Atto politico e insindacabilità

Redazione 06/02/19
Scarica PDF Stampa
È di fondamentale importanza rinvenire una nozione chiara di atto politico, attesa l’insindacabilità di quest’ultimo.

Lineamenti essenziali dell’atto politico

In base all’art. 7, comma 1, c.p.a. “non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. Tale norma afferma quindi l’insindacabilità dell’atto politico.

La regola appena enunciata a qualcuno è parsa in contrasto con il disposto dell’art. 113 Cost., in base al quale “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”.

In realtà, l’insindacabilità dell’atto politico risulta pienamente giustificata, anche sul piano costituzionale, dall’esigenza di assicurare il principio di separazione dei poteri e, quindi, dalla necessità di tutelare l’inviolabile confine che separa la funzione amministrativa dalla funzione politica del Governo, quest’ultimo al contempo rappresentando il vertice della Pubblica Amministrazione ed essendo espressione del principio di democrazia. L’atto politico è, infatti, un atto libero nel fine, dal che se ne trae l’assenza di un parametro giuridico su cui effettuare un sindacato di legittimità.

Ciò posto, è di tutta evidenza che occorre delineare con molta cura la nozione di atto politico, perché la riconduzione di un atto sotto questa categoria ne implica l’insindacabilità e, dunque, il diniego di tutela impugnatoria.

Si tenga presente, d’altra parte, che normalmente gli atti politici contengono direttive di carattere generale con le quali si delineano gli obbiettivi programmatici dell’attività pubblica. Ciò fa sì che difficilmente un atto politico possa rivelarsi immediatamente lesivo della posizione dei singoli, mentre più facilmente sarà possibile riconoscere l’interesse ad agire con riferimento agli atti attuativi a valle.

Illustrate le implicazioni sottese all’inquadramento di un atto come politico, occorre delineare brevemente il dibattito svoltosi in ordine alla individuazione dei requisiti di questo tipo di atto.

In base ad un primo orientamento, occorrerebbe definire come politico l’atto che, a prescindere dal contenuto, è funzionalizzato alla realizzazione di uno scopo politico. Come si vede, però, questa tesi non risolve davvero il problema della definizione dell’atto politico, limitandosi a spostare l’attenzione dal tema dell’“atto” al tema dello “scopo”.

Un secondo orientamento rinuncia ad offrire una definizione unitaria di atto politico e ritiene necessario individuare caso per caso le caratteristiche che consentono di ricondurre un provvedimento alla categoria degli atti politici. Nemmeno questa impostazione è accettabile perché, come già rilevato sopra, troppo importanti sono le conseguenze della qualificazione di un atto come politico (l’insindacabilità) e questa impostazione dà luogo a eccessiva incertezza e imprevedibilità sul piano dell’effettività della tutela, atteso che rimette la soluzione della questione all’apprezzamento discrezionale del giudice.

In base ad un terzo (preferibile) orientamento sarebbe possibile qualificare un atto come politico in presenza dei due seguenti requisiti: (i) un requisito soggettivo, giacché l’atto deve essere emanato dal Governo o comunque ai supremi organi dello Stato individuati dalla Costituzione; (ii) un requisito oggettivo, giacché tale atto deve essere espressione di un potere che è politico in quanto affonda nella Costituzione e assolve alla funzione di cura di interessi statali supremi e unitari, in una prospettiva volta a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri.

Già questa definizione consente meglio di distinguere l’atto politico dall’atto amministrativo generale e, in particolare, dagli “atti di alta amministrazione”.

Mentre l’atto politico è libero nei fini, l’atto amministrativo generale (e così l’atto di alta amministrazione) è vincolato al soddisfacimento di un interesse pubblico individuato dalla legge.

Gli atti di alta amministrazione si connotano poi, rispetto ad altri atti amministrativi generali, per una ancora più ampia discrezionalità amministrativa e l’impronta fiduciaria che li connota. Ciò non toglie, però, che essi siano vincolati al perseguimento di un particolare interesse pubblico e che quindi siano sindacabili.

Occorre certamente precisare che il sindacato giurisdizionale relativo agli atti di alta amministrazione avviene in uno spazio particolarmente angusto, essendo questi censurabili (secondo la giurisprudenza ormai maggioritaria) solo qualora contrastino con i canoni di ragionevolezza, adeguatezza e coerenza. In altri termini, i parametri per il sindacato giurisdizionale degli atti di alta amministrazione vanno individuati direttamente nell’art. 97 Cost.

Corollario di questa considerazione è il fatto che a sostegno di questi atti sarà sufficiente una motivazione particolarmente semplificata.

Sebbene anche gli atti di alta amministrazione siano molto spesso connotati da generalità (e quindi da assenza di immediata lesività della sfera dei singoli), non mancano nella casistica ipotesi di atti qualificati come di alta amministrazione idonei a incidere direttamente sulla sfera dei singoli (come gli atti di nomina e revoca di alcune cariche).

Sul punto:Il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi

Casistica al confine tra l’atto politico e l’atto di alta amministrazione

Sono atti sicuramente politici, ad esempio: la legge (che è l’atto politico per eccellenza) e gli atti aventi forza di legge; la nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali; gli atti di concessione di grazia e di commutazione delle pene; l’elezione del presidente della repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri del C.s.m.; lo scioglimento delle camere; la nomina dei ministri.

Un caso dibattuto è stato invece quello dell’atto di nomina o di revoca dell’assessore comunale ex art. 46, comma 4, TUEL. In realtà ad oggi prevale la tesi della natura amministrativa (rectius, di alta amministrazione) del provvedimento in discorso, muovendo dalla condivisa considerazione che l’atto di revoca di un assessore comunale non è libero nei fini, essendo volto al miglioramento della compagine di ausilio del sindaco, preposto alla cura concreta dell’interesse pubblico. Ciò implica la necessità di rispettare requisiti di professionalità (e di dare comunicazione di avvio del procedimento, si è detto con riferimento al caso di revoca dell’assessore comunale).

La natura amministrativa (di alta amministrazione) – e quindi l’assenza di una completa libertà nei fini – risulta ancora più evidente laddove si abbia riguardo a nomina che devono tenere conto di peculiari vincoli giuridici (come le quote rosa).

Tuttavia, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 81/2012, ha riconosciuto la natura politica della decisione dell’atto di nomina dell’assessore da parte del presidente della Giunta Regionale precisando al contempo che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”.

Volume consigliato:

 

 

 

 

 

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento