Appunti su deontologia forense, processo civile e nuove tecnologie

Redazione 22/06/20
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di Massimiliano Bina

Sommario

1. Premessa

2. L’incidenza sui doveri di fedeltà: il dovere di competenza (art. 14 CDF) e di aggiornamento professionale (art. 15 CDF)

3 Segue: il dovere di riservatezza (art. 13 CDF) e il dovere di mantenere il riserbo e il segreto professionale (art. 28 CDF)

4. Segue: il dovere di informare il cliente (art. 27 CDF)

5. L’incidenza delle nuove tecnologie sui doveri di probità dell’avvocato

6. Segue: il dovere di verità (art.50 CDF)

7. Segue: il dovere di lealtà e probità nel processo (art. 88 c.p.c.)

8. Impatto delle nuove tecnologie sui rapporti con i magistrati

1. Premessa

Il processo civile al tempo del COVID-19 verrà ricordato come il momento in cui l’avvocato ha dovuto fare i conti con l’uso delle nuove tecnologie. Non che sia una novità in senso assoluto, ma conferma una tendenza iniziata con il processo civile telematico e ci costringe ad alcune riflessioni. In particolare, occorre verificare come le nuove tecnologie incidano: sui doveri di fedeltà dell’avvocato nei confronti del cliente (dovere di competenza, di riservatezza, di informare il cliente); sui doveri dell’avvocato quando agisce nel processo per conto del cliente (dovere di verità; dovere di lealtà e probità); sui rapporti tra avvocato e magistrati.

2. L’incidenza sui doveri di fedeltà: il dovere di competenza (art. 14 CDF) e di aggiornamento professionale (art. 15 CDF)

L’avvocato ha un dovere di competenza che non si esaurisce nella conoscenza approfondita della legge, ma implica anche la padronanza delle tecniche di utilizzazione del sapere giuridico[1].

Non solo; all’avvocato sono richieste altre attitudini (ad es. delle abilità espositive e psicologiche, l’abilità nell’utilizzare tecniche di argomentazione e di negoziazione, la capacità di prevedere l’esito della lite) che concorrono a formare il suo bagaglio professionale.

Tra queste vi rientra anche la competenza in materia di nuove tecnologie con cui l’avvocato è tenuto a confrontarsi quotidianamente. Ciò accade tutte le volte in cui l’avvocato si trovi a dovere affrontare una questione che coinvolge profili attinenti l’information technology perché lo impone il legislatore (come è avvenuto con il processo civile telematico; o come è stato imposto dalla legislazione emergenziale in tempo di COVID 19 per le udienze da remoto); o perché l’avvocato si trova a dover valutare l’ammissibilità o la portata di un mezzo di prova rappresentato in un documento informatico; oppure, quando l’avvocato decida di utilizzare le nuove tecnologie per offrire nuovi servizi al cliente, o in una prospettiva di legal marketing o, ancora, perché gli strumenti informatici risultano utili per una più efficiente organizzazione dello studio legale.

Il nostro Codice Deontologico Forense non si occupa della competenza tecnologica dell’avvocato a differenza del commento 8 alle Model Rules of Professional Conduct dell’American Bar Association, dal 2012 prevede espressamente che “l’avvocato deve tenersi al corrente dei cambiamenti nella legge e nella sua pratica, compresi i vantaggi e i rischi associati alla tecnologia…“. Non si può escludere, tuttavia, nonostante il silenzio del CDF, che l’avvocato non debba avere un dovere di competenza tecnologico[2] quando, nella professione forense, si avvalga di strumenti informatici.

1 G.C.Hazard, A.Dondi, Etiche della professione legale, Bologna 2005, p.155 ss.

2 Per una panoramica della questione, in dottrina, v. A.Dondi, Processo civile, new technologies e implicazioni etico-professionali, in Riv.trim.dir.proc.civ. 2019, p.863 ss.; J.Baker, Beyond the Information Age: The Duty of Technology Competence in the Algorithmic Society in South Carolina Law Review, Vol. 69, 2018, p. 1 ss.; J. A. Guttenberg, Practicing Law in the Twenty-First Century in a Twentieth (Nineteenth) Century Straightjacket: Something has to Give, in Mich. St. L. Rev. 2012, p. 415 ss.; K.Ho, Defining the Contours of an Ethical Duty of Technological Competence, in Geo. J. Legal Ethics 2017, vol.30, p. 853 ss.; H. Frostestad Kuehl, Technologically competent: ethical practice for 21st century lawyering, in Journal of law, technology & the internet 2019, vol. 10, p. 1 ss.; C.B. Preston, Lawyers’ Abuse of Technology, in Cornell L. Rev. 2018, vol.103, p.879 ss.

3 Segue: il dovere di riservatezza (art. 13 CDF) e il dovere di mantenere il riserbo e il segreto professionale (art. 28 CDF)

Il dovere di riservatezza, previsto dall’art. 13 e 28 del CDF, obbliga l’avvocato a non divulgare le informazioni acquisite nel corso del mandato professionale[3].

Alcune delle informazioni oggetto del dovere di riservatezza dell’avvocato sono tutelate anche dalla legge processuale[4]. L’avvocato, infatti, ha la facoltà di astenersi dal rendere testimonianza[5] sui fatti appresi nel corso dell’attività giudiziale e in quella di consulenza legale ed assistenza stragiudiziale prestata in favore del cliente (perché oggetto di comunicazioni confidenziali ricevute dal cliente; o perché il frutto del lavoro preparatorio e delle investigazioni difensive dell’avvocato e purché non siano state divulgate, nemmeno accidentalmente), cioè su quelle informazioni che l’art.6 l.247/2012 (“della legge professionale forense”) qualifica in termini di segreto professionale. Analogamente, agli organi esecutivi dello Stato ed alla polizia giudiziaria è impedito di procedere all’acquisizione della documentazione riconducibile al segreto professionale[6].

Ne consegue che il dovere di riservatezza ha un contenuto negativo, perché proibisce all’avvocato di divulgare le informazioni coperte da segreto professionale; ed uno positivo, perché impone all’avvocato l’obbligo di adoperarsi per tutelare dette informazioni. L’avvocato, pertanto, deve evitare, ad esempio, le chiacchiere da ascensore; deve sincerarsi che le conversazioni con il proprio cliente avvengano in un ambiente ragionevolmente protetto; e, ancora, deve esercitare il dovere di astensione qualora venisse chiamato a testimoniare su fatti coperti da segreto professionale.

Da questo quadro emerge che l’avvocato deve preoccuparsi di valutare i rischi conseguenti all’uso delle nuove tecnologie sulle informazioni che egli è tenuto a mantenere riservate. Deve, in altre parole, analizzare il tipo di informazioni acquisite (qualificandole confidenziali o altamente confidenziali, in ragione del profilo del cliente e dell’esistenza di ragioni oggettive, come il coinvolgimento di minori, l’esistenza di un segreto industriale) e valutare l’adeguatezza degli strumenti informatici utilizzati per trattare il predetto tipo di informazioni (ad esempio, l’avvocato che difende un coniuge in una separazione non deve inviare email aventi ad oggetto comunicazioni relative alla causa all’indirizzo comune di entrambe i coniugi; ancora, sempre a titolo esemplificativo, deve valutare il sistema di archiviazione dei dati in cloud che ritiene di adottare e l’affidabilità della società che presso cui vengono archiviati). L’avvocato è tenuto, poi, a condividere con il cliente le modalità di trattamento informatico delle informazioni, soprattutto quando le informazioni sono qualificate come altamente confidenziali.

