Caso Marzia Corini, aggiornamento sull’appello

Sondra Coggio 21/10/22
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«Se finisci nel tritacarne mediatico, da imputata la tua voce non conta niente». Marzia Corini, anestesista, aderente a Medici Senza Frontiere, fino a cinque anni fa aveva la sua vita all’estero, negli scenari di guerra. È stata travolta da uno tsunami, una complessa e interessante vicenda giudiziaria ancora aperta, che l’ha inchiodata in Italia. È stata condannata a 15 anni, in primo grado, dal tribunale della Spezia, per il presunto omicidio del fratello Marco, avvocato, malato terminale di cancro. Il pubblico ministero ne aveva chiesti 22. La riduzione è stata motivata per le violenze subite dalla donna da parte della famiglia. Il processo d’appello inizierà a Genova a fine marzo. Restando doverosamente al di fuori del terreno del diritto, la storia di Marzia pone interrogativi di interesse. Quanto pesa su un processo la costante sovrapposizione fra tesi investigative e media? Quanto influisce quel filo diretto, potenzialmente tossico, fra giornalisti e fonti giudiziarie, prodighe di indiscrezioni con i cronisti che preferiscono il porto sicuro delle veline di palazzo, piuttosto che le insidie del giornalismo di inchiesta? Chi ci rimette, alla fine, se non la giustizia stessa?

Indice

  1. Show must go on
  2. Linguaggio sessista in aula
  3. Pregiudicati, riconoscenza, convivenze e feste vip
  4. La giustizia, tenaglia o lumaca
  5. L’esito dell’appello: assoluzione 

1. Show must go on

La vicenda dei due fratelli Marco e Marzia, protagonisti di un classico rapporto di amore e di odio, si è trasformata da subito, mediaticamente, in una narrazione spettacolarizzata. E questo pone con forza, ancora una volta, il problema dell’appiattimento della cronaca giudiziaria italiana sulle sole tesi dell’accusa. Su Marzia Corini si è letto di tutto. Le è stato cucito addosso, da subito, un ruolo da avida assassina. Un ritratto surreale, per un medico come lei, da sempre disinteressata al denaro, in fuga dalla famiglia bene che la voleva omologata. L’unica “verità” veicolata dai media, dall’inizio alla fine è stata quella ipotizzata in fase di indagine. Poco o nulla è uscito su quanto emerso il dibattimento. Marzia è rimasta pertanto intrappolata in un facile schema stereotipato, enfatizzato dal meccanismo spaventoso del copia & incolla.

Fin da subito si è letto “dell’omicidio Corini”, e non del “presunto omicidio”. Fin da subito è stata proposta come “la sorella killer”, “piombata come un avvoltoio al capezzale del ricco fratello morente”, accusata di “averlo ucciso per impedirne le nozze con la giovanissima fidanzatina”. Eppure in aula è emerso tutt’altro. Era una bugia, che Marzia volesse impedire le nozze del fratello. Fu Marco Corini a dire ripetutamente “no” alla convivente, anche poco prima della morte. Era una bugia, il fatto che fosse tornata di sua iniziativa. Fu Marco Corini a tormentarla perché tornasse. In quando alle cause della morte, è rimasta più che controversa, l’ipotesi che possa essere stata accelerata dalla sedazione palliativa.

