/1947, n. 207.
  13. S. Cassese – AA.VV., L’Amministrazione Pubblica in Italia (Le rivendicazioni sindacali nella pubblica amministrazione: il riassetto degli statali, di V. Gandolfi, Il Mulino, 1974), p. 188.
  14. S. Cassese, citato, p. 192.
  15. S. Cassese, citato, p. 195.
  16. F. Trimarchi, Poteri dei dirigenti e partecipazione (Riv. Trim. di Diritto Pubblico, 1975-I), p. 88.
  17. M. Rusciano, citato, p. 195.
  18. E. Ghera, citato, p. 55.
  19. Consiglio di Stato, sez. V, 6/2/1973, n. 77 (For Amm., 1973, 11), p. 159.
  20. M. Rusciano, citato, pp. 190 e 191.

 

( Rielaborazione della relazione dell’autore presentata alla Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione)

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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