Corte di Appello di Caltanissetta, I Sezione Penale sentenza 11/10/2007 in tema di omicidio colposo plurimo da inosservanza norme di prevenzione sugli infortuni sul lavoro (inalazione delle fibre di amianto).

sentenza 20/12/07
Scarica PDF Stampa
Il potere-dovere di assicurazione delle misure antinfortunistiche e di intervento sostitutivo non ammette la totale dismissione in capo al suo titolare ad eccetto delle organizzazione aziendali di amplissime dimensioni
 
Accertato che le violazioni alla normativa antinfortunistica dipendono dalla mancata predisposizione di strumenti di sicurezza e dall’inidoneità dei locali e dei sistemi produttivi, le deleghe conferite non possono assumere efficacia esimente della responsabilità dei rappresentanti legali ove i capi reparto delegati non hanno il potere di disporre quegli atti di straordinaria amministrazione e di spesa necessari ed indispensabili per potere adottare le trasformazioni indispensabili del sistema produttivo.
 
In tema di malattia professionale da inalazione di fibre di amianto la quantità di asbesto che resta intrappolata nei polmoni è legata alla quantità totale di asbesto inalato, e dunque all’intensità ed alla durata dell’esposizione sicchè ad un’esposizione prolungata nel tempo corrisponde un aggravamento delle condizioni di salute; ne deriva che tutti i responsabili dell’impresa succedutisi nel periodo in cui le inalazioni nocive avvengono devono essere chiamati a rispondere del loro comportamento omissivo colposo ed alcuna influenza pertanto può assumere la circostanza della mancata e precisa individuazione del momento di contrazione della malattia.
 
Accertato che il decesso del lavoratore avvenne per la concorrenza di asbestosi e mesotelioma ne deriva l’impossibilità di attribuire a tale seconda patologia la causa della morte, poiché l’inalazione delle fibre di asbesto proseguendo anche nel periodo di contrazione del tumore polmonare cagionava un aggravamento dell’asbestosi, concausa della morte.
 
Il principio della effettività delle mansioni, può essere correttamente invocato per attribuire la responsabilità esclusiva o comunque la corresponsabilità del fatto omissivo colposo a colui il quale agisce, di fatto, quale titolare di una posizione verticistica all’interno di una società di persone o di capitali pur essendo altri il rappresentante legale od a chi all’interno di una determinata impresa individuale si presenti, per le mansioni assunte all’interno dello stabilimento industriale, quale punto di riferimento per l’organizzazione aziendale, l’individuazione delle modalità produttive e quindi anche per la predisposizione delle misure antinfortunistiche, siano esse generiche che specifiche.
Tale assunto vale quindi ad estendere la responsabilità per il fatto omissivo colposo anche a chi solo apparentemente non ricopra cariche nella compagine sociale od all’interno dell’impresa individuale, ma in alcun modo vale ad escludere la responsabilità del soggetto formalmente investito dell’onere di predisposizione e controllo delle misure predette giustificando la condotta negligente e disinteressata di quest’ultimo.
 
——————————–
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Caltanissetta
I Sezione Penale
Composta dai Sigg. Magistrati:
1.       Salvatore                       Dott. CARDINALE         Presidente
2.       Maria Carmela               Dott. GIANNAZZO        Consigliere
3.      Ignazio                           Dott. PARDO                  Consigliere
Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza dal
Dott. Ignazio PARDO
Inteso il Pubblico Ministero, rappresentato dal Dott. Rosa VALENTI
l’appellante e i __ difensor _______
ha pronunciato la seguente:
S E N T E N Z A
Nella causa contro:
omissis
 
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
 
Con sentenza in data 8 maggio 2006 il Tribunale di Caltanissetta, in composizione monocratica, condannava gli imputati ** ** Giuseppe alla pena di anni tre di reclusione, ** ** alla pena di anni due e mesi otto di reclusione, ** e **  alla pena di anni uno di reclusione ciascuno, ritenendoli responsabili, il primo, del delitto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro in danno di quattro soggetti: **  **, ** , **  e ** , il secondo, del medesimo fatto commesso in danno di **, ** e **, e gli ultimi due, infine, sempre del delitto di omicidio colposo con violazione delle norme in tema di prevenzione infortuni sul lavoro in danno del solo **.
Con la stessa sentenza il Giudice di primo grado assolveva gli imputati da una serie di ulteriori fatti di reato di omicidio colposo e lesioni personali commessi in danno di altri lavoratori e dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione per tutti i capi di imputazione relativi alle lesioni colpose; inoltre, condannava gli imputati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite da liquidarsi in separata sede ed al pagamento di una provvisionale,   pari ad € 20.000 per ciascuna delle parti costituite eredi di ** Giuseppe ed eredi di ** Giuseppe. Condannava altresì gli imputati al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede in favore della parte civile Legambiente comitato regionale siciliano e ordinava infine la pubblicazione della sentenza.
Dall’analisi dell’impugnata pronuncia risulta che tutti i fatti presi in considerazione riguardano le attività svolte dalla ** società per azioni, in cui i predetti imputati avevano rivestito la qualifica di rappresentanti legali nel corso di vari anni compresi tra il 1969 ed il 2001, ed in particolare una serie di violazioni alla normativa in tema di prevenzione infortuni sul lavoro che avrebbero così causato che i lavoratori dell’azienda fossero esposti in modo continuativo alle fibre di amianto disperse nell’ambiente esterno ed interno dell’impianto di lavorazione dell’azienda, cagionando agli stessi l’insorgere di gravi malattie polmonari, asbestosi, tumori polmonari e mesoteliomi, la cui degenerazione cagionava poi la morte di alcuni dipendenti nonché gravi patologie in danno di numerosi altri.
Il Tribunale di Caltanissetta procedeva innanzitutto con l’indicare le normative fondamentali in tema di amianto al fine di evidenziare quali obblighi specifici ricadessero sui rappresentanti legali delle imprese dedite alla utilizzazione di detto pericoloso materiale; al proposito citava il regio decreto 14 ** 1927 n.530 secondo il quale in tutti i locali chiusi nei quali si sviluppino polveri l’esercente ha il dovere di adottare i provvedimenti atti ad impedirne lo sviluppo e la diffusione dove lavorano gli operai. Precisava poi che con la legge 455 del 1943 la tutela previdenziale dei lavoratori è stata estesa alla copertura dell’assicurazione obbligatoria contro la silicosi e l’asbestosi; procedeva poi con l’individuazione di quelle norme contenute nel fondamentale d.p.r. 303 del 1956 in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, relative appunto alle polveri derivate da attività produttive e indicava le successive normative sempre più restrittive in tema di prevenzione da inalazioni di polvere di amianto culminate con la legge 257 del 1992 che aveva vietato l’uso, la commercializzazione e la produzione di detto materiale sul presupposto dell’elevato rischio per la salute dell’uomo derivante dalla inalazione dell’asbesto.
Ancora il Giudice di primo grado procedeva con l’individuazione delle caratteristiche dell’asbesto e precisava che dall’inalazione delle fibre di tale materiale possono dipendere varie malattie poiché alcune di tali fibre posseggono caratteristiche tali da permanere illimitatamente nel tessuto polmonare colpendo principalmente il sistema respiratorio; peraltro il rischio di sviluppare malattie associate all’asbestosi continua anche dopo che l’esposizione sia cessata mentre l’esposizione cronica all’inalazione causa morte dovuta all’asbestosi ed al cancro. Si soffermava poi sulle caratteristiche di tali patologie consistenti appunto nell’asbestosi, nel carcinoma polmonare e nel mesotelioma, precisando peraltro che i sintomi possono essere contestualmente presenti nello stesso paziente che sia stato esposto ad inalazione delle fibre di amianto; indicava le caratteristiche di ciascuna patologia, i tempi di latenza delle stesse nonché gli esiti, spesso letali, per i lavoratori.
In ordine poi allo stabilimento industriale della società ** spa precisava che la stessa era stata costituita nel settembre del 1966 ed aveva iniziato l’attività sociale nel 1968; negli anni compresi dal 1969 al 1993 l’oggetto sociale della predetta compagine era costituito dalla produzione di manufatti in cemento ed amianto realizzati mediante l’impastatura di fibre di amianto unite a cemento in polvere ed acqua. In particolare la società produceva lastre ondulate per coperture di edifici industriali, canne fumarie, tubi, recipienti per contenere acqua o altri liquidi ed altri manufatti denominati pezzi speciali.
Per quanto atteneva poi le contestazioni, precisava il primo Giudice, che agli imputati veniva contestata l’omessa attuazione delle misure d’igiene previste dal d.p.r. n. 303 del 1956 rendendosi con ciò inadempienti al dovere di dotare l’azienda di idonei sistemi di protezione collettiva, e cioè di quei congegni adatti a diminuire e contenere la dispersione delle fibre di amianto nei luoghi di lavoro, nonché la mancata fornitura ai lavoratori di strumenti di protezione individuale idonei a ridurre la loro esposizione all’inalazione delle fibre di amianto; inoltre altra contestazione è quella relativa all’inosservanza dei doveri di informazione dei rischi specifici a cui i lavoratori erano soggetti.
In ordine alla posizione di garanzia del datore di lavoro, precisava il Giudice di primo grado, che tale soggetto riveste una particolare posizione in forza alla quale è tenuto ad adottare tutti gli strumenti possibili per la tutela della sicurezza e dell’incolumità dei lavoratori; tale principio trova fondamento nella disciplina dettata dall’articolo 2087 codice civile secondo il quale l’imprenditore è sempre tenuto ad adottare tutte quelle misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro; l’applicazione del principio alla disciplina particolare delle società di capitali fa individuare il destinatario degli obblighi di sicurezza nel consiglio di amministrazione e nei componenti dello stesso. In particolare nei casi in cui lo statuto preveda la presenza di uno o più amministratori delegati ed essi siano effettivamente nominati da ciò non discende automaticamente l’esonero dalla responsabilità dei consiglieri di amministrazione occorrendo verificare l’effettiva portata della delega.
Al proposito il Tribunale di primo grado aderiva all’orientamento giurisprudenziale secondo cui pur in presenza di una valida delega di funzioni permane una ineliminabile residua posizione non delegabile di controllo e intervento sostitutivo dell’imprenditore su situazioni pericolose conosciute o che avrebbero dovuto comunque essere conosciute; in tale contesto, pertanto, tutti i componenti del consiglio di amministrazione rimangono obbligati al controllo dell’operato degli amministratori delegati anche per quanto attiene il settore della sicurezza sul posto di lavoro e dell’osservanza delle norme in materia di igiene.
In particolare, poi, in ordine alla posizione di garanzia rivestita dagli imputati dall’analisi della imputazione risulta che a ciascuno di essi le contestazioni di omissioni colpose causative di gravi danni alla salute sono state formulate in relazione ai rispettivi periodi di copertura della carica di rappresentante legale dell’azienda ed in particolare:
– per ** ** Giuseppe dall’** 1969 all’** 1979, dall’** 1982 all’** 1983, dal settembre 1988 all’ottobre del 1990 dall’** 1991 all’** 1992;
– per ** ** dall’** 1979 all’** 1982 e dall’** 1983 all’** 1984;
– per ** dal novembre 1987 al settembre 1988;
– per ** Giuseppe dall’** 1992 al 2001;
Procedendo poi con l’analisi delle singole ipotesi di negligenza colposa specifica e generica contestate agli imputati il Giudice di primo grado analizzava, innanzitutto, le risultanze dibattimentali in ordine all’obbligo di informazione dovuto ex articolo 4 lettera b) del DPR 303 del 1956; riteneva al proposito che il mancato svolgimento di attività di informazione da parte degli organi aziendali fosse fondata sulle acquisizioni derivanti dalle numerose deposizioni rese dai lavoratori della società pressoché concordanti sul punto (testi **, **, **, ed altri); in particolare concludeva ritenendo accertata la grave negligenza in tutto il periodo di operatività della società e di produzione di manufatti contenenti fibre di amianto dei legali rappresentanti, per aver omesso di assicurare ai lavoratori dell’azienda la necessaria conoscenza dei rischi specificamente connessi alla lavorazione di tale prodotto, in violazione della già citata norma che prevede l’obbligo a carico dei datori di lavoro di rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti da tali rischi.
