Classificazione dell’omicidio seriale. Profili criminologici e comportamentali. Imputabilità e responsabilità penale.

Scarica PDF Stampa

La figura dell’assassino, e del serial killer in particolare, ha da sempre destato nella mente di ognuno di noi sentimenti forti e spesso contrastanti. I motivi possono essere molteplici: dall’efferatezza dei delitti, al numero ed alla tipologia delle vittime.

Rileva in particolare un dato: l’assassino seriale è una persona “normale” che uccide senza alcun movente apparente.

La letteratura scientifica è ormai concorde nel ritenere che solo una minima percentuale di soggetti affetti da disturbo mentale può (e non necessariamente deve) manifestare comportamenti distruttivi. Il bisogno di comprendere quale sia il motore primo della violenza, quale l’assetto psicologico che la sottende, ha prodotto vastissima letteratura e rappresenta uno dei principali campi di studio della criminologia. 1

Per questo, ogni volta che dalle cronache affiora la figura di un nuovo serial killer, ognuno si sente vulnerabile, nasce la paura di poter essere una futura preda, ma soprattutto la curiosità di analizzare i più profondi abissi della psiche umana.

Appare però opportuno un breve excursus sul fenomeno in questione.

 

Si ritiene, peraltro erroneamente, che il fenomeno degli omicidi seriali sia recente.

Al contrario fu l’Antica Roma, in epoca imperiale, la culla per la nascita e la diffusione dell’omicidio seriale. Secondo Michael Newton, studioso che si è occupato dell’analisi internazionale del fenomeno dei serial killer, il primo caso documentabile di omicidio seriale è attribuibile a Lucusta, una donna nata nella provincia romana della Gallia, passata a triste fama con l’epiteto di “avvelenatrice”.2 (si ricordi che, nel nostro codice penale è prevista l’aggravante, in caso di omicidio, ai sensi dell’art.577 n.2 cod.pen., quando è adoperato “un mezzo venefico..”).

Solo nel 1957, con il termine “chain killer”, si iniziò ad indicare quella particolare tipologia di assassino, per l’appunto “seriale”, perché in grado di lasciare dietro di sé una vera e propria catena di omicidi. Qualche anno dopo, nei primissimi anni ’70, Robert Ressler, agente speciale dell’FBI, nonché uno tra i più illustri criminal profiler statunitensi, coniò il termine “serial killer”.

A tal proposito, la definizione ufficiale che l’FBI ha fornito, cita testualmente: “l’omicida seriale è colui che commette tre o più omicidi, in tre o più località distinte, intervallate da un periodo di raffreddamento emozionale”. 3

Tale lasso temporale non ha quasi mai una durata prestabilita. In alcuni casi si tratta di ore, molto spesso di anni, ed anche il numero delle vittime coinvolte può variare a seconda delle circostanze e dell’autore del reato.

Per comprendere al meglio il fenomeno in questione, Ruben De Luca ha fornito un’ulteriore definizione: “L’assassino seriale è un soggetto che mette in atto personalmente due o più azioni omicidiarie separate tra loro, oppure esercita un qualche tipo di influenza psicologica, affinché altre persone commettano azioni omicidiarie al suo posto. Per poter parlare di assassino seriale, è necessario che il soggetto mostri una chiara volontà di uccidere, anche se poi gli omicidi non si compiono e le vittime sopravvivono: l’elemento centrale è la “ripetitività dell’azione omicidiaria”…Le motivazioni che spingono all’omicidio seriale sono varie, ma c’è sempre una componente psicologica, interna al soggetto, che lo spinge al comportamento omicidiario ripetitivo.” 4

Gli aspetti positivi di tale teoria sono evidenti ed offrono notevoli spunti riflessivi.

Si parla, in primo luogo, di “azioni omicidiarie”, in quanto, per includere un soggetto nella categoria degli assassini seriali, ciò che rileva è la sua intenzione (rectius: la chiara volontà di uccidere c.d. animus necandi) e non il risultato pratico.

Inoltre, diversamente dalla teoria americana elaborata da Ressler, secondo tale definizione, viene fissato a due il numero di omicidi necessari ad instaurare il circuito ripetitivo-patologico.

 

Volendo procedere ad una prima classificazione, va fatta un’importante distinzione tra comportamento organizzato e disorganizzato: il serial killer “organizzato”, come la terminologia suggerisce, è colui il quale pianifica (rectius: premedita, ex art.577 n.3 c.p.) con meticolosa perfezione i propri delitti, seleziona accuratamente le vittime con cui, in qualche modo, ha un legame seppur simbolico. L’altro, comunemente definito come “ disorganizzato”, agisce in preda ad un improvviso impulso di matrice psicopatologica che lo spinge a ricercare ed uccidere vittime casuali (non preoccupandosi di cancellare le proprie tracce dal locus commissi delicti, risulta tra l’altro più facile da identificare e catturare). 5

 

Gli autori che si sono occupati di studiare il fenomeno degli omicidi seriali, hanno cercato di spiegare perché si diventa serial killer, ma soprattutto perché, tra i vari comportamenti socialmente devianti, alcuni individui scelgono proprio questo. Psicologi, criminologi e psichiatri sono tutti concordi nel ritenere che la famiglia, ed in particolare l’educazione ricevuta fino all’età adolescenziale, giochino un ruolo fondamentale in quello che è il corretto sviluppo sociale e mentale del soggetto.

La maggior parte degli assassini seriali infatti proviene da quelle che Milton Mazer, psichiatra statunitense di fama mondiale, definì famiglie multiproblematiche, ovvero “gruppi familiari composti da due o più persone in cui più del 50% dei membri ha sperimentato in un arco di tempo (3 – 5 anni) dei problemi di pertinenza di un servizio sociale, sanitario o legale”.6

 

Fu lo psicologo americano Joel Norris a fornire una prima classificazione dell’omicidio seriale in base alle fasi, scandite da un andamento ciclico, vissute dal soggetto che compie l’azione delittuosa.

La prima, detta “fase aurorale”, attribuisce alla fantasia un ruolo fondamentale. E’ in questo modo che il killer si distacca dalla realtà, alimentando le sue fantasie compulsive che lo spingeranno poi ad agire. La “fase di puntamento” vede l’assassino letteralmente a caccia della sua preda, studiando e pianificando ogni singola mossa. E’ qui che avviene una sorta di incendio neuronale, sintomo di comportamenti di tipo paranoide, provocando una turbolenza delle memorie e della percezione dei dati sensioriali. La “fase della seduzione” è quella in cui l’approccio con la vittima porta alla sua sopraffazione e successiva cattura. Ed infine, la “fase omicidiaria”, il fulcro dell’intera azione, in cui il soggetto prova una sorta di sollievo e piacere nell’aver ucciso la sua preda.

Spesso l’omicidio avviene con un modus operandi ben preciso, con modalità simboliche in grado di rimandare a situazioni di grande impatto emotivo vissute durante l’infanzia. In alcuni casi può verificarsi una “fase totemica”, in cui si assiste a veri e propri atti di cannibalismo, abusi sulla vittima e scatti fotografici da conservare come trofei. L’ultima fase, quella “depressiva”, è la più complessa dal punto di vista psicologico. L’assassino, superata la fase del piacere, inizia a sentire un profondo senso di angoscia, di disagio interno e spesso può sviluppare dei veri e propri sensi di colpa. Tuttavia l’assassino seriale non si consegnerà mai (di norma) alle forze dell’ordine, ma continuerà a fuggire. Ed è proprio la fuga ad originare una situazione di ambivalenza, in cui il piacere si mescolerà fino a fondersi all’orrore e, inevitabilmente, spingerà l’omicida a colpire ancora.7

Come si evince da questa prima classificazione, la riabilitazione di tali soggetti risulta (quasi) impossibile, se non palesemente molto problematica.

 

Prendendo come punto di riferimento il Crime Classification Manual, possiamo analizzare alcune delle svariate tipologie di “movente” in grado di caratterizzare il fenomeno in questione.

Il modello classificatorio proposto da Ruben De Luca, direttore del GORISC (gruppo osservatorio di ricerca, intervento e studio sul crimine) individua l’omicidio seriale come risultato di diversi fattori.

Questi sono soltanto alcuni dei criteri di classificazione analizzati: “omicidio seriale per guadagno personale” (frequenti, quindi, sono gli omicidi in ambito coniugale/familiare allo scopo di assicurarsi un’eredità od incassare una polizza assicurativa – nota: trattasi, in senso penale, quanto all’elemento soggettivo, del c.d. omicidio con dolo specifico); “omicidio seriale situazionale” (di solito tali azioni omicidiarie non sono premeditate, ma vengono commesse nell’atto di portare a termine un altro reato –nota: “connessione teleologica”, ex art.61 n.2 c.p.); “omicidio seriale per erotomania” (gli esempi in merito sono rari e portati a termine prevalentemente da donne. Un caso passato alla storia è quello di Nannie Doss, nata nei primi del ‘900 e conosciuta all’anagrafe come Nancy Hazle, la quale uccise ogni singolo membro della sua famiglia, compresi i tre mariti); “omicidio seriale-sessuale” (il genere di atto sessuale alla base dell’azione omicidiaria, cosi come il suo significato, varia a seconda dell’assassino e della relativa personalità – nota: è prevista l’aggravante, in caso di omicidio, ai sensi dell’art. 576 n.5 cod.pen., “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli articoli 609 bis, quater e 609 octies c.p.” ); “omicidio seriale motivato da estremismo” (se per estremismo comunemente intendiamo la tendenza di un soggetto ad accentuare una componente della propria vita, inevitabilmente tale tipo di fenomeno genera ulteriori sottogruppi; se l’estremismo ha natura prettamente religiosa, il killer può presentare vere e proprie forme di piscosi, allucinazioni visive/auditive, per cui agisce perché convinto di ricevere un ordine direttamente da Dio o da un leader che ritiene essere il suo capo carismatico e di cui subisce l’influenza dal punto di vista psicologico). 8

 

L’Italia non è stata immune dai serial killer, così come soprannominati dagli organi di stampa. Da Leonarda Cianciulli (che, nel 1940, uccise tre donne e ne trasformò i cadaveri in sapone), passando a Gianfranco Stevanin (soprannominato il “mostro di Terrazzo” od il “serial killer delle prostitute”), a Michele Profeta (denominato il “serial killer di Padova” od “il mostro di Padova”); a Donato Bilancia (soprannominato il “mostro della Liguria” od il “killer dei treni”) per giungere, agli ultimi eventi, a Bartolomeo Gagliano (il c.d. “serial killer evaso”) e, se annoverabile nella categoria, ad Adam Kabobo (l’immigrato, di origine ghanese, che aggredì e massacrò a colpi di piccone tre passanti).

Comune denominatore è, ictu oculi, il carattere “mostruoso” (rectius: “categoria della mostruosità”) attribuito agli stessi, così come definito, in senso astratto, in un seminario, dal Prof. F. Bruno.

 

Compito della giustizia, arrestati i (presunti) serial killer – prodromicamente all’accertamento della responsabilità penale in ordine ai reati contestati e perpetrati – è quello di stabilire le condizioni psichiche in cui si trovavano tali soggetti al compimento (rectius: nel momento della commissione) degli omicidi, ossia se imputabili (art. 85 cod. pen.: capacità d’intendere e di volere) ovvero se non imputabili, stante un vizio totale di mente (art.88 cod. pen., per infermità) od un vizio parziale di mente (art.89 c.p. “in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere e di volere”).

Stabilita la loro condizione psichica, le vie giudiziarie potrebbero prevedere due percorsi: se imputabili – e ritenuti processualmente responsabili della commissione dei delitti – si giungerebbe, potenzialmente, ad una sentenza di condanna per i delitti di omicidio aggravati (anche alla massima pena prevista dal nostro codice, ossia l’ergastolo); se, viceversa, non imputabili, ad una sentenza di assoluzione per incapacità d’intendere e di volere al momento della commissione dei fatti (nota: ma se ritenuti, a seguito di consulenza/perizia, pericolosi socialmente, il nostro codice prevede l’applicazione delle misure di sicurezza – vedasi artt. 199 e ss. cod. pen.) .

 

Alcuni interrogativi restano comunque aperti.

Perché si commettono crimini cosi atroci?

E’ la follia a fare di un uomo apparentemente normale, un serial killer?

Tali soggetti non possono non essere definiti “pazzi”, eppure la maggior parte di essi risultano pienamente razionali e calcolatori.

In conclusione, non esiste una causa specifica per cui si diventa serial killer, ma il comportamento omicidiario, di tipo seriale, risulta essere l’insieme di una serie di fattori, alcuni socio-ambientali, altri culturali ed addirittura relazionali che, raggiunta una soglia critica, potrebbero innescare tale fenomeno (è stato infatti osservato, che alcuni individui, con un percorso di vita analogo e caratteristiche psichiche simili, non diventano serial killer).

Come evidenziato dal dott. Robert Simon, pschiatra e professore di Psichiatria Forense della Georgetown University School of Medicine di Washington, esseri “normali” e criminali hanno le medesime emozioni.
La normalità sta nel contenerle.9

 

1 M. Picozzi, A. Zappalà. “Criminal Profiling”

 

2 V. Mastronardi, R. De Luca. “I serial killer”

 

3 FBI. “Crime Classification Manual”. 1992

 

4 R. De Luca. “Anatomia del serial killer”

 

5 R. Ressler, J. Douglas, A. Burgess. “Sexual Homicide patterns and motives”

 

6 M. Mazer in Malagoli-Togliatti et al. 1987

 

7 J. Norris. “Serial killers”, 1997

 

8 G. Massaro. “La Figura del serial killer tra diritto e criminologia”

 

9 R. Simon. “I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno”

 

Alessandro Continiello

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento