Il segreto professionale dei giornalisti

Redazione 17/05/03
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di Franco Abruzzo

Il giornalista come mediatore intellettuale tra il fatto e i lettore. Il segreto professionale gli consente di ricevere notizie, mentre le fonti sono “garantite”. Non esiste il concetto giuridico di giornalismo. Il concetto, abitualmente estrapolato dall’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 (quello dedicato alla deontologia della categoria), si riassume nella frase “giornalismo=informazione critica”. Il primo comma dell’articolo 2, infatti, dice: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica…..”. Questo vuoto è stato, però, riempito dalla giurisprudenza: “Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione. Il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso…… differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della dovuta attenzione e considerazione” (Cass. Civ., sez. lav., 20 febbraio 1995, n. 1827). Dall’insieme delle norme si ricava che il giornalista raccoglie, commenta e elabora notizie legate all’attualità e che è tenuto ad assicurare (ai cittadini) un’informazione “qualificata e caratterizzata (secondo la sentenza n. 112/1993 della Corte costituzionale, ndr) da obiettività, imparzialità, completezza e correttezza; dal rispetto della dignità umana, dell’ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori nonché dal pluralismo delle fonti cui (i giornalisti, ndr) attingono conoscenze e notizie in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni, avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti”. Il pluralismo delle fonti a sua volta ha un’interfaccia che si chiama segreto professionale.
Nel nostro ordinamento la tutela del segreto professionale viene tradizionalmente fatto risalire all’articolo 622 del Codice penale del 1930 (in vigore), che punisce la rivelazione del segreto professionale. Il divieto di divulgare la fonte della notizia è, invece, un principio giuridico, che ha festeggiato i 40 anni nel 2003. Giornalisti ed editori, in base all’articolo 2 (comma 3) della legge professionale n. 69/1963, “sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse”. Tale norma consente al giornalista di ricevere notizie, mentre le fonti sono “garantite”. Anche l’articolo 13 (V comma) della legge sulla privacy (n. 675/1996) tutela il segreto dei giornalisti sulla fonte delle notizie, quando afferma che “restano ferme le norme sul segreto professionale degli esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia”. La violazione della regola deontologica del segreto sulla fonte fiduciaria comporta responsabilità disciplinare (articolo 48 della legge n. 69/1963).
Il rispetto della segretezza della fonte fiduciaria della notizia, però, non appare assoluto. L’articolo 200 del Codice di procedura penale del 1988 stabilisce, per quanto concerne il rapporto tra obbligo a deporre avanti al giudice e segreto professionale, che il giornalista può opporre il segreto professionale sui nomi delle persone dalle quali egli ha avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. Il segreto professionale può, quindi, essere rimosso con “comando” del giudice a condizione che: a) la notizia che proviene dalla fonte fiduciaria sia indispensabile ai fini della prova del reato per cui si procede; b) l’accertamento della veridicità della notizia possa avvenire soltanto tramite l’identificazione della fonte fiduciaria (Tribunale di Alba, sentenza 25 gennaio 2001, n. 601/2000 Reg. gen.). In particolare il terzo comma dell’articolo 200 del Cpp enuncia: “Le disposizioni… si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell’Albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare le fonti delle sue informazioni”. I pubblicisti e i praticanti, esclusi dai vincoli dell’articolo 200 del Codice di procedura penale, non possono, quindi, davanti al giudice, come i giornalisti professionisti, avvalersi delle norme citate per “coprire” la fonte fiduciaria delle loro notizie. Ma è pur vero che gli stessi sono tenuti a rispettare l’articolo 2 (comma 3) della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista: conseguentemente possono invocare il segreto sulle fonti.
Segreto sulle fonti: “La norma assicura una piena tutela, consentendo una deroga soltanto in via di eccezione” (Tribunale penale di Treviso). Anche la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo protegge le fonti dei giornalisti. Un giudice (mai un Pm) può ordinare, come riferito, a un giornalista professionista, in base all’articolo 200 del Cpp, di “indicare la fonte delle sue informazioni se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia”. Bisogna sottolineare che in sede giurisprudenziale è affiorato un orientamento più favorevole alle ragioni dei giornalisti: “La norma di cui al comma 3 dell’art. 200 Cpp deve intendersi riferita all’accertamento della fondatezza della notizia pubblicata, in quanto funzionale all’esame della sua veridicità che può trovare l’unico strumento nella identificazione della fonte fiduciaria. Solo in tale circostanza quindi il giudice, al fine di verificare la rispondenza della notizia indispensabile per la prova di un reato per cui si procede, potrebbe ordinare al giornalista di indicare la sua fonte, purché sia l’unico strumento investigativo a disposizione” (Pret. Roma, 21/02/1994).
I giornalisti continuano, però, nonostante le timide aperture interpretative, ad opporre il segreto professionale, che è salvaguardato anche dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. L’articolo 10 (Libertà di espressione), – ripetendo le parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e del Patto sui diritti politici di New York del 1966 -, recita: “ Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere”. La libertà di ricevere le informazioni comporta, come ha scritto la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, la protezione assoluta delle fonti dei giornalisti.
Una difesa forte del segreto dei giornalisti emerge dalla sentenza 14 gennaio 2000 del Tribunale penale di Treviso (n. 252/1999 Reg. gen.): “Nulla è risultato circa l’identità dell’informatore perché tutti i giornalisti indicati come testi si sono avvalsi del segreto professionale. Il Pm ha chiesto che gli stessi venissero obbligati, così come previsto dall’articolo 200 (terzo comma) Cpp, a deporre sul punto, ma il collegio ha respinto l’istanza. La norma appena menzionata assicura, invece, una piena tutela al segreto professionale dei giornalisti, consentendo una deroga soltanto in via di eccezione, e quindi di stretta interpretazione. Prevede l’imposizione dell’obbligo a deporre in presenza – congiunta – di due precisi requisiti: quello dell’impossibilità di accertare la veridicità della notizia se non attraverso l’identificazione della fonte della stessa e quello dell’indispensabilità della notizia ai fini della prova del reato per il quale si procede. Se questi sono gli stretti limiti di operatività della deroga, sembra evidente che l’obbligo a deporre sarebbe stato imposto non già ad accertare la veridicità della notizia (che pacificamente in questo caso erano vere e non richiedevano alcuna verifica in tal senso) , bensì ad individuare l’autore del reato di rivelazione di segreti (del quale, oltretutto, il giornalista avrebbe potuto eventualmente essere anche partecipe), violando così la tutela del segreto sulle fonti giornalistiche accordata dal legislatore”.
C’è differenza tra il segreto professionale dei giornalisti e quello degli altri professionisti. Medici, chirurghi, avvocati, sacerdoti, notai, consulenti tecnici, farmacisti e ostetriche, dottori e ragionieri commercialisti, consulenti del lavoro, dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze sono tenuti a non divulgare notizie ricevute sotto l’impegno del segreto professionale. I giornalisti, invece, sono eticamente obbligati a rendere pubbliche (sulla stampa, per agenzia, per tv o per radio, per web) le notizie ricevute, ma, con gli editori, in base all’articolo 2 della legge professionale e all’articolo 13 della legge sulla privacy, sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dalla fonte fiduciaria di esse. Gli uni non divulgano le notizie, gli altri (i giornalisti) devono pubblicare e tutelare soltanto la fonte delle notizie pubblicate.
Sentenza Goodwin: la Corte di Strasburgo difende il segreto professionale dei giornalisti (su questa linea anche il Parlamento europeo). La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (legge 4 agosto 1955 n. 848) con l’articolo 10, come riferito, tutela espressamente le fonti dei giornalisti, stabilendo il diritto a “ricevere” notizie. Lo ha spiegato la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo con la sentenza che ha al centro il caso del giornalista inglese William Goodwin (Corte europea diritti dell’Uomo 27 marzo 1996, Goodwin c. Regno Unito, v. Tabloid n. 1/2000 n. Peron). William Goodwin, giornalista inglese, aveva ricevuto da una fonte fidata ed attendibile alcune informazioni su una società di programmi elettronici (la Tetra Ltd). In particolare il giornalista rivelò che tale società aveva contratto numerosi debiti e vertiginose perdite. La società Tetra per evitare i danni che sarebbero potuti derivarle dalla divulgazione di tali notizie presentò all’alta Corte di Giustizia inglese un ricorso con il quale non solo chiedeva che fosse vietata la pubblicazione dell’articolo in questione, ma chiedeva altresì che il giornalista fosse condannato a rivelare la fonte delle informazioni ricevute al fine di evitare nuove “fughe di notizie”. Le richiesta della Tetra furono accolte sia dall’alta Corte che dalla corte d’Appello, secondo le quali il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche ben può essere limitato “nell’interesse della giustizia, della sicurezza nazionale nonché a fini di prevenzione di disordini o di delitti”. Il giornalista, tuttavia, non eseguì l’ordine di divulgazione della fonte – posto che in tale modo la stessa si sarebbe “bruciata” – e presentò ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo, denunciando la violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
La Corte di Strasburgo, con sentenza 27 marzo 1996, muovendo dal principio che ad ogni giornalista deve essere riconosciuto il diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che “di tale diritto fosse logico e conseguente corollario anche il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul presupposto che l’assenza di tale protezione potrebbe dissuadere le fonti non ufficiali dal fornire notizie importanti al giornalista, con la conseguenza che questi correrebbe il rischio di rimanere del tutto ignaro di informazioni che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività”. Questa sentenza della Corte di Strasburgo è l’altra faccia di una sentenza (la n. 11/1968) della nostra Corte costituzionale: “Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l’esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l’Ordine è chiamato a vigilare”.
La decisione del caso “Goodwin” è particolarmente interessante anche perché ha concorso a dissipare i dubbi nascenti da una interpretazione letterale dell’articolo 10 della Convenzione, che si limita a specificare che la libertà di espressione comprende sia il diritto passivo a ricevere delle informazioni sia il diritto attivo di fornirle, senza, però, che sia menzionato il diritto del giornalista di cercare e procurarsi notizie tramite proprie fonti di informazioni. Tale lacuna aveva, difatti, sollevato il quesito – attualmente sciolto dalla Corte – che quest’ultimo diritto non rientrasse nell’ambito del diritto alla libertà e pertanto non fosse ricompreso nell’ambito della sua tutela. Ma del resto la tendenza espressa dalla Corte con tale decisione trova ulteriore conferma e riscontro con le tendenze espresse al riguardo dallo stesso Parlamento Europeo, il quale – in una risoluzione del 18 gennaio 1994 sulla segretezza delle fonti d’informazione dei giornalisti – ha dichiarato che “il diritto alla segretezza delle fonti di informazioni dei giornalisti contribuisce in modo significativo a una migliore e più completa informazione dei cittadini e che tale diritto influisce di fatto anche sulla trasparenza del processo decisionale”. In sintesi il segreto professionale è indispensabile sia nello svolgimento della professione giornalistica che nell’esercizio del diritto di ogni cittadino a ricevere informazioni, mentre per contro le uniche eccezioni ammissibili devono essere ragionevoli e in ogni caso limitate, poiché “il mancato rispetto del segreto professionale limita in modo indiretto lo stesso diritto all’informazione”.
La tutela delle fonti delle giornalisti a livello continentale. Con la raccomandazione n° R (2000) 7, adottata l’8 marzo 2000, anche il Consiglio d’Europa ha voluto tutelare solennemente le fonti dei giornalisti, affermando: “Il diritto dei giornalisti di non rivelare le loro fonti fa parte integrante del loro diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 della Convenzione. L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati contraenti. Vista l’importanza, per i media all’interno di una società democratica, della confidenzialità delle fonti dei giornalisti, è bene tuttavia che la legislazione nazionale assicuri una protezione accessibile, precisa e prevedibile. E’ nell’interesse dei giornalisti e delle loro fonti come in quello dei pubblici poteri disporre di norme legislative chiare e precise in materia. Queste norme dovrebbero ispirarsi all’articolo 10, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che alla presente Raccomandazione. Una protezione più estesa della confidenzialità delle fonti d’informazione dei giornalisti non è esclusa dalla Raccomandazione. Se un diritto alla non-divulgazione esiste, i giornalisti possono legittimamente rifiutare di divulgare delle informazioni identificanti una fonte senza esporsi alla denuncia della loro responsabilità sul piano civile o penale o a una qualunque pena cagionata da questo rifiuto”. Questa raccomandazione concorre, con la risoluzione del Parlamento europeo e con le sentenze della Corte dei Strasburgo, a formare uno “spazio giuridico europeo”, che fa del segreto professionale dei giornalisti un caposaldo della libertà di stampa e del diritto dei cittadini all’informazione.
Le norme della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo sono di immediata operatività nel nostro Paese. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali rappresenta un meccanismo di protezione internazionale dei diritti dell’uomo particolarmente efficace. Le norme della Convenzione sono di immediata operatività nel nostro Paese: «Le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, salvo quelle il cui contenuto sia da considerarsi così generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate, sono di immediata applicazione nel nostro Paese e vanno concretamente valutate nella loro incidenza sul più ampio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento nell’ordinamento italiano; la ‘precettività’ in Italia delle norme della Convenzione consegue dal principio di adattamento del diritto italiano al diritto internazionale convenzionale per cui ove l’atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz’altro creare obblighi e diritti, l’adozione interna del modello di origine internazionale è automatica (adattamento automatico), ove invece l’atto internazionale non contenga detto modello le situazioni giuridiche interne da esso imposte abbisognano, per realizzarsi, di una specifica attività normativa dello Stato» (Cass., sez. un. pen., 23 novembre 1988; Parti in causa Polo Castro; Riviste: Cass. Pen., 1989, 1418, n. Bazzucchi; Riv. Giur. Polizia Locale, 1990, 59; Riv. internaz. diritti dell’uomo, 1990, 419). Anche la Corte costituzionale (sentenza n. 10 del 19 gennaio 1993) si è pronunciata autorevolmente in tale senso, specificando che la legislazione con cui la Convenzione è entrata in vigore in Italia consiste in una normativa che, pur avendo forza di legge, deriva «da una fonte riconducibile a una competenza atipica» e pertanto risulta «insuscettibile di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria». Ribadiscono ancora i supremi giudici della prima sezione penale, che si pongono su di una linea di continuità con gli enunciati delle Sezioni unite del 1988: «Le norme della Convenzione europea, in quanto principi generali dell’ordinamento, godono di una particolare forma di resistenza nei confronti della legislazione nazionale posteriore» (Cass. pen., sez. I, 12 maggio 1993; Parti in causa Medrano; Riviste Cass. Pen., 1994, 440, n. Raimondi; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848; Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, art. 86). La suprema magistratura civile è dello stesso avviso: «Le norme della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo, nonché quelle del primo protocollo addizionale, introdotte nell’ordinamento italiano con l. 4 agosto 1955 n. 848, non sono dotate di efficacia meramente programmatica. Esse, infatti, impongono agli Stati contraenti, veri e propri obblighi giuridici immediatamente vincolanti, e, una volta introdotte nell’ordinamento statale interno, sono fonte di diritti ed obblighi per tutti i soggetti. E non può dubitarsi del fatto che le norme in questione – introdotte nello ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione, non possono ritenersi abrogate da successive disposizioni di legge interna, poiché esse derivano da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali, sono insuscettibili di abrogazione o modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (Cass. civ., sez. I, 8 luglio 1998, n. 6672; Riviste: Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1998, 1380, n. Marzanati; Giust. Civ., 1999, I, 498; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848). Anche la giustizia amministrativa ritiene che «la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, resa esecutiva con la l. 4 agosto 1955 n. 848, sia direttamente applicabile nel processo amministrativo» (Tar Lombardia, sez. III, Milano 12 maggio 1997 n. 586; Parti in causa Soc. Florenzia c. Iacp Milano e altro; Riviste Foro Amm., 1997, 1275,, 2804, n. Perfetti; Colzi; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848, artt. 6 e 13 L 4 agosto 1955 n. 848).
La Convenzione deve il suo successo al fatto di fondarsi su un sistema di ricorsi – sia da parte degli Stati contraenti sia da parte degli individui – in grado di assicurare un valido controllo in ordine al rispetto dei principi fissati dalla Convenzione stessa. La Corte europea dei diritti dell’Uomo è in sostanza un tribunale internazionale istituito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali al quale può essere proposto ricorso per la violazione di diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sia dagli Stati contraenti e sia dai cittadini dei singoli Stati.
Non solo gli articoli della Convenzione quant’anche le sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che della prima è diretta emanazione, sono vincolanti per gli Stati contraenti. «Le Alte Parti contraenti – dice l’articolo 46 della Convenzione – si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti». Va detto anche che gli articoli della Convenzione operano e incidono unitamente alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo ne dà attraverso le sentenze. Le sentenze formano quel diritto vivente al quale i giudici dei vari Stati contraenti sono chiamati ad adeguarsi sul modello della giustizia inglese. «La portata e il significato effettivo delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli non possono essere compresi adeguatamente senza far riferimento alla giurisprudenza. La giurisprudenza diviene dunque, come la Corte stessa ha precisato nel caso Irlanda contro Regno Unito (sentenza 18 gennaio 1978, serie A n. 25, § 154) fonte di parametri interpretativi che oltrepassano spesso i limiti del caso concreto e assurgono a criteri di valutazione del rispetto, in seno ai vari sistemi giuridici, degli obblighi derivanti dalla Convenzione….i criteri che hanno guidato la Corte in un dato caso possono trovare e hanno trovato applicazione, mutatis mutandis, anche in casi analoghi riguardanti altri Stati» (Antonio Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo: considerazioni introduttive, in Il Corriere giuridico, Ipsoa, n. 5/1999, pagina 650). D’altra parte, dice l’articolo 53 della Convenzione, «nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Paese contraente o in base ad ogni altro accordo al quale tale Parte contraente partecipi». Vale conseguentemente, con valore vincolante, l’interpretazione che della Convenzione dà esclusivamente la Corte europea di Strasburgo. Non a caso il Consiglio d’Europa, nella raccomandazione R(2000)7 sulla tutela delle fonti dei giornalisti, ha scritto testualmente: «L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati contraenti». Su questa linea si muove il principio affermato il 27 febbraio 2001 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo: ”I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo” (in Fisco, 2001, 4684).
Conclusioni. I giornalisti italiani devono rifiutarsi di rispondere ai giudici sul segreto professionale, invocando, con le leggi nazionali, la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e la sentenza Goodwin della Corte di Strasburgo. E’ diritto insopprimibile dei giornalisti quello di raccontare i fatti su questioni di interesse generale. Questo principio, che è l’incipit dell’articolo 2 della legge professionale dei giornalisti italiani, è consacrato in una sentenza della Corte di Strasburgo. La libertà di scrivere è sacra e cammina di pari passo con l’osservanza della deontologia. Il rispetto del segreto professionale è una regola fondamentale perché sul rovescio garantisce il diritto dei cittadini all’informazione: “E’ diritto dei giornalisti quello di comunicare informazioni su questioni di interesse generale, purché ciò avvenga nel rispetto dell’etica giornalistica, che richiede che le informazioni siano espresse correttamente e sulla base di fatti precisi e fonti affidabili; costituisce, pertanto, un limite irragionevole alla libertà di stampa la condanna per ricettazione di giornalisti che, attenendosi alle norme deontologiche, abbiano pubblicato documenti di interesse generale pervenuti loro in conseguenza del reato di violazione di segreto professionale da altri commesso (nella specie, copia delle denunzie dei redditi di un importante manager francese)” (Corte europea diritti dell’Uomo, 21 gennaio 1999; Parti in causa Comm. europea dir. uomo c. Governo francese e altro; Riviste: Foro It., 2000, IV, 153).
La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e le sentenze di Strasburgo rendono forte il lavoro del cronista. La vicenda Goodwin è un episodio che assume valore strategico. Quella sentenza può essere “usata”, quando i giudici nazionali mettono sotto inchiesta, sbagliando, i giornalisti, che si avvalgono del segreto professionale. I giornalisti devono rifiutarsi di rispondere ai giudici in tema di segreto professionale, invocando, con le leggi nazionali (la n. 69/1963 e la 675/1996), la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e la sentenza Goodwin della Corte di Strasburgo. Questa linea è l’unica possibile anche per evitare, come scrive il Tribunale penale di Treviso, di finire sulla graticola della incriminazione per violazione del segreto d’ufficio in concorso con pubblici ufficiali (per lo più ignoti), cioè con coloro che, – magistrati, cancellieri o ufficiali di polizia giudiziaria -, hanno “spifferato” le notizie ai cronisti. Senza contare che il giornalista che svela le sue fonti rischia il procedimento disciplinare al quale non può, comunque, sfuggire per l’evidente violazione deontologica.
*presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e docente di diritto del giornalismo all’Università Iulm di Milano

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