2. Linguaggio sessista in aula

Marzia è un esempio di vittima perfetta. Donna, e per questo da subito spogliata della professionalità, dei titoli, e indicata costanemente solo come r“sorella”. Donna omosessuale, e per questo da subito proposta come “diversa”. Donna omosessuale che lascia il posto fisso in ospedale per fare volontariato negli scenari di guerra, e per questo ritratta come “perdente”. In aula è riecheggiato un linguaggio fortemente sessista. E questo pone ancora un altro problema, l’utilizzo di parole impregnate di pegiudizi, nei confronti delle imputate donne. Gli esempi sarebbero tantissimi. Le è stato contestato i non essersi immolata pienamente per il fratello, di non essersi annientata per lui. Secondo l’accusa, dedicandosi ad altri pazienti, all’estero, avrebbe «tradito il vincolo di sangue e il giuramento di Ippocrate». Eppure Marzia è stata una vittima di quel fratello. È stata cacciata dalla famiglia, fascistissima, a 19 anni, perché innamorata di un’altra donna. Quando il padre le ha puntato la pistola alla testa, dopo che Marco aveva fatto la spia sulla sua omosessualità, lei se n’è andata, a testa alta, e si è laureata da sola, grazie al sostegno degli amici. Dopo 18 anni in ospedale, stimatissima, ha scelto di fare il medico umanitario. Brutalmente discriminata per la sua rivendicazione di libertà sessuale e per il rifiuto di “fare carriera”, per 15 anni non ha più visto e sentito Marco. Era felice. Era realizzata. Purtroppo, la famiglia è ricomparsa nella sua vita. A 52 anni, il grande fratello avvocato, ricco, convivente con una ventenne e circondato da una corte di ammiratori, si è accorto di essere solo. E l’ha voluta accanto.

A Marzia è stato contestato di aver atteso, prima di tornare. Era spaventata, all’idea di ripiombare nell’incubo della famiglia. E quando Marco le aveva offerto soldi, aveva rifiutato, sdegnata. Marzia cede per altre agioni. Cede solo perché il fratello le dice di essere pentito. E lei vuole crederci. Fra strappi e riappacificazioni, perché lui non è mai cambiato, lei gli sta comunque accanto fino alla fine. Marco, malato terminale, muore durante la sedazione che Marzia gli pratica per lenire le sue sofferenze. In lutto, senza prendere nemmeno un euro dall’eredità, la dottoressa torna al suo lavoro all’estero e predispone la donazione dei soldi a Medici Senza Frontiere. È ignara dell’inchiesta, perché le notifiche non le vengono inoltrate dove tutti sanno che vive e lavora, ma a vecchissimi indirizzi. Per cui non le vede. La arrestano come torna in Italia. La accusano di omicidio volontario, inizialmente anche premeditato. Marzia è confusa. Non scappa. È incensurata, è certa che sia tutto un equivoco. E viene massacrata dalla stampa.

3. Pregiudicati, riconoscenza, convivenze e feste vip

Chi l’ha denunciata? Un non familiare. E per quale presunto reato? Per falso in testamento. L’ha saputo da lei, che solo la firma era di Marco, ma che lui le aveva chiesto di scrivere il testo in sua presenza, al suo posto, perché gli tremava la mano. Perché la denuncia, peraltro mesi dopo? Perché, secondo l’accusa, ha un animo nobile. Si dichiara «grande amico» dell’avvocato morto di cancro, che l’ha assistito penalmente in tante controversie. E contesta il fatto che la compagna ventenne di Corini (che non denuncia nulla e che non si costituisce nemmeno parte lesa) abbia ricevuto solo mezzo milione di euro. È un uomo con una vecchia condanna per appropriazione indebita, con una serie di pesanti pendenze fiscali aperte e con un processo penale che si trascina da anni, per presunta associazione a delinquere, di fronte allo stesso giudice che condannerà Marzia. Perché conta di più la parola di un pregiudicato, della sua? Perché lo Stato intercetta Marzia da subito, e per mesi, per una ipotesi d’accusa iniziale di falso in testamento? E quanto pesa il fatto che il grande accusatore, pur sotto processo per presunta associazione, sia il dj delle feste benefiche dei vip organizzate da una giudice che in aula si dichiara a lui «riconoscente»? E perché non si ritiene di fare chiarezza sull’entità e sui percorsi del flusso di quei contanti vip che le associazioni umanitarie citate in aula dal magistrato, contattate, dicono di non aver mai ricevuto?

Tutto avrà certo una spiegazione, ma nessuno si chiede nulla. Nulla.