Sul punto, infatti, riteneva il primo Giudice che fossero state effettuate poche e sporadiche riunioni, sempre poi successive all’anno 1985, alcune delle quali peraltro non aperte a tutti gli operai ma ristrette solamente ai capisettore; nessuna informazione inoltre era stata resa sulle caratteristiche pericolose delle fibre di amianto e sulle specifiche patologie che potevano derivare dalla loro inalazione, sui reparti che erano più esposti, sulle cautele che occorreva adottare nello svolgimento delle mansioni. Nè riteneva rilevante che le informazioni sulla pericolosità dell’amianto fossero diffuse all’interno della società in seguito al riconoscimento in favore di alcuni operai affetti da asbestosi, già a partire dagli anni ’70, del diritto a percepire un’indennità per invalidità contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa poiché, tale circostanza, non poteva certamente esonerare i datori di lavoro dagli obblighi informativi specifici previsti appunto dal d.p.r. 303 del 1956; peraltro, sul punto, precisava il Tribunale monocratico che i lavoratori assunti come testimoni avevano dichiarato di essere a conoscenza esclusivamente della possibilità di maturare una certa indennità a carico dell’INAIL ignari, però, dei possibili sviluppi patologici delle malattie.
Altro profilo di negligenza specifica contestata a tutti gli imputati, e ritenuta sussistente all’esito del giudizio di primo grado dal Tribunale monocratico di Caltanissetta, riguarda la circostanza di avere omesso di dotare gli operai di maschere antipolvere idonee ad impedire l’inalazione delle fibre di amianto velenose; anche in tal caso, dall’esame complessivo delle emergenze dibattimentali di primo grado ed in particolare in forza delle deposizioni dei lavoratori, delle testimonianze di coloro che avevano dichiarato di avere assunto la qualifica di addetti al controllo sull’uso delle maschere nonché dall’analisi delle consulenze tecniche redatte dai periti del pubblico ministero, riteneva il Tribunale che nella prima fase di operatività dell’azienda non erano state utilizzate le maschere (testi **, **, ); successivamente, e precisamente verso la metà degli anni ’70, erano state distribuite maschere denominate antipolvere usa e getta mentre, ancor dopo, a partire dal 1987 erano state distribuite maschere di gomma dotate di filtri ma in tutto il periodo di attività dell’azienda, comunque, il controllo sull’utilizzo effettivo di tali congegni non era mai stato pregnante ed incisivo al punto che nessuna sanzione veniva adottata nei confronti di lavoratori che non le utilizzavano (testi ).
Peraltro, il Giudice di primo grado, segnalava come le mascherine usa e getta in carta in uso nel primo periodo di lavorazione delle fibre di amianto all’interno della società, non erano riconosciute idonee alla protezione contro l’inalazione delle fibre di amianto poiché per il tipo di filtro e per le sue caratteristiche, non assicurano la tenuta stagna tra i bordi della maschera ed il volto.
Conclusivamente, al proposito, il Tribunale di Caltanissetta riteneva accertata la distribuzione dopo i primi anni di attività dell’impresa di maschere non a tenuta stagna e prive di efficacia filtrante a lavoratori chiamati a svolgere la propria attività in ambienti nei quali si produceva o era comunque diffusa un’altra concentrazione di polvere derivante dalla lavorazione dell’amianto, sicchè doveva ritenersi integrata la violazione di cui all’articolo quattro, comma uno, lettere c) e d) del d.p.r. 303 del 1956 che impone ai datori di lavoro l’obbligo di fornire ai lavoratori i mezzi necessari di protezione nonché di accertarsi che i singoli lavoratori ne facciano effettivamente uso.
Ulteriore profilo di negligenza individuato dal Giudice di primo grado a carico degli imputati quali rappresentanti legali della società, è costituito dalla violazione dell’articolo 38 del già citato D.P.R. che impone l’obbligo per le aziende industriali occupanti più di 20 operai chiamati a lavorare in ambienti polverosi di predisporre docce per fare il bagno appena terminato l’orario di lavoro; al proposito, sempre dall’escussione dei numerosi lavoratori effettuata nel corso dell’istruzione dibattimentale di primo grado, il Giudice riteneva che benché lo stabilimento della società fosse effettivamente dotato di locali bagni con docce per gli operai, i responsabili della società non avevano mai curato di esigere l’osservanza dell’obbligo dei lavoratori di fare la doccia giornalmente al termine del turno di ciascuno di essi (testi **, **,  ed altri).
Ulteriore profilo contestato e ravvisato dal Giudice di primo grado era quello dell’avvenuta consumazione da parte dei lavoratori dei pasti sul posto di lavoro in prossimità dell’amianto contenuto all’interno di sacchi. Al proposito, precisava che secondo l’articolo 41 del già citato DPR. le aziende come quella riconducibile agli imputati ed in cui gli operai sono chiamati a lavorare in ambienti molto polverosi, devono avere predisposto uno o più ambienti destinati a mensa; inoltre lo stesso articolo vieta specificamente la possibilità per i lavoratori di consumare i pasti nei medesimi locali ove svolgono l’attività quotidiana; in particolare riteneva il Giudice di primo grado che fosse stata raggiunta la prova che benché lo stabilimento industriale era dotato di locali separati dagli ambienti destinati alla produzione dei manufatti adibiti a mensa, i responsabili della società non avevano mai curato di esigere l’osservanza del divieto per i lavoratori di consumare pasti nei locali di lavoro sicchè era costume diffuso tra gli operai interrompere le prestazioni e mangiare sulla propria postazione di lavoro.
Soltanto a partire dalla metà degli anni 80 si era iniziato ad usare il refettorio, uso che peraltro era sempre rimasto facoltativo e non imposto, poiché nessuno dei lavoratori escussi come testimoni aveva mai dichiarato tale circostanza relativa alla obbligatorietà dell’utilizzazione dei locali mensa (**, **, ).
Ulteriore contestazione è quella relativa alla violazione dell’obligo di far effettuare in luoghi separati le lavorazioni pericolose, e cioè quelle nelle quali era maggiore il rischio di dispersione e successiva inalazione delle fibre di amianto, nonché di dotare i locali dell’azienda di un adeguato sistema di aspirazione delle polveri. Tali obblighi, imposti all’articolo 19 del citato DPR in tema di prevenzione infortuni sul lavoro, sono dettati per impedire e ridurre lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro delle polveri pericolose e prevedono appunto che l’aspirazione delle polveri deve essere effettuata immediatamente vicino al luogo di produzione alle stesse. Sul punto, il Giudice di primo grado, ricostruiva il processo produttivo dei manufatti in cemento-amianto nello stabilimento industriale della ** ritenendo che inizialmente, e cioè nei primi anni di attività del reparto impasti, lo stesso era azionato interamente manualmente sicchè l’amianto veniva svuotato nelle impastatrici da parte dei lavoratori che lo avevano precedentemente trasportato nei sacchi (); il reparto non era dotato di impianti di aspirazione e non vi erano separazioni dal reparto produzione così che tutte le operazioni di trasporto, apertura dei sacchi e scarico nell’impastatrice e successiva movimentazione producevano elevati livelli di polvere; alla fine degli anni 70 il reparto subiva importanti modifiche al fine di impedire tali inconvenienti e veniva separato dal reparto produzione da un portone scorrevole e ancora venivano acquistati dei macchinari automatici per l’impasto e la lavorazione dei manufatti ma ciò solo successivamente al 1977 ().
In ordine poi alla separazione dei vari ambienti e dei vari settori si procedeva ancora alla ricostruzione del sistema produttivo iniziale in cui l’amianto veniva trasportato da un dispositivo che lo scaricava su un macchinario a macine e poi all’impastatrice e ciò sino a quando alla fine degli anni 70 tutte le operazioni non venivano poi effettuate meccanicamente. Altra causa di rilevante diffusione di polveri in aria era l’uso delle smerigliatrici non dotate di impianto di aspirazione, almeno fino al 1983, poiché tale dato risultava dall’escussione dei lavoratori addetti a tali operazioni (** e ) i quali affermavano che i respiratori connessi alle smerigliatrici erano stati introdotti soltanto intorno al 1987.
Riteneva altresì accertato che i locali dello stabilimento industriale non possedevano un adeguato sistema di ricambio dell’aria ed anche che l’azienda aveva omesso di far eseguire le pulizie dei locali fuori dall’orario di lavoro in modo da ridurre al minimo il rischio di sollevamento delle polveri così come disposto dall’articolo 15 del DPR 303/1956.
Al proposito, ripercorrendo le deposizioni testimoniali, il Tribunale di primo grado riteneva accertato che in un primo periodo, quando il pavimento era in calcestruzzo, le pulizie venivano effettuate dagli stessi operai al termine del proprio turno di lavoro avvalendosi di scope e palette senza avere alcuna particolare attenzione al problema della formazione e dispersione delle polveri il cui pericolo di inalazione così veniva notevolmente aumentato (**, **, **,  ** ed altri); successivamente, all’inizio degli anni ’80, veniva poi introdotta una macchina per la pulitura automatica dell’opificio.
Sulla base di tutte le predette circostanze di fatto accertate mediante la complessa attività istruttoria dibattimentale svolta nel giudizio di primo grado, riteneva pertanto il Tribunale monocratico di potere affermare che i lavoratori inseriti nel sistema di produzione della società erano ampiamente esposti al pericolo di inalazione di fibre di amianto; ciò riguardava in particolare il reparto impasti dove la lavorazione manuale comportava un’elevata dispersione di polvere di amianto nell’ambiente di lavoro, quanto meno nel primo periodo ma anche successivamente all’automazione delle operazioni concordando il giudicante con i consulenti tecnici del PM, secondo i quali residuavano momenti critici in cui si poteva realizzare la dispersione di polvere e dei materiali impiegati nella lavorazione; inoltre nel reparto produzione lastre era stato accertato il possibile inquinamento dell’ambiente di lavoro tramite la polvere proveniente dagli impasti mentre le operazioni di manutenzione dei congegni automatici effettuate senza sistemi di aspirazione costituivano anch’essi sorgenti di polvere.
Altra possibile fonte di dispersione delle fibre di amianto individuava nelle operazioni di rifinitura dei prodotti tramite l’utilizzazione della smerigliatrice a disco che sviluppava notevoli quantitativi di polveri nocive, mentre il sistema di pulizia del pavimento era sicuramente idoneo, quanto meno nel primo periodo, a determinare il sollevamento e la dispersione delle fibre di amianto.
Le considerazioni predette, svolte soprattutto dai consulenti del pubblico ministero in seguito ai sopralluoghi effettuati all’interno dello stabilimento industriale, riteneva il primo Giudice fossero state sostanzialmente integralmente riscontrate dalle deposizioni dei numerosi lavoratori che avevano reso dichiarazioni riguardanti l’esistenza di oggettive situazioni di rischio per la produzione e dispersione all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro di fibre di amianto, sicché il primo Giudice concludeva affermando che in tutto il periodo contestato era stata acquisita prova dell’oggettiva esistenza di una situazione di esposizione dei lavoratori all’inalazione di fibre di amianto, all’interno ed all’esterno dei luoghi di lavoro, mentre i sistemi di aspirazione realizzati erano stati localizzati soltanto in prossimità di alcuni impianti e non erano comunque idonei a realizzare una totale protezione dei lavoratori.
Peraltro, l’amministrazione non provvedeva a curare l’osservanza dell’obbligo di usare i dispositivi di protezione individuale da parte dei lavoratori stessi.
Sottolineava poi il primo Giudice come le contestazioni mosse riguardassero sia omessi interventi relativi alla mancata utilizzazione da parte dei lavoratori dei mezzi di protezione individuale, sia la mancata adozione di più complessi interventi riguardanti la struttura e l’organizzazione dello stabilimento industriale, necessari per garantire l’eliminazione o comunque una significativa diminuzione dell’esposizione dei lavoratori al rischio di inalazione di fibre di amianto; entrambi i profili devono ritenersi attribuibili agli imputati come rappresentanti legali. 
