Corruzione per l’esercizio della funzione  (art. 318 c.p.)

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La fattispecie delittuosa della corruzione per l’esercizio della funzione  (art. 318 c.p.) è disciplinata dal libro secondo del codice penale – dei delitti in particolare – titolo II – dei delitti contro la pubblica amministrazione – capo I – dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. La norma è posta a presidio del buon andamento, del corretto funzionamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione censurando tutti quei comportamenti che disonorano proprio la stessa P.A. Si tratta di un delitto procedibile d’ufficio (art. 50 c.p.p.) e di competenza del tribunale collegiale (art. 33 bis c.p.p.). L’arresto è facoltativo in flagranza (art. 381 c.p.p.), consentito il fermo di indiziato di delitto (art. 384 c.p.p.). Sono consentite le misure cautelari personali (artt. 280 e 287 c.p.p.).

Corruzione per l’esercizio della funzione  (art. 318 c.p.)

Per completezza dell’esposizione, giova ricordare che il delitto il scrutinio è stato oggetto di una profonda riforma ad opera della legge 6 novembre 2012, n. 190 – Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’ illegalità nella pubblica amministrazione -. La novella di cui sopra ha mutato contenuto e rubrica dell’art. 318 c.p. irrigidendo il compendio sanzionatorio. Ante riforma la norma aveva il seguente nomen iuris “Corruzione per un atto d’ufficio”

Con la finalità di descrivere le diversità riguardo alla precedente dottrina è utile richiamare la formulazione ante riforma. L’art. 318 c.p. ante riforma statuiva che: “Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del proprio ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto di ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino ad un anno”.

A seguito della suddetta riforma, testualmente, l’art. 318 c.p. dispone che: “Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni”. Dopo il 2012 il legislatore è intervenuto successivamente con la legge 27 maggio 2015, n. 69 -Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio –  irrigidendo la pena disposta per il delitto di cui all’art. 318 c.p., c. 1 e, successivamente dalla legge “spazzaccorrotti” (9 gennaio 2019, n. 3 – Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici -) , innalzando la cornice edittale sia nel minimo (3 anni) che nel massimo (8 anni) fino a far raggiungere al dispositivo l’attuale conformazione: “Il pubblico ufficiale, che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da tre a otto anni”.

Comparando i due testi della norma in scrutinio emergono le seguenti differenze: la novella ha espunto dalla norma il riferimento all’atto che poneva in capo all’accusa un onere probatorio particolarmente gravoso; inoltre a seguito della riforma l’esercizio della funzione può realizzarsi quale finalità del pagamento o della promessa (quindi corruzione antecedente), ma anche come presupposto di essi, per essere la funzione già stata esercitata (ossia corruzione susseguente); infine è venuto meno ogni riferimento alla retribuzione. In relazione quest’ultima figura, giova ricordare che precedentemente alla novella, oltre a provare la sussistenza di un atto d’ufficio, necessitava, anche, mostrare la prova di un nesso tra corrotto e corruttore che aveva come fine ultimo il compimento di un atto a seguito di una dazione o promessa di dazione. In merito alla fattispecie delittuosa de quo giova ricordare la seguente statuizione della Corte di Cassazione: “Integra il reato di corruzione per l’esercizio della funzione, previsto dall’art. 318 cod. pen., lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata”. (Cass. n. 32401/2019).


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L’espressione “(…) esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri (…)” ingloba non solo le funzioni, propriamente, amministrative bensì anche quelle legislative e giudiziarie, inglobando ogni attività che sia direttamente o indirettamente esplicazione dei poteri afferenti ai poteri d’ufficio. Sul punto si segnala il seguente arresto giurisprudenziale: “Ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, non è determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto”. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto viziata la motivazione della sentenza che aveva ricondotto al reato di corruzione la condotta dell’imputato il quale, nella qualità di parlamentare della Repubblica e di leader di partito in sede locale, dietro la promessa di un compenso in denaro, aveva fornito informazioni privilegiate relative a tre gare di appalto, in relazione alle quali non svolgeva alcun ruolo, e si era impegnato ad esercitare pressioni al fine di assicurarne l’aggiudicazione alle società riconducibili al proprio dante causa). (Cass. n. 23355/2016).

L’articolo de quo disciplina un reato proprio in quanto punibile solo se compiuto dal pubblico ufficiale. Trattasi di un delitto di mera condotta che si configura, alternativamente, con l’accettazione della promessa o dell’utilità della stessa tra corrotto e corruttore. Il solo accordo di massima è sufficiente a far configurare il delitto in scrutinio, così sul punto la Corte di Cassazione: “Il delitto di corruzione può ritenersi consumato quando fra le parti sia stato raggiunto anche solo un accordo di massima sulla ricompensa da versare in cambio dell’atto o del comportamento del pubblico agente, anche se restino da definire ancora dettagli sulla concreta fattibilità dell’accordo e sulla precisa determinazione del prezzo da pagarsi”. (In tale circostanza la quale la Corte ha ritenuto consumato il delitto di corruzione in atti giudiziari in un caso in cui un avvocato aveva richiesto l’intervento della polizia, dopo aver già pattuito con un giudice di pace la dazione di una somma di denaro per due sentenze da emettere in procedimenti civili, anche se successivamente per una delle due decisioni si era deciso di rinunciare ad eseguire l’accordo già raggiunto). (Cass. pen. 13048/2013).

Il delitto ha natura plurisoggettiva dato che l’elemento costitutivo è dato dalla concorde volontà delle parti che agiscono in maniera paritetica, a differenza di ciò che si realizza nel delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p. dove il funzionario pubblico opera in una posizione di dominio rispetto al privato cittadino concusso. Ed ancora, si segnala che il reato de quo configura un delitto a consumazione frazionata, di fatto il reato è già perfetto e compiuto al momento della promessa, tuttavia le seguenti consegne di denaro, spostando avanti la consumazione del reato, cagionando effetti vari quali ad esempio l’entrata nel reato di correi ai sensi dell’art. 110 c.p. – pena per coloro che concorrono nel reato – nonché la postergazione del termine di prescrizione del delitto.

Infine, sotto il profilo processuale si osserva che: “L’assoluzione di un funzionario pubblico, accusato del delitto di corruzione, non fa venir meno automaticamente la sanzione amministrativa del resto, ex d.lg. n. 231 del 2001, a carico della società che ha tratto vantaggio dalla condotta illecita, e ciò in quanto il criterio imputativo non è fondato esclusivamente su una responsabilità di rimbalzo dell’ente rispetto a quella della persona fisica” (Cass. n. 49056/2017).

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