Nemmeno sul fatto che il presidente della Corte conviva, a processo in atto, con una avvocata dello studio legale che difende sia l’uomo che accusa Marzia, sia nel processo per presunta associazione a delinquere, sia in un processo per presunta appropiazione indebita di beni dell’eredità Corini. È un filone originato proprio dal processo Corini. E lo studio della convivente del magistrato assiste anche la giovanissima convivente di Marco. Non viene detto niente. Solo a processo pressochè finito, si ha notizia non dal tribunale, ma da atti del Csm, del fatto che fosse in corso una verifica. Verifica che si chiude senza rilevare anomalie, sulla convivenza fra magistrato e avvocata dello stesso foro. Perché lei ha annunciato che smetterà di esercitare. Ma questo avverrà soltanto dopo il processo Corini. Per cui, quando Marzia viene giudicata, la convivenza c’è.

4. La giustizia, tenaglia o lumaca

Marzia si chiede se il contesto di una città “piccola”, intrisa di relazioni interpersonali, non abbia condizionato – anche inconsapevolmente – la tenaglia della giustizia nei suoi confronti. Il suo processo si consuma fra 2016 e 2021. In cinque anni.

Il processo lumaca che vede imputato il suo accusatore per fatti del 2013, documentati da un’inchiesta accuratissima della Finanza, risulta invece ancora aperto nel 2021. A distanza di otto anni dai fatti, appare avviato ad una probabile archiviazione per prescrizione. Ed è – dal 2018 – affidato allo stesso magistrato del processo Corini.

In questo contesto, Marzia – stranita, riservata, aliena alle dinamiche della provincia spezzina, particolarmente chiusa e massone – è per i media carne da macello, dal primo giorno. È la cattiva. E infatti, di lei escono solo fotografie in cui appare seria, o “addirittura” con la sigaretta in bocca. Mentre il fratello è proposto radioso, con la ventenne in bikini accanto. Ben diverso da come, purtroppo, lo aveva ridotto il cancro, incurabile e devastante. Metastasi al colon, ai polmoni, alle ossa. Dipendeva dall’ossigeno. Era, di fatto, un uomo morto. Ma quel che si scrive, è tutt’altro. Addirittura, si parla di viaggi imminenti, nonostante l’avvocato non riesca neanche ad andare in bagno da solo. Marzia si sente «di fronte ad un plotone di esecuzione».

Il Pm chiede 22 anni, gliene danno 15. «Senza un movente e senza una prova», ripete lei. Ed è ovviamente, la sua, una tesi di parte. Il contesto generale è invece oggettivo. Marco aveva forti legami territoriali. Lei no. E l’uomo che la denuncia, che fa una sola visita all’avvocato morente nelle lunghe settimane di agonia, si presenta a Marzia insieme alla giudice per la quale cura le feste vip. E a processo in corso, sia la giudice che il pubblico ministero del processo Corini sono nel parterre del grande evento estivo in cui il dj è co-protagonista. E il giorno dell’arresto di Marzia, Ansa scrive che quel giudice ha testimoniato che Marco «voleva sposare al più presto la compagna». E Rai News conferma: «Parla l’amica giudice. L’avvocato voleva sposare al più presto la compagna. Non fece in tempo perché due giorni dopo aver espresso questa volontà morì. A fare la rivelazione è una testimone autorevole, una giudice amica dell’avvocato». Eppure, come anticipato, la stessa storia delle nozze boicottate si rivelerà infondata, al dibattimento.

Marzia alla fine è condannata solo sulla base di una telefonata privata, che lei fa a quattro mesi dalla morte del fratello, in piena crisi psicologica, perché il lutto le ha rimescolato dentro i traumi di una vita.  È intercettata, ma non sa nulla dell’inchiesta. «È stata colpa mia – dice ad una amica – se non lo avessi sedato non sarebbe morto quel giorno. Soffriva troppo, non reggevo più a vederlo soffrire». Ma è la confessione di un omicidio volontario premeditato? E come avrebbe fatto ad uccidere, se il sedativo usato da Marzia non è letale? Se solo in quantità impressionanti, ed in condizioni estreme, avrebbe potuto provocare un infarto? Perché Marco non è morto di infarto. È morto dopo ore e ore di infusione del sedativo. Ma qui si entra sul terreno del diritto, ed è doveroso fermarsi. Sarà interessante seguire il nuovo processo, in appello, ove forse – rievocando i fatti in una città diversa – apparirà più netto il contesto di una provincia “piccola”, con le sue storie di sindacati e di lavoro nero, di blitz della Finanza in porto, di viaggi in Africa, di zainetti pieni di diamanti e di buste piene di contanti, feste di ricchi vip per i bambini poveri, di agenti segreti, cardinali, massoneria e discriminazioni di genere.

5. L’esito dell’appello: assoluzione

>>>Leggi la sentenza<<<

Può essere di interesse, all’esito del pronunciamento, divulgare le motivazioni con le quali la Corte di Appello di Genova, in secondo grado di giudizio, ha assolto la dottoressa Marzia Corini, anestesista di Medici Senza Frontiere, ritenendola innocente rispetto alla morte del fratello Marco, avvocato, malato terminale di cancro.

L’ultimo giorno disponibile, la Procura di Genova – che aveva escluso l’omicidio ma aveva delineato un possibile caso di eutanasia – ha depositato un ricorso in Cassazione, contro l’assoluzione di Marzia Corini.
La vicenda è ancora pertanto potenzialmente aperta.

Personalmente, quale giornalista, avevo espresso in un libro, “Marzia, una sentenza già scritta?”, tutte le perplessità sui potenziali condizionamenti derivati durante il processo di primo grado da una pressione mediatica allineata totalmente alle tesi investigative e da un contesto di conoscenze incrociate, tali da far ritrovare le stesse persone in ruoli apparentemente conflittuali, o quantomeno inopportuni.

Senza ovviamente permettermi di giudicare l’operato della giustizia, avevo analizzato quelli che mi erano apparsi fin da subito autentici controsensi, sottolineando forzature e contraddizioni, che – a mio avviso – avevano dirottato l’opinione pubblica, con clamore, verso una sorta di crociata che aveva fatto a pezzi una donna.

Come già avevo scritto, documenti e atti alla mano, era avvenuto un linciaggio incomprensibile. I fatti sono stati ora letti in modo molto differente, nel secondo grado di giudizio, quando la vicenda è uscita dall’angusto contesto di una provincia piccola, in cui la dottoressa si è ritrovata all’angolo, schiacciata dal ricordo preponderante del fratello avvocato. Nel secondo grado di giudizio sono state prese in considerazione intere parti della storia, prima «trascurate», e sono state messe a fuoco verità nuove. Tanto che da una condanna a 15 anni per omicidio si è passati ad una sostanziale assoluzione. Sono rimasti solo 5 mesi e dieci giorni per la sola pubblicazione di un testamento non valido, perché non del tutto olografo.

Trattandosi di una sentenza pubblica, emessa da una Corte d’Assise d’Appello su una vicenda mediaticamente molto nota, mi permetto di condividere alcuni passaggi.

In primo grado, Marzia Corini era stata «accusata di furto aggravato, per aver sottratto tre fiale di Midazolam all’ospedale di Pisa», dove aveva lavorato per anni, e di «omicidio volontario aggravato volontario del fratello», commesso il 25 settembre del 2015.

Secondo la Corte di primo grado, nel corso della sedazione dell’uomo, malato terminale, Marzia avrebbe «somministrato dosi massicce di farmaco, con mezzo insidioso, approfittando delle condizioni di minorata difesa della vittima, defedata da una malattia oncologica, allettata e in situazioni di grave insufficienza respiratoria». Il movente? Un misto di «odio, cinismo e avidità», spinta dai quali aveva «tradito il vincolo di sangue e il giuramento di Ippocrate». C’era poi la parte marginale sul fatto che avesse scritto materialmente il testamento dettatole dal fratello, in quando lui tremava e non riusciva a scrivere da solo.