3 Cfr. il commento alle MRCP disponibile su https://www.americanbar.org/groups/professional_responsibility/publications/model_rules_of_professional_conduct/rule_1_6_confidentiality_of_information/comment_on_rule_1_;W.B. Wendel, Lawyers and Fidelity to Law, Princeton University Press 2010, p.205 ss.; C. Wolfram, Modern legal ethics, St.Paul Minnesota 1986, West Publishing Company, § 6.1.3, p. 299 ss.; F.C.Zacharias, Rethinking Confidentiality, in Iowa L. Rev. 1989, vol.74, p.351 ss. Critiche al dovere di riservatezza sono state avanzate da D.Stevenson, Againist confidentiality, in U.C. Davis L. Rev. 2014, vol.48, 337 ss.; D.R. Fischel, Lawyers and Confidentiality, in U.Chi.L.Rev. 1998, vol.65, p.1 ss.

4 R.J.Allen, R.B.Khuns, E.Swift, D.S.Schwartz, Evidence. Text, Problems, and Cases, 4a ed., Aspen Publisher, New York 2006, p.787 ss., spec. 885; R.J. Allen, M.F. Grady, D.D. Polsby, M.S. Yashko, A Positive Theory of the Attorney-Client Privilege and the Work Product Doctrine, in J. Legal Stud. 1990, vol. 19, p. 371 ss.; J.B.Weinstein, J.H.Mansfield, N.Abrams. M.A.Berger, Evidence. Cases and Materials, 8a ed., The Foundation Press Inc., Westbury-NY, 1988, 1348 ss.;

5 V. art. 200 c.p.p. cui rinvia l’art. 249 c.p.c.,

6 V.l’art.118 c.p.c., dettata per l’ispezione, e che risulta applicabile alla descrizione prevista dall’art.129 c.p.i. e dall’art.161 l.d.a., di cui costituiscono una specie, ed all’ordine di esibizione, per espresso richiamo dell’art.210 c.p.c.

4. Segue: il dovere di informare il cliente (art. 27 CDF)

Tra i doveri di informazione che gravano sull’avvocato, rientra anche quello di informare il cliente sull’utilizzo delle nuove tecnologie.

Quando l’avvocato ha un potere discrezionale di scegliere se e come ricorrere all’utilizzo di nuove tecnologie, deve valutare il loro impatto sulla riservatezza delle informazioni acquisite nel corso del mandato. Quando l’avvocato non ha non ha potere sulla scelta e sulla valutazione dello strumento informatico processuale che deve utilizzare, (perché la scelta, ad esempio, è fatta dal Ministero della Giustizia o dal Giudice; oppure è imposta dal cliente), resta comunque l’obbligo di informare il cliente sulle sue caratteristiche e sulle eventuali opzioni a disposizione.

Ad esempio, il cliente deve essere informato sui rischi per la sicurezza dei dati relativi ad una connessione pubblica, qualora venisse utilizzata per partecipare ad una udienza “da remoto”. Ancora, se fosse lasciata alle parti la scelta di optare per la trattazione cartolare dell’udienza, o per la celebrazione di una udienza “da remoto”, occorre informare il cliente sull’opportunità di insistere per l’una o l’altra modalità di attuazione del contraddittorio. Infine, se il cliente che partecipa all’udienza da remoto non fosse fisicamente presente nella stanza dell’avvocato, quest’ultimo deve informare il cliente delle regole processuali che disciplinano l’udienza.

5. L’incidenza delle nuove tecnologie sui doveri di probità dell’avvocato

Quando l’avvocato agisce nel processo quale rappresentante della parte ha dei doveri di probità e correttezza che tradizionalmente sono ricondotti al cd. principio di “doppia fedeltà” all’ordinamento ed al cliente. A ben vedere, il medesimo risultato cui si perviene postulando l’esistenza di una “doppia fedeltà” – che ha l’inconveniente di apparire di difficile attuazione e contemperamento, poiché non sempre è chiaro quando l’avvocato debba anteporre gli interessi dell’ordinamento a quelli del cliente – è raggiungibile considerando che i c.d. “doveri di probità” hanno una struttura diversa rispetto ai “doveri di fedeltà” dell’avvocato nei confronti del cliente, perché l’avvocato, quando agisce per il cliente, non adempie a dei doveri propri (processuali o deontologici), ma adempie a dei doveri (sostanziali) del cliente nei confronti dell’ordinamento e, financo, di terzi[7].

7 L.R.Patterson, Importanza e ruolo del cliente nell’etica professionale dell’avvocato, in Dondi (a cura di) Avvocatura e giustizia negli Stati Uniti, Bologna 1993, p. 187 ss.; Id., The Function of a Code of Legal Ethics, in U. Miami L. Rev. 1981, vol.35, 695 pp. ss.

6. Segue: il dovere di verità (art. 50 CDF)

L’art. 50 CDF[8] dispone che l’avvocato ha un dovere di verità nel processo[9]. Il dovere di verità è un “dovere di probità” e la misura del dovere di verità dell’avvocato è determinata dal dovere del cliente di essere sincero[10]. In altre parole, la norma deontologica non impone un dovere nuovo in capo all’avvocato ma estende all’avvocato dei doveri che già gravano sulla parte.

In particolare, l’avvocato non deve introdurre nel procedimento (e se introdotti dal proprio cliente non deve utilizzare), prove, elementi di prova o documenti che sappia (o apprenda) essere falsi (1°, 2°, 3° comma). Ciò perché il cliente non ha diritto di introdurre o utilizzare prove false e l’avvocato non può farlo. Ancora, l’avvocato non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato (5° comma). Ciò perché il cliente non ha il diritto di mentire su questi fatti e l’avvocato, di conseguenza. non può farlo (ad esempio, l’imputato non può dire il falso riguardo le proprie generalità: non c’è contraddittorio e, pertanto, il diritto di mentire non può essere assicurato).

Ora, spesso accade che i protocolli adottati da diversi Tribunali impongono, nel corso di una udienza “da remoto”, che l’avvocato debba rilasciare alcune attestazioni su fatti che non accadono “in presenza” del giudice. Bene, viola l’art. 50 CDF l’avvocato che attesti che non sono collegate, o non sono presenti nella stanza da dove egli trasmette, delle persone non legittimate a partecipare all’udienza; o, ancora, che attesti falsamente che non sono in corso registrazioni dell’udienza. Parimenti, viola l’art. 50 CDF l’avvocato che attesti falsamente l’identità del proprio cliente o che, a chiusura dell’udienza, attesti falsamente o ometta di attestare, come richiesto da alcuni protocolli, “di avere partecipato all’udienza nel rispetto del contraddittorio” o “che lo svolgimento dell’udienza è avvenuto regolarmente”.

8 R.Danovi, Deontologia e giustizia, Giuffrè, Milano, 2003, p. 63 ss.; G.C.Hazard, A.Dondi, Etiche della professione legale, cit., p.318 ss.

9 In una prospettiva storica, cfr. R.Bianchi Riva, Il dovere di verità: fra tecniche della difesa e deontologia forense nel medioevo e nell’età moderna, in Italian Review of Legal History 2015, n. 04, pag. 1-20; C.R.Andrews, Ethical Limits on Civil Litigation Advocacy: A Historical Perspective, in Case W. Res. L. Rev. 2012, vol.63, p. 390.

10 Sul dovere di verità della parte, v. M.Gradi, L’obbligo di verità delle parti, Torino 2018.

7. Segue: il dovere di lealtà e probità nel processo (art. 88 c.p.c.)

L’avvocato, nel processo, ha un dovere di collaborazione con il Tribunale che assume diverse connotazioni[11]. Anche questo è un dovere di probità – come il dovere di verità discusso al paragrafo precedente – la cui fonte è probabilmente riconducibile all’art. 88 c.p.c. che impone alla parte il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità; dovere che la stessa norma estende all’avvocato e che viene sanzionato sul piano deontologico.

Il CDF non codifica espressamente un dovere di lealtà/collaborazione nel processo: i principi (art. 9 CDF) richiamano, “il dovere di lealtà, correttezza, probità. tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa“; ma si riferiscono alla attività professionale in generale, non all’attività di rappresentanza processuale. La ragione, probabilmente, risiede nel fatto che il Giudice ha un potere di direzione formale dell’udienza che è, per larga parte, legalmente predeterminato con pochi margini discrezionali e possibilità di deviare dal modello standard di processo[12]. Ne consegue che il nostro codice deontologico non ha avvertito l’esigenza di prevedere un principio di collaborazione dell’avvocato nell’attività processuale come, invece, sarebbe fondamentale in un processo in cui fossero attribuiti al giudice degli importanti poteri manageriali o di adattamento delle forme processuali alle esigenze della controversia specifica.

Esistono, tuttavia, alcune regole specifiche che sono riconducibili al dovere etico di collaborazione: l’art. 46, 2° comma, CDF impone il rispetto della puntualità in sede di udienza, sanzionandone la ripetuta violazione; l’art. 59 CDF, punisce il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario del processo civile, ove determinato esclusivamente dal comportamento dilatorio dell’avvocato.

Nel corso dell’udienza “da remoto”, ad esempio, è possibile configurare delle ipotesi di violazione del dovere di lealtà e probità nel processo. Ciò potrebbe accadere qualora l’avvocato non si connettesse, o si connettesse sistematicamente in ritardo alla “stanza virtuale” che consente lo svolgimento delle attività di udienza; o, ancora, allorquando l’avvocato dovesse addurre, ripetutamente, il malfunzionamento della connessione; infine, qualora l’avvocato abusasse degli strumenti che gli consentono di attivare o disattivare le modalità audio/video senza il rispetto dei protocolli adottati o utilizzasse impropriamente gli strumenti di condivisione dei documenti e di testi e delle comunicazioni scritte. In tutti questi casi, in assenza di una sanzione processuale – soluzione che pare preferibile – la sanzione deontologica pare l’unica che possa fungere da misura coercitiva.

Lo stesso è da dirsi per il mancato rispetto ai termini imposti dal giudice (e che questi ultimi qualificano come perentori) per il deposito delle p>

Allo stesso tempo, è da escludere che il dovere di collaborazione imponga all’avvocato di subire l’imposizione di regole processuali individuate dal giudice che si pongono in violazione della legge come accade, ad esempio, nelle ipotesi di trattazione cartolare di una udienza ex art. 281 sexies c.p.c. che, per definizione, costituisce una modalità alternativa, orale, a quella ordinaria, scritta, di svolgimento della fase conclusiva del processo-

11 G.Scarselli, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in Riv.trim.dir.proc.civ. 1998, p. 91 ss.

12 Per una disamina, cfr. M.A.Lupoi, Tra flessibilità e semplificazione, Bologna 2018, passim.

8. Impatto delle nuove tecnologie sui rapporti con i magistrati

-La disciplina deontologica dei rapporti con i magistrati è contenuta nel titolo IV del CDF e prevede, all’art. 54, 2° comma, CDF, che l’avvocato, salvo casi particolari, non deve interloquire con il giudice in merito al procedimento in corso senza la presenza del collega avversario; all’art. 53, 3° comma, CDF, che l’avvocato non deve approfittare di rapporti di amicizia, familiarità o confidenza con i magistrati per ottenere o richiedere favori e preferenze, né ostentare l’esistenza di tali rapporti

Le nuove tecnologie, in questo ambito, non introducono un nuovo dovere per l’avvocato, ma rendono più frequenti le occasioni nelle quali avvocati e magistrati possono incontrarsi, anche virtualmente. In passato, le ipotesi sanzionate si riducevano sostanzialmente all’avvocato che, nottetempo, si incontrava con il giudice per discutere dei fatti di causa; oggi, sono gli stessi protocolli a prevedere lo scambio o di e-mail ordinarie, o di numeri di telefono, così risultando agevolando i rapporti “fuori udienza”.

Al riguardo, si osserva che dovrebbe essere sanzionabile l’utilizzo della e-mail del magistrato per comunicazioni che non sono strettamente connesse al procedimento e per gli scopi per i quali l’indirizzo è stato comunicato; o la condotta dell’avvocato che intrattiene con il magistrato rapporti abituali , utilizzando social media.

Redazione

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