Allegazione implicita del danno (o per relationem) nell’opposizione allo stato passivo ex art.98 legge fallimentare

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Nell’opposizione allo stato passivo può ritenersi provato (ex art. 93 L.F.) il danno non patrimoniale (sub specie morale) ex art.2059 c.c. mediante un mero rinvio alla sentenza penale di condanna per reati contro la Pubblica Amministrazione?

La risposta deve ritenersi negativa per le seguenti ragioni.

In primo luogo, appare opportuno delineare il concetto cardine del sistema, relativo all’onere di allegazione.

In virtù di questo principio la parte, che intende far valere la propria pretesa, è tenuta ad allegare nell’atto introduttivo del giudizio i fatti attraverso i quali i danni sono realizzati, a pena di nullità per difetto o genericità dell’indicazione della causa poetendi ex art.164 comma 4 c.p.c.

L’allegazione del fatto, per essa intendendosi la rappresentazione storica dello stesso mediante una narrazione completa ed esaustiva, è espressione del cosiddetto principio dispositivo della prova, il quale non è estraneo alla regola degli artt.93 e 99 R.D. 267/1942 (L.F.)

L’art.93 L.F., in particolare, nel disciplinare i criteri di ammissione del creditore allo stato passivo del fallimento, richiede che il ricorso in opposizione deve contenere “la succinta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni della domanda”.

È evidente che siffatta disposizione, in uno a quanto statuito dall’art.99 comma 2 n.3 e 4 L.F., è retta dal principio dispositivo, a mente del quale solo alle parti spetta l’indicazione dei mezzi di prova a sostegno dei fatti allegati nell’atto introduttivo (art.115 comma 1 c.p.c.).

Da ciò si evince che al Giudice è inibito trarre dai documenti esistenti – quale ad esempio una sentenza penale di condanna per reati contro la p.a.- deduzioni o indicazioni necessarie ai fini della decisione, ove queste non siano specificate nella domanda (Cass. nn.1385/95-1419/94), non sussistendo tra l’altro nessun obbligo per il Giudice di esaminare documenti a cui si rinvia aprioristicamente.

In una granitica pronuncia la giurisprudenza di legittimità osserva che “la produzione documentale, che pure attesti l’esistenza dei fatti, non è idonea a supplire il difetto originario di allegazione, giacché (…) i documenti rivestono funzione eminentemente probatoria che, come tale, non può surrogare quella dell’allegazione dei fatti” (Cass. SS.UU. 01/12/2008 n.2435).

Il mero richiamo al provvedimento non può assolvere alla duplice funzione di affermazione e prova, poiché si costringerebbe la parte a dover ricavare l’allegazione “interpretando” il documento, con ciò arrecandosi anche un pregiudizio al diritto di difesa ex art.24 Cost., posto che difetterebbe la cognizione piena dei fatti e il diritto di non costituzione (cfr. Tribunale di Napoli 06/04/2018 n.999).

Del pari viene ad essere vulnerato anche il principio di causalità, che impone di ricercare il nesso eziologico tra causa ed evento, in tutti quei casi in cui il credito è di natura extracontrattuale.

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Nell’ipotesi in cui l’insinuazione allo stato passivo e la relativa opposizione trovano la loro fonte nel danno non patrimoniale derivante da reato contro la Pubblica Amministrazione ex art.2059 c.c. (185 c.p.), non può ritenersi esaustivo che la prova del risarcimento per un eventuale lesione all’immagine e al prestigio della P.A. sia addotta per relationem, semplicemente rinviando alla motivazione della sentenza penale.

Nello specifico l’onere richiesto dagli art.93 comma 2 n.3 e 99 comma 2 n.3 e 4 L.F. in punto di allegazione verrebbe frustrato dalla genericità del rinvio e dall’astrattezza delle motivazioni.

L’allegazione “per rinvio” della prova del danno viene così a configurare una sorta di danno in re ipsa, ancorato ad una ormai superata idea di danno morale, intenso come danno-evento.

Una tale erronea ricostruzione non tiene conto né del principio dispositivo che sorregge l’onere di allegazione, né della più sostanziale essenza del danno extracontrattuale, ancorché esso sia derivante da reato.

L’orientamento maggioritario ha ormai da tempo consacrato un assetto unitario tra l’art.2059 c.c. e l’art.2043 c.c. in materia di onere probatorio gravante sul creditore (soggetto leso), tanto che la prima norma, lungi dal configurare una risarcibilità in re ipsa,si limita a disciplinare limiti e condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’arrt.2043 c.c. senza differenziazione in termini di prova” (Cass. 26972/2018).