La sentenza d’Appello ricostruisce nelle prime venti pagine la storia della malattia dell’avvocato, un cancro devastante contro il quale nulla era più possibile. Era stremato, vittima di metastasi profonde, non aveva più alcuna speranza, anche se – per sua scelta – non aveva voluto far trapelare la verità all’esterno, e aveva chiesto alla sorella di essere protetto anche dalle visite, che non voleva ricevere.

La sentenza affronta, quindi, la storia di Marco e Marzia, fratello e sorella, figli di genitori benestanti e ben inseriti nella società, ma denotati da una profonda differenza di carattere, come se, citando Marzia, «da due crisalidi perfette fossero nate due farfalle diverse». Lui aveva scelto la carriera. Lei le missioni umanitarie. Erano stati ferocemente distanti, ma la sentenza dà spazio alle parole accorate della dottoressa, sul fatto che «nonostante si fossero allontanati fra loro da moltissimi anni, ella continuava a nutrire intenso affetto per il fratello, maggiore di soli 18 mesi, con il quale aveva condiviso infanzia e adolescenza, fino alla dolorosa frattura avvenuta quando avevano 19 e 20 anni». Vale a dire quando lei era stata cacciata dalla famiglia, perché aveva scelto di amare liberamente, intrecciando una relazione con un’altra donna. Un’offesa all’onore dei Corini, tanto che il padre – istigato dal fratello di lei – le aveva anche puntato una pistola alla testa.

Marzia aveva studiato da sola. Era diventata medico. Aveva fatto anni e anni di ospedale, quale anestesista, in Italia, scegliendo successivamente di vivere lontano, a Cayenna, alternando l’attività ospedaliera alle missioni umanitarie.

Appresa da Marco la notizia del suo tumore, però, aveva deciso di rivederlo, «dedicandosi interamente a lui, curandolo senza sosta, a costo di sconvolgere la propria vita personale e professionale, ormai radicata molto lontano».

Del fratello, la nuova sentenza traccia il ritratto «fatto non soltanto dalla sorella ma anche da vari testimoni, come uomo dotato di particolare intelligenza, eccentrico, primadonna, dispotico, propenso a primeggiar, non incline ad assecondare gli altri e ad accettare suggerimenti». Aspetti del carattere che «lo hanno denotato anche negli ultimi giorni di vita, benché provato dall’avanzare implacabile della feroce malattia».

A supporto di questo carattere istrionico e dominante, viene citata la deposizione di una cara amica e psichiatra, che lo seguiva da anni anche come paziente.
Viene chiarito definitivamente che l’avvocato «avrebbe potuto sposare la giovane fidanzata, ma si limitò a manifestare l’intenzione, senza mai farlo».
Viene sostanzialmente affermato che Marco Corini «era lucido» e che il suo modo di fare era quello di sempre, «tenere le persone sulla lama». E viene respinta l’ipotesi dell’accusa, che al processo di primo grado aveva parlato di una «fluttuazione dello stato di coscienza», per sostenere che il legale morente fosse stato vittima di una sorta di circonvenzione. Nonostante la malattia, afferma la sentenza, l’avvocato «era acuto e scaltro, continuava a prendersi gioco degli altri, si compiaceva nel vederli attendere».