E comunque, riguardando la gestione aziendale ed i rapporti con i lavoratori nonchè l’innovazione degli ambienti, dei macchinari e dell’organizzazione del lavoro, non potevano ritenersi demandati tramite delega a dipendenti dell’impresa o comunque anche a uno o più consiglieri di amministrazione, poiché la loro incidenza sull’intero sistema di produzione necessitava di ingenti investimenti che potevano essere deliberati soltanto da tutti i componenti del consiglio d’amministrazione, e quindi anche dagli imputati che, quali legali rappresentanti, avevano composto tale organo o diretto lo stesso.
Proprio sulla base di tali considerazioni, relative alla accertata negligenza nella adozione di nuovi sistemi produttivi e di organizzazione del lavoro idonei ad impedire la diffusione delle polveri e l’inalazione delle stesse, il Tribunale monocratico di primo grado, riteneva sostanzialmente non influente l’avvenuto conferimento a tali Barbieri e Falzone nel corso delle attività industriali, di una generale delega avente ad oggetto l’esecuzione e rispetto delle norme vigenti in materia di lavoro e di prevenzione infortuni, desumibili dai verbali del consiglio d’amministrazione n.1 del 1977 e n.4 del 1984; nè rilevante poteva ritenersi l’avere costituito un comitato tecnico di fabbrica composto da lavoratori che avrebbe dovuto assumere funzioni di controllo e tutela degli operai.
Infatti, il primo Giudice, riteneva innanzitutto che le riunioni promosse dal comitato di fabbrica erano state rare e non aventi una efficace funzione informativa dei singoli lavoratori e poi che, come già anticipato, le deleghe di funzioni in tema di osservanza della normativa relativa alla prevenzione infortuni e igiene sul lavoro attenessero soltanto ai compiti di controllo e non comprendessero invece poteri deliberativi, organizzativi e di spesa, in forza dei quali i delegati avrebbero potuto adottare quelle misure idonee ad impedire la dispersione delle polveri.
Sottolineava quindi il Tribunale come gli addebiti mossi agli imputati non riguardano soltanto la mancata utilizzazione da parte dei lavoratori dei sistemi di protezione ma anche la mancata adozione di complessi e costosi interventi finalizzati alla modificazione degli ambienti ed all’organizzazione del lavoro, interventi questi che non potevano certamente essere disposti autonomamente dai soggetti i quali avevano ricevuto la delega da parte del consiglio di amministrazione, sicché doveva ritenersi rimanere ferma la responsabilità dei vertici della società per l’omesso esercizio di poteri di controllo e di intervento sostitutivo diretti ad eliminare qualsiasi posizione di rischio.
Particolarmente complessa si profila poi la problematica relativa all’accertamento del nesso causale tra inalazione di fibre di amianto e l’insorgenza delle malattie quale l’asbestosi ed i tumori polmonari; in tema di nesso causale il Giudice del primo grado richiamava i principi recentemente espressi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 30.328 del 10 luglio 2002 che dirimendo un conflitto insorto in giurisprudenza è intervenuta affermando che nei reati omissivi il nesso causale va accertato procedendo al cosiddetto giudizio controfattuale al fine di verificare se eliminata mentalmente la condotta presa in considerazione l’evento si sarebbe ugualmente verificato.
In particolare il giudizio controfattuale nei reati omissivi colposi deve accertarsi quando mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, il singolo evento lesivo verificatosi sarebbe venuto meno mediante un enunciato esplicativo coperto dal sapere scientifico del tempo; sulla base di tale premessa  la Corte di Cassazione affermava che l’accertamento del nesso causale alla stregua del canone di certezza processuale deve condurre ad un giudizio caratterizzato dall’alto grado di credibilità razionale sicché, soprattutto con riferimento alla causalità omissiva, non è sufficiente fare riferimento a leggi che esprimano un coefficiente semplicemente probabilistico.
Tanto premesso in ordine alla problematica generale, il Giudice primo grado specificava come uno dei temi centrali del procedimento riguardava il problema dell’accertamento del nesso causale e la determinazione della data di insorgenza di ciascuna malattia patita dai vari lavoratori; è stato infatti sostenuto che non essendo emersi dati certi sul momento di insorgenza delle malattie gli eventi lesivi non potrebbero essere attribuiti agli imputati poiché se insorti prima del periodo in cui gli imputati hanno ricoperto le cariche all’interno della società le loro omissioni non avrebbero avuto effetto condizionante, mentre se insorti dopo ugualmente avrebbe dovuto comunque essere escluso l’effetto causale.
Al proposito però sottolineava il primo Giudice come per interpretazione giurisprudenziale costante il rapporto causale viene ritenuto sussistente non solo quando ad una determinata azione od omissione consegue il verificarsi dell’evento ma anche in relazione alla natura ed ai tempi dell’offesa, nel senso che deve riconoscersi la sussistenza di nesso causale in tutti i casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero quando alla condotta colposa omissiva sia ricollegabile una accelerazione dei tempi di latenza di una malattia pur provocata da un’altra causa.
E con specifico riferimento all’asbestosi polmonare, poi, il Tribunale di primo grado affermava un rapporto esponenziale tra dose di amianto assorbita e insorgenza e recrudescenza della malattia sicchè all’aumento dell’esposizione consegue una maggiore incidenza della malattia ed un più breve periodo di latenza; pertanto, una volta accertato il dato che l’esposizione all’inalazione di massicce dosi di amianto ha effetti patogenetici sulla latenza di una malattia già esistente o sull’insorgenza di una non ancora insorta, non risulta decisivo l’accertamento su quale sia stata la data dell’assunzione delle funzioni di amministratore da parte di ciascuno degli imputati e se la patologia di ogni lavoratore fosse già insorta in tal momento, poiché la causalità deve ritenersi provata anche nei casi in cui l’evento sia stato appunto accelerato nel tempo.
Peraltro, aggiungeva il Giudice, che il nesso causale deve ritenersi provato anche quando l’evento sia riconducibile alla condotta colposa dell’imputato sia pure con criteri alternativi.
Per quanto atteneva poi alla individuazione dell’elemento soggettivo della colpa, e in particolare alla precisazione delle specifiche normative riguardanti la pericolosità dell’amianto e delle fibre dello stesso in relazione alla prevedibilità, il Giudice di primo grado specificava che sin dai primi decenni del 1900 erano emersi i primi studi in cui venivano analizzati gli effetti patogenetici derivanti dalla inalazione delle polveri di amianto sia con riferimento all’asbestosi che con riferimento al mesotelioma maligno. La diffusione di pubblicazioni scientifiche era tale per cui già nel 1909 agli effetti nocivi delle inalazioni d’amianto si faceva riferimento nella normativa dettata in tema di tutela di donne e fanciulli dall’applicazione al lavoro insalubre; inoltre il già citato d.p.r. del 1956 si era diffuso notevolmente sulle protezioni da polveri diffuse all’interno dei reparti di lavoro sino a quando nel 1992, come già stato detto, veniva definitivamente vietato qualsiasi uso dell’amianto.
Riteneva pertanto, nel caso di specie, che se i datori di lavoro avessero adempiuto all’obbligo di costante aggiornamento professionale avrebbero potuto prevedere gli eventi dannosi verificatisi, poiché le cognizioni scientifiche erano già sufficienti per ritenere che l’esposizione all’amianto poteva essere causa di malattie gravemente lesive della salute dei lavoratori, circostanza questa peraltro già affermata in numerose decisioni della Corte di Cassazione riguardanti condotte analoghe.
In definitiva quindi, il Giudice di primo grado, riteneva sussistente il requisito della prevedibilità dell’evento e così anche l’elemento della colpa poiché gli imputati, sui quali incombeva per la posizione rivestita nella compagine aziendale l’obbligo di salvaguardare l’integrità fisica dei lavoratori, avevano trascurato l’attività di informazione e non avevano adottato alcuna cautela per la tutela dalla incontrollata esposizione alla inalazione delle fibre, nonostante alla rispettiva data di assunzione della carica di rappresentante legale fosse già prevedibile che tali condotte omissive colpose potevano cagionare gravi danni alla salute dei lavoratori.
Con specifico riferimento poi alla posizione dell’imputata ** Carmela Rita il Tribunale monocratico riteneva che le difese mosse nei riguardi della stessa relative all’avvenuta copertura della carica di legale rappresentante quale Presidente del Consiglio di Amministrazione in un limitato periodo temporale di 10 mesi del 1987 al 1988, non potessero comunque trovare accoglimento.
Sul punto, infatti, il Tribunale affermava essere stato accertato che a fronte della titolarità della carica l’imputata aveva totalmente pretermesso qualsiasi dovere di gestione, di controllo e di intervento dell’amministrazione ordinaria straordinaria della società. Tale completo ed ingiustificato disinteresse doveva ritenersi quindi integrare una condotta colposa poiché l’omissione di qualsiasi comportamento sia di amministrazione che di vigilanza deve imputarsi all’autore quale violazione delle normative specifiche riguardanti la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Precisava poi che, durante il periodo di 10 mesi nel quale l’imputata aveva ricoperto la carica, i lavoratori erano stati esposti all’inalazione di polveri di amianto in quelle condizioni igienico ed ambientali precedentemente descritte, in modo da far insorgere malattie o comunque accelerare le latenze delle malattie già precedentemente in sorte. Un periodo di 10 mesi, infatti, veniva ritenuto dal Tribunale di primo grado comunque idoneo ai fini dell’adozione di interventi riguardanti la manutenzione e la gestione ordinaria dell’impresa e di vigilanza sull’andamento generale della stessa, sicché il ristretto periodo temporale, non impediva l’assunzione di provvedimenti diretti a garantire l’osservanza da parte dei lavoratori delle norme in materia di uso delle docce, di uso delle mense, di modalità di pulizia dei luoghi di lavoro, di uso dei sistemi di protezione individuale ed avendo omesso qualsiasi intervento la ** in tali campi doveva pertanto ritenersi responsabile.
Ad analoghe conclusioni di primo grado perveniva anche con riferimento alla posizione dell’imputato Giuseppe ** il quale risulta avere ricoperto la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione e di  rappresentante legale della società dal 28 ** 1992 fino all’anno 2001 e ciò in un periodo prossimo all’applicazione di quella legge del 1992 che aveva imposto il divieto assoluto di uso dell’amianto. Il Tribunale riteneva infatti che detto imputato avesse ricoperto la carica di rappresentante legale per un periodo compreso tra l’** del 92 e la fine del 1993 in cui era stato consentito alla ** la prosecuzione dell’attività di produzione di manufatti in cemento ed amianto sicchè la mancata adozione anche da parte dello stesso di qualsiasi provvedimento e la continua esposizione da parte dei lavoratori all’inalazione delle polveri velenose, doveva ritenersi integrare una condotta colposa casualmente ricollegabile all’insorgenza delle malattie o comunque all’accertamento delle latenze di malattie già insorte.
E ciò anche perché i numerosi testimoni escussi avevano riferito che le violazioni alle normative in tema di prevenzione infortuni erano state poste in essere sino a tutto il 1993 sì che il limitato periodo temporale in cui l’imputato aveva rivestito la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione non gli impediva l’assunzione di incisivi provvedimenti diretti a garantire l’osservanza da parte dei lavoratori delle normative antinfortunistiche invece totalmente omessi.
Per quanto atteneva poi all’individuazione degli eventi lesivi verificatisi ai danni dei singoli lavoratori, il Giudice di primo grado segnalava una posizione specifica di alcune parti offese (**, **, ** e **) in relazione alle quali riteneva di affermare la responsabilità degli imputati.
Il lavoratore ** Giuseppe **, assunto alle dipendenze della società dalla data di costituzione fino al 1993 con mansioni di operaio addetto al reparto produzione, è deceduto nel febbraio del 2000.
Dall’analisi della documentazione sanitaria risultava che la causa iniziale dell’evento veniva individuata nell’asbestosi, la causa intermedia in un carcinoma polmonare, la causa terminale in una insufficienza respiratoria. Detto lavoratore era stato sottoposto a visita medica da parte del consulente del PM, dott. Randazzese, nel 1998 il quale concludeva trattarsi di soggetto affetto da asbestosi da almeno 15 anni; il consulente inoltre formulava una diagnosi di probabile complicazione neoplastica rappresentata dal mesotelioma. Tale diagnosi veniva ritenuta dal Tribunale del tutto compatibile con la documentazione sanitaria acquisita agli atti del processo costituita dagli atti della commissione medica della ASL n. 2 di Caltanissetta che riconosceva il ** quale invalido totale affetto da adenocarcinoma con metastasi polmonari e asbestosi.
Con riferimento a detto soggetto riteneva quindi provato il Tribunale monocratico che l’elevata e prolungata esposizione all’amianto e il tipo di patologie riscontrate e l’evoluzione delle stesse, costituissero elementi idonei e sufficienti a far ritenere il nesso di causalità tra le condotte omissive degli imputati e l’evento morte.
Prendeva poi in considerazione il primo Giudice la posizione del lavoratore ** Michele, dipendente della società dal 1967 al 1985, deceduto il 4 marzo del 1992. Dall’analisi della documentazione sanitaria e dalla relazione del consulente del Pubblico Ministero risultava un nesso di causalità tra la malattia professionale asbestosi e la morte del soggetto dovuta ad insufficienza respiratoria acuta. In particolare, ripercorrendo la storia clinica del lavoratore, il Tribunale di primo grado evidenziava che già nel 1978 al medesimo era stata diagnosticata la asbestosi che poteva essere considerata, secondo una relazione medica del 31 luglio 92 del medico legale, quale concausa della involuzione patologica che aveva portato al decesso del ** a causa di un improvviso shock collocato ad una insufficienza respiratoria. Anche in questo caso quindi l’elevata e prolungata esposizione all’amianto del lavoratore che aveva prestato attività sotto la dirigenza degli imputati ** ** Giuseppe e ** **, il tipo di patologia riscontrata e l’evoluzione della stessa, doveva far ritenere il nesso di causalità tra le condotte omissive dei predetti imputati e l’evento morte.
** Giuseppe risultava avere prestato attività alle dipendenze della società ** dal 1967 al 1977 con le mansioni di operaio addetto al reparto produzione delle vasche; lo stesso era deceduto in data 20 luglio 1994. Dalla deposizione della moglie di tale soggetto risultava che il marito era incaricato della definizione delle vasche e quindi addetto all’uso della smerigliatrice e che era solito tornare a casa con indosso abiti sporchi usati sul luogo di lavoro. Dal certificato necroscopico risultava che detto soggetto era deceduto inizialmente a causa dell’asbestosi polmonare, quale causa intermedia veniva individuata una neoplasia pleurica cioè un mesotelioma e come causa terminale l’insufficienza respiratoria e versamento pleurico. Anche in tal caso il consulente del PM ha concluso per la sussistenza di un nesso di causalità tra la morte e l’attività svolta dallo ** durante la vita lavorativa, conclusioni basate sull’esame della documentazione sanitaria acquisita, dalla quale emergeva che già nel 1977 al lavoratore era stata diagnosticata la asbestosi e l’insufficienza respiratoria. Nel 1993 poi il paziente era sottoposto a TAC torace ed era ritenuto colpito dal mesotelioma sì che alla luce delle cartelle cliniche e delle conclusioni del consulente del PM riteneva il primo Giudice la sussistenza del nesso causale tra la asbestosi ed il mesotelioma e la inalazione di fibre di amianto da parte del predetto lavoratore.
Tali malattie erano degenerate al punto da cagionare poi la morte del predetto. Anche in questo caso quindi l’elevata e prolungata esposizione all’amianto, il tipo di patologie riscontrate, l’evoluzione delle stesse, in coincidenza con i tempi di incubazione costituivano elementi idonei a far ritenere il nesso di causalità tra le condotte omissive dell’imputato ** e l’evento morte.
Infine, il Giudice di primo grado, tra i soggetti deceduti analizzava la posizione del lavoratore ** Giuseppe dipendente della società dalla costituzione al 1981 con mansioni di operaio addetto al reparto produzione ed alla riparazione dei macchinari, scomparso nel novembre del 2005. Detto soggetto era stato anche escusso come testimone nel corso dell’istruzione dibattimentale e aveva riferito di aver lavorato alle dipendenze della società con la qualifica di meccanico, di avere svolto le mansioni senza l’utilizzazione di maschere di protezione, aggiungendo di essere frequentemente entrato in contatto con il materiale presente nei macchinari, ricordando anche che l’ambiente era polveroso e il ricambio dell’aria insufficiente. Dalla analisi della documentazione medica risultava che il lavoratore era deceduto per causa iniziale asbestosi, causa intermedia cancro polmonare, causa terminale arresto cardio- circolatorio; lo stesso era stato sottoposto a visita medica da parte del consulente del PM il quale aveva ritenuto trattarsi di soggetto affetto da malattia professionale asbestosi, così come era già risultato dal ricovero nel 2002 presso l’Istituto di Medicina del Lavoro di Palermo, dove gli veniva diagnosticata la asbestosi polmonare a seguito di esame TAC.
Riteneva il Tribunale che anche in questo caso quindi l’elevata e prolungata esposizione all’amianto, poiché il predetto lavoratore aveva lavorato ininterrottamente alla ** sotto la dirigenza degli imputati ** ** Giuseppe e **, il tipo di patologie riscontrate, l’evoluzione delle stesse, la coincidenza con i tempi ordinari di incubazione, costituissero elementi idonei e sufficienti a far ritenere sussistente il nesso di causalità tra le condotte omissive dei predetti imputati e la morte del **.
Dichiarava poi il primo Giudice non doversi procedere nei confronti dei quattro imputati essendosi tutti i reati di lesioni colpose estinti per intervenuta prescrizione.
Irrogava infine le pene già indicate condannando gli imputati anche al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite e liquidando per ciascuna delle persone decedute una provvisionale di €20.000 in favore dei congiunti costituiti in giudizio, rinviando al separato giudizio civile per la definitiva determinazione del danno; condannava altresì gli imputati al risarcimento del danno in favore della parte civile Legambiente, Comitato Regionale Siciliano, ritenendo trattarsi di associazione a diffusione regionale operante per la tutela della natura, dell’ambiente e della salute collettiva poiché la condotta in concreto accertata a carico degli imputati avendo determinato una lesione dei diritti istituzionali dell’ente doveva ritenersi causa attiva di danno anche nei confronti della predetta associazione.
Avverso detta sentenza proponeva impugnazione il difensore di ** **, ** Carmela Rita, e ** Giuseppe. Deduceva innanzitutto l’appellante difesa l’impossibilità in tutti i casi presi in considerazione dal Giudice di primo grado, di risalire alla condotta specifica causa attiva della malattia del lavoratore, non avendo potuto il giudizio di primo grado individuare le circostanze specifiche che hanno accompagnato la contrazione della malattia sotto il profilo del momento temporale e dell’omissione causale; constatata pertanto l’assenza di prova in ordine alla precisa identificazione della condotta che aveva determinato la contrazione della malattia, e la genericità dell’accusa mossa nei confronti di tutti gli imputati, l’appellante sottolineava altresì che in ordine ai mezzi protettivi dall’inalazione delle fibre di amianto velenose era stato accertato come tali oggetti fossero disponibili sul luogo di lavoro non potendosi pertanto contestare tale fatto agli imprenditori.
In sostanza, non essendo possibile l’individuazione del preciso momento temporale della contrazione della malattia ed avendo l’istruzione dibattimentale accertato che i mezzi protettivi erano disponibili, la responsabilità della contrazione della patologia doveva essere attribuita unicamente alla negligenza del preposto ed all’imprudenza del singolo operaio.
Deduceva ancora non essere sufficiente l’accertamento della presenza dell’amianto nell’organismo al momento della morte, essendo necessario viceversa identificare che proprio la presenza di tale componente aveva cagionato il decesso; nella maggior parte dei casi del procedimento invece il periodo di tempo trascorso tra la ingestione dell’amianto ed il decesso dell’operaio è pari ad un svariato numero di anni sicché doveva ritenersi non sussistente un rapporto di causalità tra amianto e morte quanto meno in termini di assoluta certezza così come peraltro riferito dal consulente tecnico nominato dal Pubblico Ministero nel corso dell’udienza dibattimentale del 3 febbraio 2005, quando lo stesso aveva dichiarato che era soltanto verosimile che la morte era da attribuire all’ingestione di tale fibra.
Inoltre, per l’imputata **, andava sottolineato che la stessa aveva ricoperto la carica di rappresentante legale per un periodo assolutamente limitato e senza svolgere alcuna attività concreta sicché la contestazione non avrebbe dovuto essere mossa nei suoi confronti.
Chiedeva pertanto l’assoluzione degli imputati ed in subordine la concessione delle attenuanti generiche, il minimo della pena e la sospensione condizionale della stessa.
Proponeva altresì l’impugnazione la difesa della parte civile chiedendo la liquidazione delle spese per il consulente di parte dottor Milisenna per l’importo di € 1800.
Il difensore di ** ** Giuseppe proponeva impugnazione lamentando che la responsabilità penale degli imputati era stata ritenuta benché la società per azioni fosse caratterizzata dalla presenza di un Consiglio di Amministrazione composto da più soggetti e da una complessa rete di deleghe funzionali ad altre persone quali i signori Barbieri e Falzone responsabili dello stabilimento, il primo già condannato per i medesimi fatti oggetto del presente procedimento. Deduceva poi alcune carenze della sentenza impugnata rappresentando che precedentemente alle attività della S.p.A. ** gli stessi lavoratori poi deceduti, presi in considerazione nel primo giudizio, avevano prestato attività lavorativa alle dipendenze della società **, anch’essa avente come oggetto sociale la produzione e commercializzazione di manufatti in cemento ed amianto, senza che alcun atto di cessione di azienda tra le predette società fosse mai stato accertato; doveva pertanto ritenersi altamente probabile che le condotte colpose fossero tutte riferibili agli ambienti di lavoro esistenti presso la ** S.p.A. e non anche presso la **.
Deduceva poi che la responsabilità era stata affermata senza aver riguardo al conferimento delle deleghe ai direttori responsabili dello stabilimento industriale.
Con particolare riferimento alle patologie dei singoli lavoratori deceduti contestava come il ** avesse prestato attività lavorativa alla dipendenze della ** dal 1963 al 1969 senza che il dibattimento avesse potuto accertare se il dipendente aveva subito la contaminazione presso l’una o l’altra società, non potendo essere individuato sotto il profilo temporale il momento preciso dell’insorgere della patologia; in ordine a questo lavoratore aggiungeva ancora che lo stesso era un forte fumatore sicché il cancro polmonare poteva essergli stato cagionato proprio da tale vizio. Aggiungeva al proposito non esservi alcuna prova dello sviluppo del cancro polmonare quale conseguenza dell’asbestosi trattandosi di un’ipotesi non suffragata da alcuna prova.
In ordine alla posizione del lavoratore ** Giuseppe **, esponeva come il referto radiografico avesse concluso in termini di incerta probabilità in ordine alla esistenza di una asbestosi polmonare, peraltro contratta da oltre 15 anni; tale lunga latenza incide sulla causalità temporale dell’evento e segnalava inoltre come per tale lavoratore non vi era nessuna certezza sulle modalità e sulle cause del decesso.
Analoghe considerazioni svolgeva per il lavoratore ** Giuseppe che aveva avuto diagnosticata la asbestosi già nel 1977 e che aveva anch’esso lavorato alle dipendenze della società **, così come l’altro lavoratore ** Michele che riceveva diagnosi di asbestosi nel 1978 e che, appunto, era addetto alla produzione di manufatti in cemento-amianto già alle dipendenze della differente società. Peraltro per tale lavoratore evidenziava come la causa diretta del decesso fosse l’infarto basale.
Doveva pertanto ritenersi che le risultanze dibattimentali avevano fatto emergere una gravissima responsabilità addebitabile agli organi direttivi della ** ai loro amministratori ed ai loro controllori, responsabilità che non poteva essere invece addossata all’azienda differente, **, che aveva ereditato i lavoratori già contaminati da malati; sul punto pertanto affermava non esservi un solo dipendente che fosse deceduto a causa delle lavorazioni svolte soltanto alla ** né esservi stata alcuna emergenza processuale idonea ad attestare ciò e ad escludere che i decessi fossero invece tutti attribuibili alle attività lavorative svolte alle dipendenze della differente società precedentemente costituita ed operativa. Aggiungeva che il consulente di parte dottor ** aveva precisato come la malattia avendo la capacità di continuare ad aggravarsi e di evolvere nel tempo, non fosse correlata alla prosecuzione della esposizione e all’accumulo di ulteriori dosi di amianto sì che doveva ritenersi sussistere un elevato grado di dubbio in ordine alla possibilità di individuare il momento temporale di contrazione della patologia nel periodo di attività lavorativa svolto alle dipendenze della **. Non potendo pertanto essere affermata una causalità al di là di ogni ragionevole dubbio doveva escludersi la responsabilità degli imputati, che peraltro avevano sin dalle prime fasi della produzione concesso una precisa e specifica delega ai signori Barbieri e Falzone al fine di eseguire e fare eseguire e rispettare tutte le norme vigenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. L’estraneità degli amministratori alla condotta colposa era altresì desumibile dalla presenza di un comitato tecnico di fabbrica e di un consiglio di fabbrica che avrebbero dovuto vigilare sulla corretto esercizio delle deleghe e quindi sulla esatta osservanza delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
In conclusione chiedeva quindi assolversi l’imputato ** ** con formula piena ed in ogni caso concedersi allo stesso le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti contestate.
Proponeva altresì impugnazione il difensore degli imputati ** Carmela Rita e ** Giuseppe, ritenuti responsabili in concorso con gli altri imputati della sola morte del lavoratore **. In particolare, con riferimento al decesso del predetto soggetto, l’appellante difensore sottolineava come il consulente del Pubblico Ministero aveva affermato che lo stesso era affetto da asbestosi e che avesse patito anche una gravissima complicazione neoplastica rappresentata dal mesotelioma; anche la Tac eseguita presso l’azienda ospedaliera San Paolo di Milano evidenziava una sospetta degenerazione mesoteliomatosa sì che doveva ritenersi che proprio a causa di tale ultima patologia il lavoratore era deceduto.
Aggiungeva pertanto che in presenza di un mesotelioma maligno della pleura, il Giudice avrebbe dovuto compiere l’accertamento della causa della morte con maggior rigore poichè mentre l’asbestosi pur essendo una patologia grave che può talvolta condurre a morte è comunque compatibile con la sopravvivenza, il mesotelioma è una malattia ad esito certamente velocemente mortale sì che rilevanti conseguenze discendono dalla identificazione in questo tipo di neoplasia della causa della morte, proprio con riferimento alla posizione specifica degli imputati ** Carmela e ** Giuseppe i quali hanno ricoperto la carica di rappresentanti legali per limitati periodi temporali durante i quali veniva utilizzato l’amianto per la fabbricazione dei prodotti da parte dell’opificio industriale.
Proprio sulla base di tali considerazioni riteneva infatti l’appellante che alla condotta addebitata agli imputati non poteva essere attribuito nessun rilievo causale rispetto alla patologia che aveva determinato la morte del ** è ciò in presenza di due profili autonomi costituiti dalla irrilevanza delle dosi di esposizioni successive a quelle responsabili della malattia tumorale costituito dal mesotelioma che aveva cagionato la morte, e comunque dalla impossibilità che le esposizioni aggiuntive abbiano potuto creare alcun effetto in considerazione dei tempi di latenza del mesotelioma.
Sotto il primo profilo l’appellante evidenziava come i consulenti tecnici escussi nel giudizio di primo grado avevano precisato le differenze tra asbestosi e mesotelioma; il secondo invero è una patologia che non è correlata alla prosecuzione della esposizione e all’accumulo di ulteriori dosi di amianto sicché deve ritenersi sostanzialmente irrilevante l’esposizione successiva all’amianto rispetto al mesotelioma pleurico. Proprio sulla base di tali considerazioni doveva ritenersi che avuto riguardo al limitato periodo di assunzione della posizione formale di garanzia da parte degli imputati, l’esposizione all’amianto del lavoratore in detto periodo di circa un anno doveva ritenersi assolutamente irrilevante rispetto a quella avvenuta nei periodi precedenti nei quali lo stesso aveva lavorato alle dipendenze per circa 25 anni della società **. Accertato pertanto che il lavoratore era stato esposto all’amianto per un periodo talmente prolungato e sufficiente a determinare la patologia del mesotelioma sulla scorta di un insegnamento scientifico pacifico, non avrebbe avuto senso parlare di aggravamento o di anticipazione della morte; tali considerazioni pertanto impongono l’assoluzione degli imputati del reato loro ascritto per insussistenza del fatto sotto il profilo della carenza del nesso causale tra condotta omissiva colposa ed evento.
Peraltro, riteneva altresì l’appellante difesa, che il nesso causale doveva comunque ritenersi escluso in considerazione del periodo di latenza del mesotelioma e cioè il periodo di tempo in cui l’agente patogeno ha bisogno per esplicare i suoi effetti negativi sull’organismo; infatti il mesotelioma presenta tempi di latenza medi nell’ordine dei 20-40 anni con ipotesi rare sotto 15 e con nessuna evidenza sotto i 10 anni; ora posto che la prima evidenza radiologica del mesotelioma sofferto dal lavoratore ** si colloca nel dicembre ‘98 la causa dello stesso non può essere individuata all’interno del periodo di amministrazione dell’imputata ** ricoperto soltanto 11 anni prima e precisamente nel novembre del 1987; ad analoghe conclusioni doveva pervenirsi necessariamente anche per il periodo di amministrazione di Giuseppe ** il quale inizia a ricoprire la carica nel 1992 e cioè a distanza di soli sei anni dalla diagnosi di mesotelioma a carico del lavoratore evidenziato nel dicembre del 1998.
Per quanto atteneva poi alla qualifica e mansioni della **, l’appellante evidenziava come amministratore unico e sovrano dell’azienda fosse sempre stato il padre della stessa e anche nei periodi in cui la carica di Presidente viene formalmente assegnata alla figlia aveva continuato a gestire da dominus l’azienda.
Orbene, tale situazione, alla luce del criterio giurisprudenziale della effettività delle mansioni ricoperte e dell’impossibilità di individuare i destinatari della normativa antinfortunistica in maniera del tutto formale, dovrà far ritenere sostanzialmente irrilevante la condotta della ** poiché l’unico vero padrone ed effettivo gestore dell’azienda era sempre stato il padre della stessa. Peraltro, la ** nulla avrebbe potuto fare negli otto mesi di carica per risolvere il problema dell’amianto soprattutto con specifico riferimento alla patologia poi subita dal lavoratore **.
Analoghe considerazioni svolgeva poi il difensore appellante anche nell’interesse dell’imputato ** Giuseppe, il quale ha assunto la qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione dal 1992 in poi, momento in cui entrava in vigore la legge 257 che prevede il divieto assoluto di produzioni industriali con amianto sicché deve ritenersi che l’imputato si è occupato di tale prodotto soltanto esclusivamente al fine di gestirne la totale eliminazione dai processi produttivi della società. Tale circostanza, peraltro, doveva ritenersi provata anche in considerazione delle deposizioni dei consulenti che avevano accertato come nel lungo arco temporale di attività l’esposizione all’amianto fosse man mano diminuita mentre eccessivamente rigorosa deve ritenersi l’impostazione seguita dal primo Giudice secondo cui l’imputato nominato amministratore avrebbe immediatamente dovuto far sparire ogni fibra di amianto respirabile dallo stabilimento. Peraltro nessun addebito specifico poteva muoversi all’** in relazione alla posizione del lavoratore poi deceduto.
In via subordinata, l’appellante, lamentava poi la mancata concessione delle attenuanti generiche benché il grado della colpa non potesse ritenersi elevato, avuto anche riguardo al limitato periodo temporale di copertura delle cariche; al proposito evidenziava come entrambi gli imputati sono privi di pregiudizi penali e il loro comportamento processuale deve ritenersi ispirato alla massima onestà poiché gli stessi sono impegnati personalmente al risarcimento delle persone offese come da atti di transazione allegati all’atto di appello.
All’udienza del 27 settembre 2007, svolta la relazione, le parti concludevano come da separato verbale di causa in atti; indi alla successiva udienza dell’11 ottobre la causa veniva decisa come da dispositivo letto in udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ciò posto, ritiene la Corte, che i motivi di gravame proposti nell’interesse dei vari imputati profilano problematiche comuni sicchè dovrà procedersi all’analisi congiunta degli stessi.
Con un primo gruppo di motivi gli appellanti hanno lamentato l’errata ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale monocratico di primo grado, nella parte in cui ha escluso che le deleghe conferite all’interno della ** spa da parte del Consiglio di Amministrazione aventi ad oggetto il rispetto della normativa antinfortunistica, non abbiano assunto carattere decisivo al punto da escludere la responsabilità dei legali rappresentanti dell’impresa succedutisi nel tempo.
In particolare, è stato prospettato che all’interno della ** spa era stata adottata una precisa ripartizione di compiti, in funzione dei quali era stata adottata una complessa rete di deleghe funzionali ad altre persone rispetto ai legali rappresentanti e precisamente ai i signori Barbieri e Falzone, responsabili dello stabilimento.
Sul punto, però, occorre richiamare quanto già sufficientemente ed esaurientemente esposto dal Tribunale monocratico in motivazione; invero è stato sottolineato dal primo Giudice alle pagg. 55 e segg. della sentenza impugnata che da nessun atto risulta che ai sopra indicati capi reparto fossero stati delegati poteri deliberativi, organizzativi e di spesa nella materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro tali da escludere qualsiasi responsabilità dei Consigli di Amministrazione; in sostanza accertato che le violazioni alla normativa antinfortunistica dipendevano, soprattutto, dalla mancata predisposizione di strumenti di sicurezza e dall’inidoneità dei locali e dei sistemi produttivi, le deleghe conferite non potevano assumere efficacia esimente della responsabilità dei rappresentanti legali atteso che i capi reparto delegati non avevano il potere di disporre quegli atti di straordinaria amministrazione e di spesa necessari ed indispensabili per potere adottare le trasformazioni indispensabili del sistema produttivo.
Ed in ogni caso, segnalava il primo Giudice, permane comunque anche in presenza di delega funzionale un potere di controllo ed intervento sostitutivo degli amministratori delegati diretto appunto ad accertare il corretto esercizio della delega in tema di prevenzione infortuni.
Entrambi gli assunti sono certamente condivisibili in forza di un costante insegnamento giurisprudenziale; invero la Suprema Corte ha avuto modo di stabilire che:” Nel caso di imprese gestite da societa’ di capitali, gli obblighi concernenti l’igiene e la sicurezza del lavoro gravano su tutti i componenti del consiglio di amministrazione. La delega di gestione in proposito conferita ad uno o piu’ amministratori, se specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, puo’ ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiche’ non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega” (Cass. 988/2003).
Peraltro detto arresto giurisprudenziale attiene proprio ad un caso del tutto analogo a quello avente ad oggetto il presente procedimento e cioè alla mancata predisposizione di idonei strumenti protettivi dall’inalazione di fibre di amianto; invero trattasi di fattispecie relativa ad impresa il cui processo produttivo, riguardando beni realizzati anche con amianto, aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri. La Corte ha ritenuto, pur a fronte dell’esistenza di amministratori muniti di delega per l’ordinaria amministrazione, e dunque per l’adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell’attivita’ produttiva, che gravasse su tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell’azienda, il cui radicale mutamento – per l’onerosita’ e la portata degli interventi necessari – sarebbe stato indispensabile per assicurare l’igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali.
L’applicazione del sopra esposto principio al caso in esame non può che far concludere per la permanenza della responsabilità del Presidente del Consiglio di Amministrazione e rappresentante legale della società pur in presenza di delega conferita a singoli capi reparto, poiché il potere-dovere di assicurazione delle misure antinfortunistiche e di intervento sostitutivo non ammette la totale dismissione in capo al suo titolare ad eccetto delle organizzazione aziendali di amplissime dimensioni, ipotesi questa differente da quella della ** spa dotata di un singolo stabilimento e di un numero di operai pur sempre contenuto.
Peraltro, come già anticipato sul punto, la giurisprudenza della Suprema Corte ha anche chiarito che l’eventuale esonero di responsabilità in capo al delegante può conseguire esclusivamente qualora si accerti in concreto che il delegato fosse stato munito di tutti i poteri, compresi quelli di spesa per l’aggiorcquisto di sistemi di protezione individsuale,quelli di spesa per l’re esclusivamente qualora si accerti in cocnreto n numero dnamento dei sistemi produttivi e per l’acquisto di sistemi di protezione individuale, idonei ad assicurare in concreto l’adozione delle misure antinfortunistiche, mentre, nel caso in esame, non può ritenersi in alcun modo accertato che i sigg. Barbieri e Falzone detti poteri di spesa ed intervento sostitutivo possedessero, così come già ritenuto dal Tribunale monocratico di primo grado.
Rimane fermo poi il dovere a carico del datore di lavoro di intervento sostitutivo pur nelle ipotesi di distribuzione degli oneri; al proposito invero è stato affermato che se piu’ sono i titolari della posizione di garanzia (nella specie, relativamente al rispetto della normativa antinfortunistica sui luoghi di lavoro), ciascuno e’, per intero, destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, con la conseguenza che, se e’ possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, e’, pero’, doveroso per l’altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente intervenuto. Cio’ deve ritenersi sia quando le posizioni di garanzia siano sullo stesso piano, sia, a maggior ragione, allorche’ esse non siano di pari grado, giacche’, in tale ultima evenienza, il titolare della posizione di garanzia, il quale vanti un potere gerarchico nei confronti dell’altro titolare investito, a livello diverso, della posizione di garanzia rispetto allo stesso bene, non deve fare quanto e’ tenuto a fare il garante subordinato, ma deve scrupolosamente accertare se il subordinato e’ stato effettivamente garante ossia se ha effettivamente posto in essere la condotta di protezione a lui richiesta in quel momento (Cass.38810/2005). 
Pertanto nel caso di specie la posizione sovraordinata dei rappresentanti legali imponeva loro di controllare costantemente l’esatto adempimento da parte dei direttori dei reparti dell’osservanza delle misure antinfortunistiche ed altresì di intervenire in via sostitutiva in presenza delle molteplici violazioni accertate nel corso dell’istruzione dibattimentale che riguardavano l’obbligo di fornire adeguate informazioni ai lavoratori nonchè l’adozione di strumenti di protezione individuale e collettiva idonei ad impedire la diffusione delle polveri nocive.
Al proposito poi, è stato anche sostenuto dagli appellanti che lo stato scientifico delle conoscenze attinenti la pericolosità e nocività dell’asbesto non imponeva ai rappresentanti legali l’adozione di misure differenti da quelle in concreto assunte all’interno dello stabilimento industriale della **.
Tale prospettiva è però infondata; invero sussistono plurimi motivi per ritenere che le conoscenze circa la pericolosità e nocività dell’amianto già agli inizi degli anni ’70 non fossero note esclusivamente a ridotti ambienti scientifici, quanto talmente diffuse da imporre l’adozione di rigorose misure antinfortunistiche nel caso in esame non attuate; si pensi innanzitutto, così come sottolineato dal primo Giudice, alle norme dettate sia dal R.D. 530/1927 che dal fondamentale DPR 303/1956 in tema di adozione di strumenti di protezione dal contatto dei lavoratori con le polveri, che imponevano già l’utilizzazione di qualsiasi sistema idoneo ad impedire o comunque fortemente ridurre lo sviluppo e la diffusione di tali materiali nell’ambiente di lavoro.
E poi, proprio con specifico riferimento alla particolare pericolosità dell’amianto, si segnalano interventi normativi che indiscutibilmente segnalavano la particolare nocività di tale prodotto anteriori alla messa in opera dello stabilimento industriale della ** spa; invero con la legge 455 del 1943 veniva estesa la tutela previdenziale dei lavoratori con la copertura dell’assicurazione obbligatoria anche per i casi di silicosi ed asbestosi e con il DPR 1124 del 1965 si adottava il nuovo testo unico in tema di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali disponendosi specificamente, all’art. 157 comma 4°, che i lavoratori affetti da asbestosi non possono essere destinati a lavorazioni che espongono a inalazioni di polvere di amianto, disposizione questa non osservata dai legali rappresentanti della ** secondo quanto si dirà appresso .
E’ certo quindi che già precedentemente all’inizio delle attività industriali da parte della ** spa (1 gennaio 1968) l’asbestosi, e cioè quella specifica e grave patologia cagionata dalla inalazione di fibre di amianto cui sono esposti i lavoratori a contatto con tale particolare materiale, era già conosciuta quale malattia professionale sicchè i datori di lavoro dovevano certamente essere a conoscenza, e se non lo furono ogni eventuale errore sul punto non pare certo scusabile atteso il parametro di cui all’art. 5 c.p., di tale caratteristica del materiale trattato in quell’impianto industriale e su loro certamente incombeva l’obbligo di adottare le misure antinfortunistiche a maggior protezione dei lavoratori poiché questi ultimi erano esposti a contatto non con una qualsiasi polvere bensì con una specie che per le sue particolari caratteristiche ha la capacità di infiltrarsi nell’organismo con effetti spesso letali.
Al proposito, infatti, è appena il caso di segnalare, oltre a quanto già ampiamente esposto dal Tribunale di primo grado, che l’asbestosi è una malattia respiratoria cronica legata alle proprietà delle fibre di asbesto di provocare una cicatrizzazione del tessuto polmonare; ne conseguono irrigidimento e perdita della capacità funzionale. Le fibre di amianto penetrano con l’aria attraverso la bocca ed il naso, procedendo poi lungo la faringe, la laringe, la trachea ed i bronchi fino ad arrivare agli alveoli polmonari.
Le vie respiratorie possono ostacolare la penetrazione di particelle che abbiano un diametro maggiore di cinque millesimi di millimetro mentre le fibre di asbesto hanno un diametro molto piccolo sicchè una parte di quelle che vengono respirate non riesce ad essere espulsa restando negli alveoli e provocando una irritazione che evolve poi in una lesione cicatriziale e quindi in vera e propria asbestosi.
Ciò che occorre sottolineare al proposito è che la quantità di asbesto che resta intrappolata nei polmoni, è legata alla quantità totale di asbesto inalato, e dunque all’intensità ed alla durata dell’esposizione: l’asbestosi pertanto è una malattia in cui esiste una stretta relazione fra dose di asbesto inalata e risposta dell’organismo, quindi tipica di una esposizione professionale.
La malattia insorge dopo un periodo di latenza di molti anni, porta ad un aggravamento dei disturbi respiratori e può giungere a quadri di insufficienza respiratoria gravissimi e infine mortali; non esiste una terapia specifica e non è possibile pertanto una guarigione delle lesioni polmonari. La malattia può essere complicata da infezioni ed inoltre nei polmoni asbestotici è più facile l’insorgenza di tumori polmonari e mesoteliomi pleurici.
Le particolari caratteristiche di tale patologia imponevano quindi l’adozione dei più rigorosi sistemi antinfortunistici, sia generali che individuali, senza che possa ritenersi in alcun modo che agli inizi degli anni ’70 la tossicità da asbesto fosse nozione ristretta a pochi ed isolati ambienti scientifici.
Peraltro, in tema di prevenzione infortuni e conoscenze scientifiche di settore, è stato ritenuto che:” Il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non e’ sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico s il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e piu’ sofisticati presidi per rendere la stessa sempre piu’ sicura. L’art. 2087 cod. civ., infatti, nell’affermare che l’imprenditore e’ tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa misure che, secondo le particolarita’ del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrita’ fisica e la personalita’ morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche” (Cass.10164/1994).
Sussiste quindi a carico del datore di lavoro un duplice obbligo che nel caso in esame appare essere stato violato; da un lato infatti egli deve  ex art. 2087 cod. civ., aggiornarsi sulle tecniche di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e non puo’ addurre a propria scusa, in caso di inosservanza del detto obbligo, la mancata informazione al riguardo da parte di organi ispettivi o di controllo (Cass.3567/2000); dall’altro poi quale responsabile della sicurezza, ha l’obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtu’ della generale disposizione di cui all’art. 2087 cod. civ., egli e’ costituito garante dell’incolumita’ fisica dei prestatori di lavoro (Cass.20595/2005). Ed entrambi i predetti obblighi appaiono quantomeno non puntualmente osservati nel caso in esame in quanto i rappresentanti legali della ** non risultano avere sorvegliato sull’applicazione delle misure antinfortunistiche né adeguatamente predisposto le stesse.
La difesa degli imputati ** ** Giuseppe e ** ** ha anche sostenuto che l’istruzione dibattimentale ha fornito prova della riconducibilità delle violazioni alla normativa antinfortunistica alle attività del complesso aziendale della ** e cioè a quell’impresa che aveva preceduto la ** spa nella lavorazione dell’amianto e presso la quale i lavoratori deceduti avevano già prestato attività lavorativa sicchè, soltanto alla colpa dei dirigenti e preposti di tale impianto, avrebbero dovuto ricollegarsi casualmente gli eventi lesivi.
L’assunto è però infondato non potendo desumersi tale dato da una completa e corretta lettura delle risultanze dibattimentali di primo grado costituite, al proposito, dalle deposizioni dei numerosi lavoratori escussi.
Invero, sul punto non può che rimandarsi alla parte motiva della sentenza di primo grado e precisamente alla esposizione dei singoli obblighi antinfortunistici non osservati, nell’esame dei quali il Tribunale di Caltanissetta indicava specificamente le fonti probatorie testimoniali sulla base delle quali ritenere che anche allo stabilimento della ** spa erano numerose le violazioni predette; orbene, da un diretto riscontro operato da questa Corte le deduzioni operate dal primo Giudice sono risultate effettivamente fondate su quanto riferito dai numerosi testi escussi nel corso dell’istruzione, complessa ed articolata, svoltasi dinanzi al Tribunale sicchè le conclusioni sul punto, e cioè che non solo alla ** ma anche alla **, furono poste in essere numerose condotte colpose soprattutto nei primi anni di attività paiono certamente condivisibili.
In particolare, può ritenersi accertato che proprio presso la ** spa non venne effettuata una specifica e doverosa attività di informazione preventiva circa i rischi connessi alla lavorazione dell’amianto (testi **, **, **,) o quantomeno ciò era avvenuto in forte ritardo rispetto all’inizio delle attività alla fine degli anni ’60; non erano stati adottati idonei strumenti di protezione individuale sino alla metà degli anni ’70 e comunque imposto l’uso degli stessi da parte dei lavoratori ( testi **, i) e solo a partire dalla metà degli anni ’80 era iniziata la distribuzione di maschere antipolvere dotate di filtri ed a tenuta stagna (testi **,); non era mai stato curato l’adempimento dell’obbligo di fare la doccia al termine del turno di lavoro (testi **, **, ed altri); non era stato imposto obbligatoriamente l’uso della refezione per consumare i pasti a tutti i lavoratori (testi **, ,); nei primi anni di attività e sino alla fine degli anni ‘70 tutte le attività del reparto produzione avvenivano manualmente con elevato rischio di diffusione delle polveri ed in particolare i sacchi contenenti l’amianto erano trasportati dai lavoratori (testi); veniva fatto uso per la correzione delle imperfezioni dei prodotti lavorati, di macchine smerigliatrici prive di impianti di aspirazione sino agli anni ’80 (testi **, **); le pulizie dei locali venivano effettuate da parte degli stessi lavoratori al termine del turno con l’uso di scope e palette che provocavano la diffusione delle polveri nocive (testi **, **,) e ciò sino alla posa di un pavimento in quarzo ed all’adozione di una particolare macchina pulitrice, eventi però accaduti soltanto negli anni ’80.
Tutte le predette emergenze, pertanto, sono concordi nel far ritenere integrate le plurime violazioni alla normativa antinfortunistica, già segnalate nella parte espositiva del provvedimento di primo grado ed individuate dal primo Giudice, proprio con riferimento alle attività industriali svoltesi all’interno degli stabilimenti della ** spa, senza che possa in alcun modo ritenersi confermata la tesi difensiva della radicale differenziazione tra i sistemi produttivi utilizzati da tale società e quelli invece in uso presso la ** spa, in funzione nei primi anni ’60, sicchè non può ritenersi fondata la conclusione cui perviene la difesa in ordine alla riconducibilità di tutte le patologie esclusivamente alle attività svoltesi alle dipendenze della predetta ** poiché anche presso l’azienda nella quale gli imputati hanno rivestito la carica di rappresentanti legali numerose erano le condizioni per lo sviluppo e l’inalazione delle fibre di amianto che permettevano l’insorgere e l’aggravamento delle patologie ad esso collegate.
Con altri motivi di gravame gli appellanti hanno inoltre prospettato l’insussistenza di un quadro probatorio certo della responsabilità degli stessi in relazione o all’assenza di prova in ordine alla precisa identificazione della condotta che aveva determinato la contrazione della malattia o, comunque, in considerazione della circostanza che alcuni consulenti escussi in sede di istruzione dibattimentale di primo grado hanno riferito che l’asbestosi è una patologia che una volta contratta ha le caratteristiche di evolvere indipendentemente da nuove esposizioni alle fibre di amianto sicchè irrilevanti essendo le successive inalazioni occorrerebbe sempre identificare il preciso momento di contrazione della patologia.
I profili sono entrambi infondati; invero in ordine alla doglianza espressa dalla difesa degli imputati **, ** Carmela e ** Giuseppe, relativa alla genericità dell’accusa contestata, rileva la Corte che l’affermazione di responsabilità per la contrazione di una malattia mortale quale l’asbestosi non richiede necessariamente l’individuazione dello specifico momento in cui la patologia è stata contratta sicchè in assenza di tale prova non può affermarsi alcuna colpevolezza; al proposito, infatti, vanno richiamate quelle brevi note riferite alle caratteristiche di tale patologia che seppure può insorgere per il contatto pur sporadico con fibre di amianto è certo però che essa evolve in presenza di successivi contatti.
Occorre quindi ribadire che la quantità di asbesto che resta intrappolata nei polmoni è legata alla quantità totale di asbesto inalato, e dunque all’intensità ed alla durata dell’esposizione sicchè ad un’esposizione prolungata nel tempo corrisponde un aggravamento delle condizioni di salute, sicchè tutti i responsabili dell’impresa succedutisi nel periodo in cui le inalazioni nocive avvenivano sono certamente chiamati a rispondere del loro comportamento omissivo colposo.
Alcuna influenza pertanto può assumere la circostanza della mancata e precisa individuazione del momento di contrazione della malattia, e cioè se essa sia avvenuta mentre i lavoratori prestavano servizio alla ** od alla ** o piuttosto quando uno o l’altro degli imputati assumeva la carica di rappresentante legale, poiché accertato secondo le valutazioni precedentemente esposte che durante le attività svolte dalla ** fu costante la diffusione delle polveri di amianto e l’inalazione da parte dei lavoratori, deve necessariamente desumersi che tutti i soggetti responsabili nell’intero arco temporale abbiano casualmente contribuito alla determinazione dell’evento morte.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha già avuto modo di esprimersi sulla individuazione del nesso di causalità proprio con specifico riferimento alle patologie cagionate dalla respirazione delle polveri di amianto affermando che:” In tema di causalita’, la dipendenza di un evento da una determinata condotta deve essere affermata anche quando le prove raccolte non chiariscano ogni passaggio della concatenazione causale, e possano essere configurate sequenze alternative di produzione dell’evento, purche’ ciascuna tra esse sia riconducibile all’agente e possa essere esclusa l’incidenza di meccanismi eziologici indipendenti” (Cass. 11-7-2002 n. 988). E tale fattispecie è proprio relativa al decesso di lavoratori in conseguenza dell’inalazione di polveri di amianto, ove – pur nell’assenza di dati certi sull’epoca di maturazione della patologia – e’ stata assegnata rilevanza causale alla condotta di soggetti responsabili della gestione aziendale per una parte soltanto del periodo di esposizione delle persone offese, sul presupposto che tale condotta avesse ridotto i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie gia’ insorte, oppure accelerato i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente.
Né è corretto riferire, sulla base delle dichiarazioni dei consulenti ** e Randazzese, che l’asbestosi una volta contratta evolve indipendentemente dalle successive esposizioni; tale affermazione, consacrata in quei motivi di gravame secondo cui la asbestosi avendo la capacità di continuare ad aggravarsi e di evolvere nel tempo non è correlata alla prosecuzione della esposizione e all’accumulo di ulteriori dosi di amianto sì che deve ritenersi sussistere un elevato grado di dubbio in ordine alla possibilità di individuare il momento temporale di contrazione della patologia nel periodo di attività lavorativa svolto alle dipendenze della **, è vera solo in parte.
Ed infatti se è certo che la patologia predetta può evolvere sino a quadri clinici assai gravi una volta contratta indipendentemente dai successivi contatti è allo stesso tempo vero che essa in presenza di successive ripetute inalazioni certamente aggrava le condizioni del soggetto esposto poiché direttamente proporzionale alla quantità di asbesto che viene inalata.
Se quindi è ben possibile che una volta contratta la malattia la stessa abbia la capacità di arrecare un progressivo decifit funzionale sempre più grave, è certo però che le successive esposizioni arrecano ulteriore danno ai polmoni aggravandone le condizioni sino a causarne la morte.
E tale dato, assolutamente pacifico nella letteratura medica, emerge dalla stessa analisi completa delle risposte fornite dal consulente del Pubblico Ministero dott. Randazzese all’udienza dibattimentale del 3 febbraio 2005, quando lo stesso ha sì precisato che l’asbestosi ha la capacità di evolvere una volta contratta ma altresì aggiunto che la prosecuzione dei contatti determina certamente un aggravamento maggiore della patologia (vedi udienza cit. pag. 20 trascrizioni) così confutando certamente quella tesi difensiva secondo cui dipendendo in sostanza il decesso dei lavoratori dal momento in cui la patologia venne contratta, l’impossibilità pratica di individuare tale momento specifico non può che portare all’assoluzione di tutti gli imputati.
Peraltro è certamente il caso di segnalare che il dott. Randazzese riferiva altresì che nel corso dei suoi accertamenti aveva potuto verificare che più di 40 dipendenti della ** spa erano stati infetti dall’asbestosi e ciò evidentemente, a parere della Corte, a causa delle prolungate esposizioni presso questa azienda così come peraltro espressamente affermato dal predetto consulente nelle sue conclusioni pure esposte all’udienza del 3-2-2005 in cui indicava i nominativi di ben 45 soggetti per i quali riteneva sussistere riconducibilità della malattia sofferta rispetto all’attività lavorativa svolta.
 Sotto tale profilo, pertanto, occorre ribadire   che la prosecuzione delle esposizioni all’inalazione delle fibre nocive costituisce certamente causa pur concorrente dell’evento letale ed è condotta addebitabile a tutti quei soggetti che abbiano violato le normative antinfortunistiche nei rispettivi periodi di copertura della carica di legali rappresentanti dell’azienda.
Tale doglianza introduce l’esame di quella ancor più suggestiva e profondamente argomentata proposta dalla difesa degli imputati ** Carmela e ** Giuseppe, ritenuti responsabili di omicidio colposo in relazione al decesso del solo **, e secondo cui in presenza di un mesotelioma maligno della pleura, causa che si assume esclusiva della morte del **, il Giudice avrebbe dovuto compiere l’accertamento della causa della morte con maggior rigore poichè mentre l’asbestosi pur essendo una patologia grave che può talvolta condurre a morte è comunque compatibile con la sopravvivenza, il mesotelioma è una malattia ad esito certamente velocemente mortale sì che rilevanti conseguenze discendono dalla identificazione in questo tipo di neoplasia della causa della morte proprio con riferimento alla posizione specifica degli imputati ** Carmela e ** Giuseppe i quali hanno ricoperto la carica di rappresentanti legali per limitati periodi temporali.
In sostanza, quindi, si assume che dovendosi individuare la causa del decesso del ** nel mesotelioma, che a differenza dell’asbestosi può essere causato anche da un singolo ed episodico contatto con le fibre di asbesto, nessuna responsabilità può essere affermata nei confronti della ** e dell’** che ebbero a ricoprire la carica di rappresentanti legali la prima per soli 9 mesi ed il secondo per circa un anno e mezzo, in assenza di prova certa che proprio durante tali periodi avvenne la contrazione di tale differente malattia.
Pertanto, secondo la prospettazione della difesa appellante dovendosi affermare necessariamente sulla base delle conoscenze scientifiche l’irrilevanza delle dosi di esposizioni successive a quelle responsabili dell’insorgere di tale malattia tumorale costituita dal mesotelioma che aveva cagionato la morte, e comunque dalla impossibilità che le esposizioni aggiuntive abbiano potuto creare alcun effetto in considerazione dei tempi di latenza del mesotelioma talmente lunghi da dover far ritenere che lo stesso fosse stato contratto prima del periodo di assunzione della posizione di garanzia da parte degli imputati, entrambi i predetti appellanti andrebbero ugualmente assolti per insussistenza del fatto sotto il profilo del difetto del nesso di causalità tra loro omissioni ed evento letale.
Orbene, al proposito, vanno formulate alcune osservazioni che, ad avviso di questa Corte, confutano la fondatezza della sopra esposta testi difensiva; invero non può ritenersi innanzi tutto sicuro che il decesso del ** sia attribuibile alla contrazione del mesotelioma piuttosto che dell’asbestosi.
Dall’analisi del certificato necroscopico risulta infatti che il predetto lavoratore della ** spa decedeva per morte naturale in cui la causa iniziale è stata individuata nell’asbestosi, quella intermedia in un carcinoma polmonare e quella finale nell’insufficienza respiratoria; inoltre il ** veniva sottoposto a visita medica nel 1998 da parte del dott. Randazzese il quale affermava che trattasi di soggetto affetto da asbestosi polmonare da almeno 15 anni, come risultava dall’anamnesi lavorativa, dall’anamnesi patologica e remota, poiché soffriva di dispnea sempre più ingravescente accompagnata da toraco algie, dall’esame obiettivo e da quelli specialistici.
A fronte di tali emergenze il consulente formulava una diagnosi di probabile complicazione neoplastica rappresentata da mesotelioma avendo accertato la presenza di un voluminoso nodulo pleurico.
Già dai predetti dati risulta pertanto sicuro che il ** soffrisse da diversi anni di asbestosi e che, solo probabilmente, nell’ultimo periodo il predetto venne a soffrire anche del mesotelioma della pleura sicchè il quadro clinico già particolarmente grave, esistente precedentemente, venne ulteriormente peggiorato da tale patologia senza però che la stessa possa individuarsi quale unica e certa causa della morte.
Invero sotto il profilo prettamente scientifico non sembra proprio del tutto corretto individuare il mesotelioma quale patologia del tutto indipendente dall’asbestosi essendo anzi statisticamente accertato proprio il contrario e cioè che la stragrande maggioranza dei mesoteliomi interviene su soggetti già affetti da asbestosi; tale deduzione si fonda innanzi tutto sulle espresse affermazioni del dott. Randazzese il quale appunto chiariva all’udienza del 3-2-2005 che il mesotelioma è una neoplasia che non si manifesta quasi mai e che compare per l’85 % dei casi in quei soggetti affetti da asbestosi sicchè quel tipo specifico di mesotelioma può ragionevolmente ritenersi conseguenza dell’asbestosi.
E comunque, se anche tale conclusione non dovesse ritenersi fondata su certezza scientifica, dovendosi certamente riconoscere che l’individuazione del mesotelioma quale conseguenza diretta dell’asbestosi è valutazione espressa in termini solamente probabilistici e non di certezza, va comunque rilevato che attribuire al mesotelioma solamente la causa del decesso del ** è valutazione discordante rispetto alle emergenze istruttorie precedentemente riassunte e già riportate dal Giudice di primo grado; vero è invece che asbestosi e mesotelioma costituirono concause dell’insufficienza respiratoria che determinava poi il decesso del ** poiché la prima patologia al momento del probabile insorgere di quella successiva di carattere tumorale era talmente già sviluppata da costituire una delle condizioni dell’evento letale non esclusivamente attribuibile quindi all’intervento del mesotelioma e ciò sulla base di un giudizio fondato su criteri di certezza più che ragionevole alla luce del gravissimo quadro clinico che l’asbestosi aveva già determinato.
Ritenuto, quindi, conclusivamente che l’asbestosi fu comunque concausa del decesso del ** ed avendo l’istruzione dibattimentale accertato che tale patologia pur contratta in un determinato periodo, si aggrava a fronte di successive inalazioni nocive, ne deriva conseguentemente la corretta affermazione di responsabilità anche di quegli imputati che pur in brevi periodi non adottarono tutte le misure antinfortunistiche necessarie ad impedire la respirazione delle polveri di amianto nocive.
E tale interpretazione risulta proprio avvalorata dall’autorevole insegnamento della Corte di Cassazione che ha già preso in considerazione nella citata sentenza n.988 del 2003 la problematica relativa al concorso di mesotelioma ed asbestosi quali concause del decesso di lavoratori esposti all’inalazione di fibre di amianto ritenendo in senso affermativo che:” In tema di responsabilita’ colposa per violazione di norme prevenzionali, la circostanza che la condotta antidoverosa, per effetto di nuove conoscenze tecniche e scientifiche, risulti nel momento del giudizio produttiva di un evento lesivo, non conosciuto quale sua possibile implicazione nel momento in cui e’ stata tenuta, non esclude la sussistenza del nesso causale e dell’elemento soggettivo del reato sotto il profilo della prevedibilita’, quando l’evento verificatosi offenda lo stesso bene alla cui tutela avrebbe dovuto indirizzarsi il comportamento richiesto dalla norma, e risulti che detto comportamento avrebbe evitato anche la lesione in concreto attuata (Cass.988/2003).
In particolare la Suprema Corte, riteneva che nei casi relativi all’esposizione di lavoratori all’inalazione di polveri di amianto, l’eventuale ignoranza dell’agente circa la possibile produzione di malattie tumorali, e soprattutto del mesotelioma pleurico, fosse irrilevante a fronte dell’omissione di cautele che sarebbero state comunque doverose, secondo le conoscenze dell’epoca, per la prevenzione dell’asbestosi, e cioe’ di una malattia comunque molto grave e potenzialmente fatale, almeno in termini di durata della vita, aggiungendo così un’ulteriore profilo di omissione causale penalmente rilevante.
Dette considerazioni devono indurre a ritenere altresì infondato l’ulteriore motivo di gravame proposto dalla difesa degli imputati ** Carmela ed ** Giuseppe e relativo alla supposta incompatibilità tra tempi di latenza del mesotelioma e decesso del lavoratore **; in sostanza la difesa ha chiesto escludersi il nesso causale osservando che avuto riguardo al tempo di latenza medio del mesotelioma della pleura, pari a 20/40 anni, deve ritenersi certo che lo stesso venne contratto antecedentemente l’assunzione delle cariche da parte della **, precedente di 15 anni la morte della parte offesa ed ancor più dell’**, precedente di soli 6 anni rispetto al verificarsi dell’evento letale.
Detto assunto è però infondato secondo le considerazioni precedentemente svolte; invero accertato che il decesso del ** avvenne per la concorrenza di asbestosi e mesotelioma tantè che lo stesso decedeva infine proprio per insufficienza respiratoria ne deriva l’irrilevanza di tale circostanza, poiché l’inalazione delle fibre di asbesto proseguì anche nel periodo di copertura delle cariche da parte dei predetti imputati cagionando un aggravamento dell’asbestosi, concausa della morte.
Per quanto attiene poi al motivo di appello specificamente dedotto in relazione alla posizione dell’appellante ** Carmela Rita e relativo alla copertura della carica in senso solamente formale da parte della stessa a fronte della presenza del padre ** Giuseppe, osserva la Corte che anche tale doglianza è infondata.
Invero, il principio della effettività delle mansioni, può essere correttamente invocato per attribuire la responsabilità esclusiva o comunque la corresponsabilità del fatto omissivo colposo a colui il quale agisce, di fatto, quale titolare di una posizione verticistica all’interno di una società di persone o di capitali pur essendo altri il rappresentante legale od a chi all’interno di una determinata impresa individuale si presenti, per le mansioni assunte all’interno dello stabilimento industriale, quale punto di riferimento per l’organizzazione aziendale, l’individuazione delle modalità produttive e quindi anche per la predisposizione delle misure antinfortunistiche, siano esse generiche che specifiche.
Tale assunto, affermato con varie pronunce dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione al proposito della figura dell’amministratore, vale quindi ad estendere la responsabilità per il fatto omissivo colposo anche a chi solo apparentemente non ricopra cariche nella compagine sociale od all’interno dell’impresa individuale, ma in alcun modo vale ad escludere la responsabilità del soggetto formalmente investito dell’onere di predisposizione e controllo delle misure predette giustificando la condotta negligente e disinteressata di quest’ultimo.
Il rappresentate legale della società di capitali, sia esso Presidente del Consiglio di Amministrazione o Amministratore Delegato, non può disinteressarsi della adozione e del funzionamento concreto delle misure antinfortunistiche facendo affidamento esclusivo sull’operato dell’amministratore di fatto poiché in tal modo, evidentemente, con la sua condotta colposa e precisamente ampiamente negligente, pone in essere le condizioni per la causazione dell’evento lesivo.
Tali considerazioni pertanto devono far escludere che la ** Carmela possa ritenersi estranea ad ogni responsabilità sol perché nel medesimo frangente temporale di copertura della carica il di lei padre continuava ad agire ed a comportarsi quale dominus esclusivo della compagine sociale della ** srl, potendo al più aggiungersi la responsabilità del predetto a quella della figlia per effetto delle funzioni di fatto svolte, ma non escludere la responsabilità di chi, pur in un limitato periodo, si sia disinteressata del tutto della predisposizione e del funzionamento di quelle misure che dovevano impedire la diffusione ed inalazione delle polveri nocive.
La disciplina dettata dall’art. 2087 c.c. e dal DPR 303 del 1956 fa carico l’uno all’imprenditore e l’altro al datore di lavoro di adoperarsi per assicurare condizioni di sicurezza nell’ambiente di lavoro specificamente previste, senza che da alcuna norma possa invece desumersi l’esenzione da ogni responsabilità in presenza di imprenditori o amministratori di fatto.
Peraltro, con riferimento a tale specifico aspetto dei motivi di gravame, occorre sottolineare come dalle testimonianze assunte nel corso della lunga e complessa attività istruttoria dibattimentale sia emerso che, sebbene la ** avesse assunto la carica di legale rappresentante soltanto per un periodo limitato, ella lavorava già all’interno dell’azienda perché conosciuta quale soggetto presente negli uffici amministrativi da diversi lavoratori; pertanto la predetta era ben a conoscenza sia della particolare tossicità del prodotto utilizzato nel corso delle lavorazioni sia delle patologie che avevano affetto molti lavoratori già dagli anni ’70 e nonostante ciò omise nel periodo in cui fu in carica di assumere qualsiasi provvedimento idoneo ad impedire la prosecuzione delle inalazioni nocive.
Analoghe considerazioni vanno svolte anche con riferimento alla posizione dell’imputato ** Giuseppe che, intervenuto nella fase finale di produzione dell’amianto, omise anch’egli di adottare tutte le misure necessarie ad impedire l’inalazione delle fibre nocive e ciò ad una data in cui la gravissima nocività dell’asbesto era già nota al punto da sollecitare l’intervento legislativo con un radicale divieto di utilizzazione dello stesso.
E tale aspetto, ritiene la Corte, di dovere stigmatizzare e valorizzare proprio con riferimento alle ultime doglianze relative alla richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche avanzata da tutti i difensori degli imputati ed in particolare sostenuta dalle difese degli appellanti ** Carmela Rita e ** Giuseppe con riferimento al limitato periodo di assunzione della carica di rappresentante legale ed all’avvenuto risarcimento del danno in favore di alcune parti civili.
Invero, dall’analisi delle testimonianze dei lavoratori, è emerso che già negli anni ’70 molti lavoratori della ** srl avevano ricevuto l’indennità assicurativa da parte dell’Inail in quanto ritenuti già affetti a quella data da asbestosi e cioè da quella grave patologia che avrebbe cagionato il decesso di alcuni ed il peggioramento delle condizioni di salute di numerosi altri (circa 40); nonostante ciò, e quindi pur in presenza di una specifica situazione di particolare pericolosità, l’attività lavorativa cui gli stessi erano dediti all’interno della fabbrica, quantomeno per alcuni, non veniva nemmeno mutata mentre mancava l’adozione di idonei sistemi protettivi idonei ad impedire qualsiasi diffusione ed inalazione delle polveri nocive.
Il vertice aziendale quindi, pur essendo a conoscenza della diffusione delle patologie, non potendo ritenersi che gli esiti degli accertamenti dell’Inail rimasero ignoti all’amministrazione della ** srl che comunque avrebbe avuto l’onere di controllare la presenza ed il peggioramento delle malattie, ritenne, evidentemente a proprio rischio, di proseguire la produzione mediante l’utilizzazione di un materiale, l’amianto, che aveva già dimostrato di essere particolarmente pericoloso perché idoneo a cagionare l’asbestosi esponendo così i lavoratori già in precarie condizioni fisiche ad ulteriori inalazioni di polveri nocive certamente idonee a cagionare un peggioramento ulteriore della salute degli stessi.
Tale particolare circostanza, quindi, ad avviso della Corte, manifesta un elevato grado della colpa e rende quindi non possibile concedere le circostanze attenuanti generiche a tutti gli imputati, compresi quelli che ricoprirono le cariche di rappresentanti legali per un limitato periodo temporale.
La ** e l’** infatti, così come gli altri coimputati, omisero di distogliere i lavoratori già affetti da patologia da asbesto dalle lavorazioni cui erano dediti poiché non è risultato in alcun modo che il ** nei periodi in cui i predetti imputati assunsero la carica di rappresentante legale venne regolarmente sottoposto a visita medica ed assegnato a differenti mansioni e tale profilo non può che stigmatizzare un grado della colpa incompatibile con la concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Alla luce delle suesposte considerazioni, pertanto, tutti i gravami proposti dalle difese degli imputati vanno respinti e gli stessi condannati al pagamento delle ulteriori spese processuali della presente fase del giudizio.
Avuto riguardo all’intervenuta concessione di indulto con la legge 241 del 2006 tutte le pene principali inflitte agli imputati vanno dichiarate interamente condonate alle condizioni di legge.
Può invece essere accolto l’appello proposto dalle parti civili ** Maria, ** Michele, ** **, ** ** ** e ** ** Grazia, nei confronti degli imputati ** ** Giuseppe e ** **, avente ad oggetto la mancata liquidazione a carico dei predetti imputati delle spese di consulenza tecnica di parte sostenute dalle parti civili che nel corso del giudizio di primo grado avevano nominato il dott. Milisenna escusso anche in udienza che si reputa di liquidare nella somma di € 580 oltre iva e cassa.
In conseguenza del rigetto dell’appello proposto dagli imputati questi vanno condannati in solido tra loro alla refusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili costituite già indicate liquidate in € 2.500 complessive oltre iva e cpa nonché da Legambiente Comitato Regionale Siciliano che si liquidano in € 1.000 oltre iva e cpa.
                                                                         P .Q.M.
Visto l’art. 605 cpp, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Caltanissetta, in composizione monocratica, in data 8/5/2006, appellata da ***, condanna gli imputati ** ** e ** ** in solido tra loro al pagamento delle spese di consulenza tecnica sostenute dalle parti civili appellanti liquidate in € 580 oltre iva e cassa;
conferma nel resto l’impugnata sentenza e condanna gli imputati al pagamento in solido tra loro delle ulteriori spese processuali nonché alla refusione di quelle sostenute dalle parti civili **  ** **, ** **, ** ** ** e ** ** , liquidate in € 2.500 complessive oltre iva e cpa e dalla parte civile Legambiente Comitato Regionale Siciliano liquidate in € 1.000 oltre iva e cpa.
Dichiara interamente condonate le pene inflitte ai predetti imputati alle condizioni di legge.
Fissa in giorni 30 il termine per il deposito della motivazione.
Caltanissetta 11/10/2007
Il Consigliere est.
                                                                                                                       Il Presidente

sentenza

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento