Amministrazione di sostegno: Commento alle sentenze Tribunale di Bologna sez. I civile sentenza n. 2288 del 3.10.2006 e Tribunale civile di Trieste sentenza 29 settembre 2006.

Scorza Paola 15/03/07
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Le pronunce   del Tribunale di  Bologna e del Tribunale di Trieste consentono,  ancora una volta,  di prendere atto   della profonda differenza di orientamenti e, conseguentemente, di provvedimenti cui dà luogo l’applicazione della normativa sull’amministrazione  di sostegno.
Tali disposizioni salutate da tutti come una grande conquista dello stato civile, sia per l’ampiezza della sua formulazione, sia per la materia che intendono regolare  sia, infine, per gli aspetti umani che coinvolgono, sembrano, invero, destinate a subire le più diverse interpretazioni.
E’ opportuno ricordare che l’art. 404 c.c. -così come introdotto dalla legge 9 gennaio 2004 n. 6- testualmente recita: “La persona che, per effetto di una infermità, ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio”.
Di certo la formulazione di detto articolo è tale che difficilmente potrà con successo sostenersi che in quel determinato caso l’amministratore doveva o non doveva essere nominato, tanto da potere chiedere un annullamento del decreto contenente il provvedimento.
Non sembra però, lecito che l’interprete non si soffermi a valutare sul piano dei principi fondamentali che regolano la capacità delle persone e la loro autonomia, quale debbano essere, almeno, i limiti estremi entro i quali le peculiari caratteristiche della fattispecie e l’indubbia discrezionalità che sorregge la decisione del Giudice,  hanno possibilità di esplicare i rispettivi effetti.
Al riguardo occorre tenere presente che   perché possa aprirsi la procedura dell’amministrazione di sostegno occorre  trovarsi in presenza di   soggetto che si trova nell’impossibilità parziale o temporanea  di provvedere ai propri interessi ed occorre ricordare che la finalità della nuova previsione è quella di rendere i procedimenti di interdizione e/o di inabilitazione, visti come gravemente lesivi non solo dell’autonomia e libertà del soggetto menomato anche della sua dignità, come eventi del tutto eccezionali cui ricorrere soltanto qualora la nomina di un amministrazione di sostegno appaia  del tutto inadeguata.
Mentre queste basilari considerazioni trovano concordi dottrina e giurisprudenza, sensibile è la diversità delle decisioni che- come detto- si riscontra nella prassi.
La formulazione della norma, laddove prevede che l’impossibilità può essere   “anche parziale o  temporanea” è,  forse il motivo principale se non esclusivo delle svariate decisioni che la Magistratura si trova ad adottare, sul presupposto  che   il ricorso alla nomina di un amministratore di sostegno possa essere disposto anche in caso di una infermità o di una menomazione che prima dell’entrata in vigore della L. n. 6/2004 avrebbe imposto il ricorso per interdizione, consentendolo,  se non addirittura imponendolo,   l’espressione letterale  della norma.
Tuttavia, la constatazione che lascia assai perplessi sul piano della realtà effettuale non appare,  né così sicura,  né così inevitabile ove si rifletta sulle ulteriori norme regolatrici dell’istituto.
Sotto il primo aspetto, invero, non si vede perché, non dovrebbe farsi luogo all’interdizione, qualora il soggetto nel cui interesse è proposto un ricorso per amministratore di sostegno risulti del tutto privo della capacità di intendere e di volere, disorientato nel tempo e nello spazio, fino al punto di non comprendere alcunché di ciò che accade intorno a lui e, come tale,  impossibilitato ad esprimere in qualsiasi modo la propria  volontà  ed a curare anche i più elementari bisogni della propria vita quotidiana.
Di certo l’interdizione non muterebbe in alcun modo il suo stato,  né il suo porsi dinnanzi gli altri e non potrebbe certo corrersi il rischio che possa avvertire quella menomazione alla sua dignità che, come detto, il legislatore ha voluto tutelare ad ogni costo.
In tale fattispecie, dunque, quando  si legge nelle motivazioni che la preferenza per l’amministrazione di sostegno è consentita ed imposta dalla nuova disciplina, proprio in vista della salvaguardia della personalità   e proprio al fine di  perseguire la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile,  la capacità di agire, in realtà, più che affermare il rispetto della legge, si perpetua e si dà importanza a quella vecchia sensazione, non dell’interdetto (che nulla comprende) ma dei di lui familiari che  spesso vivono come mortificazione e quasi vergogna il provvedimento di interdizione che, in effetti, altro non fa che prendere atto della realtà e cercare di   rimediare alle conseguenze della menomazione stessa.
Se tale riflessione, come sembra,  è esatta occorre avere “il coraggio” di riconoscere che scegliere la strada del procedimento per l’amministrazione di sostegno in luogo  di quello dell’ interdizione allorché un soggetto è in stato di totale incapacità di intendere e di volere, non comporta alcun beneficio per quest’ultimo, né è un obbligo che discende dalla normativa.
E che ciò non sia almeno del tutto errato o  soltanto frutto di vecchi e superati modi di pensare,   sembra potersi dedurre esaminando le disposizioni che regolano il procedimento e indicano il contenuto minimo che deve avere il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno.
A tal fine l’art. 405 c.c. prevede che il decreto debba contenere tra l’altro la durata dell’incarico, l’oggetto e gli atti che l’amministratore di sostegno può compiere per conto del beneficiario, gli atti che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore, in modo che resti determinato e chiaro quale sia l’ambito in cui il beneficiario del provvedimento può agire autonomamente.
Orbene, è facile immaginare che nel caso estremo di cui finora si è trattato, l’indicazione dell’attività che l’amministratore di sostegno sarà chiamato ad espletare per conto del beneficiario coinciderà perfettamente con tutti quegli atti, dai più semplici e quotidiani a quelli più delicati e complessi di carattere   economico   e finanziario che, ove non fosse sussistito lo stato di incapacità, quest’ultimo sarebbe stato chiamato a compiere, in considerazione delle proprie condizioni personali, sociali e patrimoniali.
Conseguentemente, nessuna benché minima facoltà potrà essere riconosciuta al beneficiario, neanche assistito dall’amministratore di sostegno, perché quest’ultimo dovrà essere autorizzato a sostituirsi completamente a lui.
Nessun vantaggio, dunque, consegue al soggetto destinatario del provvedimento, mentre alto è il rischio che il decreto non riesca a prevedere se non in termini alquanto generici (e forse non consentiti) tutti i singoli atti che l’amministratore potrà concludere nel nome e nell’interesse dell’amministrato e la conseguente necessità di far spesso ricorso al Giudice tutelare per chiarire ovvero integrare l’originario provvedimento di nomina.
Non di poco conto, infine, il pericolo che sfruttando il vuoto lasciato dal provvedimento (spazio che dovrebbe coincidere con l’attività che l’amministrato può compiere da solo) il beneficiario potrebbe essere indotto a compiere atti   annullabili con buona pace per la certezza dei rapporti con i terzi e si darebbe così grande spazio a controversie defaticanti.  
Anche se più delicato e complesso,    pressocchè analoghe sono le riflessioni che sembrano potersi fare allorché si debba stabilire se, ricorrendo le condizioni cui all’art. 415 c.c. si debba far luogo all’amministrazione di sostegno o all’inabilitazione, poiché anche in questo caso alla chiarezza della situazione giuridica che consegue alla nomina del curatore fa riscontro una situazione incerta e foriera di dubbi ed incertezze di vario genere, anche se la scelta non potrebbe in nessun caso trovare giustificazione nella ratio della norma, perché i soggetti indicati nell’art. 415 c.c. citato, sono in grado di comprendere che con la nomina del curatore   non si intende mortificare la loro dignità o privarli ingiustamente della loro  autonomia (contrariamente a quanto avviene se si nomina un amministratore di sostegno),  ma, più semplicemente,  porli al riparo dalle conseguenze negative   dell’attività che il loro  stato di salute potrebbe indurli a porre in essere.      
Ed allora, se non può negarsi che, alla stregua della dizione letterale della norma, anche l’impossibilità totale  di un soggetto di provvedere alla cura dei propri interessi può consentire la nomina dell’amministratore di sostegno, quale il criterio che  deve indirizzare il potere discrezionale del Giudice?
Al riguardo la decisione richiamata del Tribunale di Bologna  è illuminante per confermare la pressoché totale incertezza che regna in materia e la necessità di dare una valida risposta all’interrogativo.
Il Giudice adito, cui era stato chiesto di dichiarare l’interdizione della convenuta, pur dando atto che quest’ultima da oltre tre anni si trovava in una situazione di totale carenza di autonomia, che incideva pesantemente sulla sua libertà di movimento e sulla di lei vita di relazione,  non   ha ravvisato  la necessità di applicare la misura residuale dell’interdizione,quanto,  piuttosto,  di rimettere gli atti al Giudice Tutelare (sia pure dopo aver nominato un amministratore provvisorio) per l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno in considerazione  che “l’assistenza materiale e sanitaria e dei servizi ala persona è già assicurata dalla collocazione presso la struttura ospedaliera e dalle amorevoli cure apprestate dai genitori” ed atteso che “considerata la sua attuale condizione di vita, non sono ipotizzabili da parte della convenuta condotte a sé pregiudizievoli”.
Il Tribunale, dunque, ha condiviso l’orientamento secondo il quale, come detto non è il criterio “quantitativo” che segna il confine tra le varie misure   di protezione apprestate dall’ordinamento (come del resto affermato dalla Cass. Sez. I 12.6.2006, n. 13584), bensì la sua attuale materiale sistemazione, l’impossibilità di compiere alcunché e l’assistenza dei familiari.
Tali considerazioni sicuramente condivisibili dal punto di vista etico-sociale, non appagano,  però, il senso giuridico che deve pur sempre presiedere a qualunque interpretazione delle norme ed appaiono meritevoli di alcune considerazioni.
In primo luogo appare opportuno precisare  che,  né la sistemazione materiale, né le “amorevoli cure apprestate dai familiari” appaiono elementi tali da giustificare  valida la scelta tra l’interdizione e l’amministrazione di sostegno: astrattamente sarebbe sempre pressocchè impossibile o quanto meno assai difficile    che qualcuno riesca a far compiere atti pregiudizievoli all’incapace, approfittando del suo stato di incapacità.
Tuttavia, la realtà offre innumerevoli casi in cui ciò è effettivamente accaduto ed il reato di circonvenzione di incapaci esiste e, forse, non sempre riesce ad emergere.
Ugualmente non discriminante l’esistenza di familiari che apprestano spontaneamente   cura ed assistenza: anche se questo corrisponde alla più diffusa realtà,   è altrettanto vero che i Tribunali sono pieni di procedimenti lunghi e fastidiosi in cui si  chiede di accertare se, quel determinato atto di disposizione del patrimonio posto in essere da un soggetto sia valido o non valido perché “estorto” magari proprio da chi  assume di essersi dedicato disinteressatamente alla cura e all’assistenza di quest’ultimo.
La empiricità e l’inadeguatezza di siffatti elementi di valutazione è, del resto, resa evidente considerando la conclusione cui è giunta l’altra decisione richiamata.
In questa fattispecie era stata chiesta la revoca della già disposta interdizione di un ragazzo di cui era stato accertato lo stato di ritardo intellettivo e del linguaggio deficitario posti a base  dell’incompleto sviluppo psichico e della grave compromissione delle capacità cognitive e  linguistiche sul presupposto che  a seguito dell’assistenza specialistica e scolastica, il suo stato era migliorato consentendogli di acquisire una certa autonomia sia nella cura della propria persona, sia nelle attività materiali.
In tale situazione, il Tribunale, pur dando doverosamente atto che il beneficiario restava “un soggetto debole, nel senso che permane la sua attuale incapacità di provvedere in modo completamente autonomo ai propri interessi e permane quella fragilità intesa come mancanza di difesa, connessa alle sue condizioni, che potrebbero esporlo al rischio di manipolazioni” revocata l’interdizione ha ritenuto di poter affermare che, considerato che il ragazzo è “ tuttora seguito in ogni sua attività per il completo coordinamento tra la famiglia (la madre), la scuola e gli operatori del servizio sociale e sanitario”, che percepisce solo una pensione che viene versata su un conto corrente cointestato anche alla madre con la quale vive…………” e tenuto conto della posizione familiare e sociale di cui il ragazzo già gode in questa fase del suo sviluppo,  allo stato, risultano  insussistenti, in relazione ai concreti interessi cui occorre attualmente provvedere, i presupposti per adottare un qualsivoglia provvedimento di amministrazione di sostegno.
Dunque, secondo il Tribunale di Trieste, l’ambiente protettivo nel quale vive il  soggetto debole o il parzialmente debole e le cure affettuose apprestate dai familiari,  non solo consentono la revoca di un provvedimento di interdizione, ma rendono superflua anche la nomina di un amministratore di sostegno.
Sia consentito rilevare che,  se discutibile appare la prima delle richiamate decisioni, quest’ultima appare certamente non condivisibile sul piano dei principi perché lascia senza alcuna giuridica difesa il soggetto debole e pone (poiché non è determinante la limitatezza  dei mezzi economici di cui dispone l’incapace) il soggetto che di lui si interessa, senza alcun potere in grado di consentirgli di occuparsi legittimamente degli interessi dell’impossibilitato.
Non si tratta di vuota e sterile  volontà di criticare: il problema, come detto, è delicato  e comprensibile e nota è la difficoltà di rinvenire criteri ed elementi che possono indirizzare la discrezionalità del Giudicante che, come è ovvio.  per essere autenticamente tale deve avere limiti invalicabili.
Tuttavia uno sforzo deve essere fatto.
Probabilmente in quest’ottica, se si dovrà continuare a riconoscere che anche la più totale delle infermità può legittimare la nomina dell’amministratore di sostegno, occorrerà  che nella decisione si ponga l’accento sul tipo di attività che deve essere compiuta in nome del beneficiario, ovvero sulla durata e sul tipo, piuttosto che nell’ambiente in cui esso vive o nella spontanea assistenza che altri gli offrono.
Potrà risultare, quindi, corretta la nomina dell’amministratore di sostegno ove l’infermità per quanto totale appaia destinata a  dissolversi, essendo corretto e sufficiente che medio tempore si provveda soltanto al compimento di quegli atti improcrastinabili per la cura del suo patrimonio, lasciando all’incapace, una volta riacquistata la  capacità di provvedere, secondo i suoi personali intendimenti ed in piena autonomia.
Sarà sicuramente necessario e opportuno  nominare un amministratore di sostegno al soggetto la cui incapacità,  anche modesta e di qualsiasi natura,   non gli consenta   di intervenire nel determinato momento in cui un’ attività deve essere svolta, onde non compromettere con più lunghi e farraginosi procedimenti giudiziari,   non soltanto  il suo personale interesse  alla conclusione di un affare,   ma anche  quelli  degli altri soggetti,   che potrebbero esserne coinvolti.
Potrà essere ugualmente consentito nominare un amministratore di sostegno al soggetto affetto da uno stato patologico caratterizzato da un andamento intermittente e, dunque, dall’alternarsi di fasi di lucidità e di brevi episodi di squilibrio,  a condizione che nel provvedimento di nomina dell’amministratore venga del tutto esclusa la possibilità che questi possa compiere atti di straordinaria amministrazione senza la previa autorizzazione del giudice tutelare, così come   analogamente potrà verificarsi nell’ipotesi di soggetto affetto da demenza senile.
Sembra, invece, inevitabile procedere all’interdizione di quei soggetti i quali non solo si trovano nelle condizioni espressamente indicate nel novellato art. 414 c.c e cioè in uno stato tale di infermità tale da renderli assolutamente incapaci provvedere alle più elementari necessità,   ma risultino anche titolari di una serie di rapporti giuridici e di interessi patrimoniali la cui gestione appaia complessa e tale da non poter adeguatamente essere indicata in un decreto di nomina di amministratore di sostegno e la cui infermità appaia irreversibile e destinata a protrarsi nel tempo.
Probabilmente,   al contrario, la massima estensione della discrezionalità può legittimare il ricorso all’amministratore di sostegno, anziché la nomina di un tutore allorché ci si trovi in presenza di un soggetto dall’età avanzata o con modesto    patrimonio. 
L’argomento, è indubbio, merita maggiore approfondimenti non possibili in questa sede ed   offre tanti punti incerti.
Quel che, comunque,  appare certo è che non potrà continuare a lungo l’enorme   divario di interpretazioni e di modi di intendere l’ambito di applicazione della normativa sull’amministrazione di sostegno: o il legislatore si deciderà ad abolire gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, dettando però una disciplina più puntuale e pregnante dell’amministrazione di sostegno, oppure sarà assolutamente necessario che la giurisprudenza, in vista della salvaguardia  della certezza dei rapporti giuridici, della tutela  dei terzi e per assicurare effettiva tutela ai soggetti più deboli, ponga da parte considerazioni extragiuridiche, peraltro, non sempre del tutto valide,   per tornare ad applicare, anche in questa materia  le  disposizioni normative secondo i principi dell’ interpretazione logico-giuridica ed eliminando falsi problemi.

Scorza Paola

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