La sentenza conferma, ancora, che la dottoressa Corini, rientrò in Italia solo «in ragione della malattia del fratello, e che si trovò all’improvviso in un mondo da cui si era allontanata da moltissimi anni e che era inevitabilmente cambiato». E si discosta del tutto dalle valutazioni del primo grado, in merito ai rapporti fra la Corini stessa e la fidanzatina del fratello.
Per la Corte spezzina, Marzia era «avida e cinica», mentre la giovinetta era l’opposto. La Corte di Genova ha tratto conclusioni differenti, dopo aver rivisto tutto il materiale, compreso quello che alla Spezia era stato «del tutto trascurato», vale a dire i dialoghi privati in chat, utili a definire le personalità e le azioni di tutte le persone coinvolte nella vicenda.

Sono stati tenuti in considerazione i dialoghi fra Marzia ed il fratello, che denotano un enorme affetto, la lucidità di lui e l’appoggio di lei. Sono stati esaminati quelli fra la fidanzatina e sua sorella, che denotano un forte interesse economico e molta durezza. Testualmente, la sentenza scrive che se in primo grado la fdanzatina del maturo avvocato era stata proposta come «una ragazza timida e remissiva», dalle carte «trascurate» alla Spezia e rilette in Appello emerge invece che era «espansiva e attiva, interessata alla sorte del patrimonio del compagno, carica di odio e capace di assumere iniziative, dopo il decesso di lui, come rivolgersi al notaio e ad un legale, pur sapendo di non essere stata investita di alcun diritto», in quanto l’avvocato Corini non l’aveva mai sposata.

«Erra – secondo la nuova sentenza – il collegio spezzino, nel ritenere che Marzia fosse stata fin da subito ostile alla ragazza». «Erra» a ritenere la dottoressa avida. Perché la donna, rientrata in un contesto che aveva scelto di abbandonare da anni, proprio perché disinteressata al patrimonio della famiglia, non manifesta mai, nemmeno nelle copiose intercettazioni, alcun interesse al denaro, che – alla morte del fratello – intende dare in beneficenza.

La sentenza specifica che Marzia è una donna che «ha speso la sua vita per dedicarsi alla medicina, anche in missioni umanitarie», e che le sue scelte di vita «contrastano con lo spirito avido che le ha attribuito il collegio di primo grado».

La ricostruzione del primo grado, secondo i giurati d’Appello è «stridente» anche laddove ritiene che esistesse un altro testamento, di cui manca qualsiasi prova. E laddove non coglie «perplessità nell’appassionata difesa della fidanzatina, fatta da parte dell’uomo che va a denunciare Marzia, un uomo «della cui trasparenza la Corte di primo grado non dubita mai, trascurando di considerare le parole che rivolse alla ragazza», sul fatto di «aver scatenato il vespaio, ma solo dopo aver atteso l’esito del testamento».

In sole 53 pagine contro le 700 delle motivazioni della sentenza di primo grado, (in gran parte aderenti alle parole dell’accusa), la sentenza di secondo grado mette al centro intere parti che alla Spezia non erano state tenute in considerazione, come le «razzie» fatte nella casa di Corini dalla fidanzatina, prima di restituirne le chiavi, ed evidenzia le ripetute volte in cui le sue dichiarazioni sono state ritenute credibili, «trascurando» elementi che avrebbero portato a conclusioni opposte.

La Corte d’Appello affronta in più passaggi le dichiarazioni della giovane, sulle quali l’accusa ha appoggiato la tesi dell’omicidio. Non la ritiene una teste «coerente ed affidabile». E non concorda con la linea della Corte di primo grado, che – scrive – ha «coniugato la deposizione della Barrack» con le parole in libertà dette dalla dottoressa nella famosa telefonata in cui confessa ad una amica di non aver salvato il fratello, e su questo «ha rigidamente costruito la prova di un omicidio».

La famosa telefonata in cui Marzia, devastata dal dolore, si accusa di aver anticipato la morte di Marco, sedandolo, è stata considerata sufficiente, alla Spezia, per condannarla per omicidio. La Corte d’Appello «dà tuttavia una lettura del tutto diversa da quella del Collegio di primo grado» ed «esclude che la telefonata racchiuda una confessione, trattandosi di parole defluite senza controllo e senza logica, emerse dalla profondità dei pensieri aggrovigliati con il dolore».

La Corte d’Appello riferisce diverse testimonianze di colleghi di Marzia, come quella del suo stesso primario ospedaliero, e di professionisti autorevoli, come il suo stesso psicologo, che hanno chiarito che Marzia «si addossava anche la colpa per i pazienti moribondi che purtroppo decedevano in ospedale, vittima di un autolesionismo che colmava con l’estrema generosità nei confronti del prossimo».

Testualmente, la Corte d’Appello «non comprende come la Corte di primo grado abbia potuto svalutare il contributo prezioso proveniente dai consulenti della difesa, e propendere per la soluzione alternativa coltivata dal pubblico ministero, priva di supporto scientifico oltre che di prove».

E siamo al famoso Midazolam, che – secondo l’accusa del primo grado – sarebbe stato somministrato per far morire Marco, e non per evitargli dolore. È il teorema che era valso in primo grado una condanna a 15 anni, basandosi solo su una ipotesi, sorretta solo sulle confuse memorie della fidanzatina.

Nelle conclusioni, la sentenza di Appello chiarisce che Marzia aveva candidamente ammesso di aver preso il Midazolam, «per risparmiare a Marco strazianti dolori», «risarcendo peraltro con 300 euro l’azienda ospedaliera, a fronte del prezzo di poche decine di euro». Precisa che «il dosaggio che somministrò al fratello era in verità talmente modesto da non poter cagionare il decesso». Spiega che «la ricostruzione del primo grado su una presunta iniezione vista solo dalla fidanzatina non è affatto provata» e che «anzi, si deve dubitare di quanto affermato dalla teste». Aggiunge che la Corte della Spezia «non ha tenuto conto delle innegabili condizioni disperate di Corini, tali che i medici avevano preso definitivamente atto dell’inutilità delle cure, attivando la presa in carico da parte dei palliativisti». E sostiene che la Corte di primo grado abbia «errato» ripetutamente sulle vere condizioni dell’avvocato, «drammatiche», e sui valori dell’emogasanalisi di quella mattina, e sul quadro clinico reale.

La sentenza individua quale «accusa più infamante quella rivolta a Marzia Corini nella veste di sorella e di medico, per cui, secondo il Collegio di primo grado, uccise volontariamente il fratello, avvalendosi delle proprie competenze professionali, per uno spietato motivo di interesse economico». Già quanto accadde dopo, scrive la Corte d’Appello, «smentisce» il movente, visto che Marzia avviò le pratiche per dare la sua parte di eredità in beneficenza, prima di essere arrestata e bloccata in Italia, perché accusata di omicidio. E conclude che «quel giorno, quella vita gravemente compromessa dalla malattia incurabile ebbe termine naturale e che la dottoressa Corini si prese per l’ultima volta cura del fratello che avrebbe voluto salvare, accompagnandolo nel sonno verso la morte inesorabile». Ancora: «Mantenne la promessa che gli aveva formulato quando era ancora in vita, lo aiutò a lasciare il mondo terreno senza soffrire e senza rendersene cono, nel momento in cui la vita stessa doveva interrompersi».

Sul falso in testamento, la sentenza precisa che «l’avvocato Corini non fu affatto vittima di circonvenzione di incapace, perché incapace non era». Dichiara pertanto assolta l’ex compagna di vita di Corini, l’avvocata Giulia Feliciani, condannata in primo grado a 4 anni, per presunta circonvenzione. L’unica violazione penale rimasta in capo a Marzia è pertanto quella di aver chiesto e ottenuto la pubblicazione di un testo che non era un vero testamento, e che comunque il notaio di famiglia avvallò, pur sapendo che Marco aveva fatto solo la firma.

La Corte precisa comunque che «Marzia Corini non agì con la finalità di procurare a sé un vantaggio, perché la successione senza testamento l’avrebbe certamente avvantaggiata».

Sondra Coggio

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