Confisca: profitto da “reato contratto” a “reato in contratto”

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In materia di confisca, cosa distingue il profitto conseguente ad un “reato contratto” da quello derivante da un “reato in contratto”

    Indice

  1. La questione
  2. La soluzione adottata dalla Cassazione
  3. Conclusioni

1. La questione

Il Tribunale del riesame di Santa Maria Capua Vetere, in parziale accoglimento dell’istanza di riesame proposta dall’indagato avverso un decreto di sequestro preventivo emesso, ai sensi degli artt. 321, comma 2, cod. proc. pen. e 19, comma 1, 24, 25-octies e 53 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dal G.I.P. del locale Tribunale, – avente ad oggetto una somma di denaro nella disponibilità di una società a responsabilità limitata ovvero, in caso di incapienza o di indisponibilità, di beni intestati e comunque nella disponibilità dell’indagato – confermava un provvedimento di sequestro limitatamente alla somma di euro 106.640,00, annullandolo per la restante parte rispetto alla cifra di euro 1.845.542,40.

Avverso l’indicata ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, lamentando, in particolare, tra i motivi addotti, l’erronea applicazione della legge in relazione alla detrazione dal profitto dei cosiddetti costi da reato, non potendosi defalcare dall’importo determinato nella misura pari al risparmio di spesa determinato dal Tribunale in relazione alla commissione del reato oggetto del procedimento, quello effettivamente corrisposto ai lavoratori illegittimamente impiegati, trattandosi di costi illeciti sostenuti dalla società per la realizzazione dell’attività criminosa in virtù di contratti nulli, di cui l’indagato non si poteva avvantaggiare.


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2. La soluzione adottata dalla Cassazione

La Suprema Corte riteneva il motivo summenzionato fondato.

In particolare, gli Ermellini rilevavano come la prospettazione della parte pubblica ricorrente avesse colto nel segno laddove evidenziava che il reato di sfruttamento dei lavoratori costituisce un cd. “reato contratto” (e non “in contratto“), trattandosi di rapporto di lavoro intrinsecamente illecito (come tale nullo e non semplicemente annullabile), con la conseguenza che, nella specie, a loro avviso, doveva trovare applicazione il (reputato) condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui dal profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto di lavoro illecito (cfr., in motivazione, Sez. 6, n. 9988 del 27/01/2015).

Più nel dettaglio, i giudici di piazza Cavour facevano presente come siffatta elaborazione ermeneutica si sia formata alla luce dei principi elaborati nella pronuncia n. 26654 del 27/03/2008 delle Sezioni Unite, in tema di determinazione del profitto confiscabile, nella quale il Supremo Consesso ha fissato dei principi generali in punto di commisurazione del profitto suscettibile di confisca-sanzione, universalmente validi ed esportabili nei diversi casi astrattamente riscontrabili nella prassi.

E’ stato così chiarito, in primo luogo, che nel delineare il profitto confiscabile non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico, in quanto, nell’assolvere una funzione di deterrenza, la confisca risponde ad esigenze di giustizia e nel contempo di prevenzione generale e speciale, non potendosi ammettere che il crimine possa rappresentare un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto sul bene e che il reo possa rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Dopo avere richiamato le nozioni di profitto fissate in precedenti pronunce a composizione allargata (secondo cui il profitto del reato va inteso come “vantaggio di natura economica“, come “beneficio aggiunto di natura patrimoniale“, come “utile conseguito dall’autore del reato in seguito alla commissione del reato“; Cass. Sez. U del 24/05/2004, n. 29951, e Sez. U del 25/10/2005, n. 41936,) ed affermato che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta “l’effettivo criterio selettivo di ciò che può esser confiscato a tale titolo“, si evidenziava come la Corte di legittimità abbia tracciato un netto discrimen fra profitto conseguente ad un “reato contratto” e profitto derivante da un “reato in contratto” nel senso che, nel primo caso – in cui la legge qualifica come illecito lo stesso rapporto contrattuale intercorso fra le parti – si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca mentre, nel secondo caso, in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale, essendo possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.

Le Sezioni Unite hanno, pertanto, chiaramente affermato l’assoggettabilità a confisca dell’intero vantaggio patrimoniale derivante dai “reati contratto” fra cui rientra certamente, per il Supremo Consesso, quello previsto dall’art. 603-bis cod. pen., oggetto di indagine nel presente procedimento.

Orbene, ad avviso della Cassazione, il Tribunale non si era attenuto ai suddetti principi, determinando il profitto confiscabile sulla base di una non pertinente nozione aziendalistica di profitto netto, detraendo dall’importo complessivo dei vantaggi economico-patrimoniali tratti dalla commissione del delitto per cui si procede, l’importo totale dei (presunti) costi sostenuti per la retribuzione dei lavoratori illecitamente assunti e, quindi, addivenendo ad un’impostazione erronea in diritto poiché il profitto (nel caso concretizzantesi in un risparmio di spesa rispetto agli importi che si sarebbero dovuti sostenere in caso di assunzione legale di manodopera), derivante dall’illecito sfruttamento dei lavoratori, è conseguenza immediata e diretta del reato ed è, di conseguenza, interamente assoggettabile a confisca, indipendentemente dai costi sostenuti per la consumazione del reato, per definizione estranei alla nozione (penalistica e non aziendalistica) di profitto che qui rileva.

L’accoglimento di siffatto motivo, quindi, giustificava, per la Corte, l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale individuato in dispositivo, il quale, nella determinazione del profitto confiscabile, si sarebbe dovuto attenere ai principi di diritto innanzi indicati.

3. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito cosa distingue il profitto conseguente ad un “reato contratto” da quello derivante da un “reato in contratto” in materia di confisca.

Difatti, fermo restando che i “reati contratto sono reati il cui disvalore penale è completamente incentrato sulla conclusione in sé di un contratto[1], vale a dire il reato “consiste esattamente nella stipulazione di un dato contratto[2], mentre i “reati in contratto” sono quelli “in cui la stipulazione di un contratto fa senz’altro parte della fattispecie tipica, ma il disvalore penale  è incentrato piuttosto sulle condotte che il reo tiene in vista della conclusione del contratto o in seguito alla stessa[3], per quanto concerne la confisca, è postulato in questa pronuncia che il profitto, conseguente ad un “reato contratto“, si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca mentre, per quanto concerne quello derivante da un “reato in contratto“, il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale, essendo possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.

Pertanto, se nella prima ipotesi (“reati contratto”), il profitto illecito, in quanto tale, suscettibile di confisca, è in re ipsa, essendo conseguenza immediata e diretta della condotta illecita, nella seconda ipotesi, invece (“reati in contratto”), tale automatismo non ricorre essendo per contro necessario appurare se il corrispondente profitto tratto dall’agente possa essere ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.

Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione, dovendo distinguere quale delle due ipotesi di reato ricorra al fine di verificare se il profitto possa considerarsi automaticamente confiscabile o meno.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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Note

[1]Redazione di diritto.it, Reati accordo, reati contratto e reati in contratto, 24 gennaio 2019, in https://www.diritto.it/reati-accordo-reati-contratto-e-reati-in-contratto/.

[2]Ibidem.

[3]Ibidem.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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