Dovendo sgomberare il campo dal c.d. “danno evento”, che a limite giustificherebbe un’allegazione implicita del danno, si ritiene che nel nostro sistema debba sempre osservarsi la regola del “danno conseguenza”, espresso nell’art.1223 c.c., (la cui applicazione sussiste sia in materia contrattuale che extracontrattuale), secondo cui il danneggiato/creditore è tenuto ad allegare e provare le conseguenze dell’illecito, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante.

Né può invocarsi, in contrapposizione a questo orientamento, che la lesione derivante da reato vada ad intaccare un diritto costituzionalmente garantito, quale ad esempio il diritto all’onore e alla reputazione, poiché anche in questo caso il danno deve identificarsi “non con la lesione ma con le conseguenze di tale lesione” (Cass.16133/2014).

Il credito derivante dal danno all’immagine e all’onore della PA rientra in quei diritti costituzionalmente garantiti c.d. “eterodeterminati” che esistono nella misura in cui sono dimostrati i fatti costitutivi che l’hanno originati.

A tale scopo, il fatto storico, a pena di nullità del ricorso ex art.98 L.F., deve assolvere ad un onere puntuale di allegazione, come richiesto dall’art.2059 c.c., 93 comma 2 n3. e 99 comma 2 n.3-4 L.F., al fine di rendere evidente la conseguenza pregiudizievole.

È pur vero che il nostro sistema non è estraneo a orientamenti che sembrano opinare in senso contrario (ex multiis Cass. 24/10/2004 n.19834, Cass. 12/02/2013 n.3494, Cass. 23 aprile 2004 n.7735[1]) ove si contempla un’allegazione a carattere implicito.

In particolare, vi sono alcune “poco pacifiche” pronunce che contemplano, situazioni eccezionali, in cui la parte attrice si è limitata a enucleare il fatto lesivo, omettendo la compiuta e analitica deduzione del danno patito, la cui verificazione trova conforto nell’id quod plerunque accidit, secondo cui il nocumento si accompagna con regolarità all’evento lesivo allegato, rendendo superflua qualunque altra evidenza probatoria[2].

In tal senso, il mero richiamo ad una sentenza penale lascerebbe intendere che l’opponente dia rilevanza alla tesi che ammette la risarcibilità del danno evento, o più propriamente del danno punitivo.

Queste ipotesi eccezionali, di matrice anglosassone, sono appunto definite punitive demages e si caratterizzano per il fatto che il danno scaturisce di default, perché: 1) sussiste una regolarità tra fatto ed evento 2) il pregiudizio arrecato è appunto in re ipsa e non necessita di altre evidenze.

Trattandosi di situazioni eccezionali, esse non trovano applicazione tout court, ma esigono una base normativa che garantisca la tipicità delle ipotesi di condanna per il solo “danno evento” (SS.UU. 05/07/2017 n.16601).

Tanto ciò è vero che, in questi casi, il riconoscimento del danno da parte del Giudice non lo fa incorrere nel vizio di ultrapetizione in violazione dell’art.112 c.p.c. (sull’ammissibilità dell’allegazione implicita v. Cass. 16 febbraio 2012 n.228, Cass. 12 giugno 2006 n.13546).

Il caso che ci occupa, tuttavia, non può dirsi rientrante in queste ipotesi eccezionali, né sembra soddisfare per altre vie il principio cardine del sistema processual-civilistico di cui agli artt.112-163-164 c.p.c. 2059 c.c. 93 e 99 L.F.

La ragione si rinviene nell’assetto dell’ordinamento italiano, ove ritenere che la narrazione del danno sia sottintesa e ricavabile in via presuntiva da quella dell’evento lesivo (ovvero il rinvio generico ad una sentenza penale di condanna) si pone in evidente contrasto con il principio dispositivo.

Quest’ultimo, si ribadisce, richiede un onere di evidenza specifica, concreta e puntuale, e costituisce l’unico adempimento che consente di verificare il pregiudizio suscettibile di valutazione economica.

 


Note:

[1] Cass. 24/10/2004 n.19834: secondo questa pronuncia “l’allegazione di alcuni fatti non solo può non essere formale (essendo sufficiente, come rilevato, che sia ricavabile sostanzialmente dal ricorso e dalla documentazione ad esso allegata, valutati nel loro complesso), ma può anche essere “implicita” potendo gli elementi costitutivi della pretesa azionata ritenersi implicitamente allegati con l’indicazione dell’evento che li presuppone e che da diritto alla prestazione richiesta”.

[2] Cass. 26/05/2004 n.10175: in questa ipotesi l’orientamento in oggetto concepisce il danno da demansionamento come una sorta di danno evento sia un danno in re ipsa, risarcibile anche in assenza di allegazione di un pregiudizio concreto, essendo questo un’automatica conseguenza della condotta illegittima del datore di lavoro.

Dott.ssa Angela Marinangeli

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