Alberi nel condominio, e diritto a luci e vedute

Redazione 26/03/03
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di Roberto Lozupone

IL FATTO:

Un condomino nel giardino di sua esclusiva proprietà può piantare liberamente alberi di alto fusto che con la loro chioma impediscono ai raggi solari di entrare nell’appartamento di proprietà di un condomino del 1° piano, impedendo inoltre la veduta ?

LA GIURISPRUDENZA:

Le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale nel caso in cui esse siano compatibili con l’ applicazione delle norme particolari relative all’ uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.), cioè nel caso in cui l’ applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile una applicazione complementare; nel caso di contrasto prevalgono le norme relative all’ uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (nella specie, si trattava della installazione, in appoggio al muro condominiale, ed in prossimità della finestra di un condomino, della canna fumaria della centrale termica condominiale) – Cass. civile, sez. II, 23-01-1995, n. 724 .

Le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale nel caso in cui esse siano compatibili con l’ applicazione delle norme particolari relative all’ uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.), cioè nel caso in cui l’ applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile una applicazione complementare; nel caso di contrasto, prevalgono le norme relative all’ uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime – Cass. civile, sez. II, 09-10-1998, n. 9995 .

IL COMMENTO:

La questione è interessante: in linea di massima la giurisprudenza di legittimità (Cass. 725/95; Cass. 9995/98) ritiene “applicabili al condominio le norme in materia di distanze legali, in quanto compatibili”.
Pertanto la questione sembrerebbe prima facie  trovare la propria soluzione normativa nell’alveo di quel gruppo di norme (artt. 873 – 907 c.c.) che – imponendo limitazioni legali all’ormai superato concetto romanistico del diritto di proprietà inteso come ius utendi et abutendi – disciplinano in modo particolareggiato la materia Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra i fondi, nonché quella dell’apertura e tutela Delle luci e delle vedute, dettando così volta per volta la norma diretta a risolvere o comporre il conflitto tra due proprietari di fondi finitimi.
Norme che – in piena applicazione del principio analogico – dovrebbe potersi estendere dal concetto di proprietà “orizzontale” (proprio del Legislatore ottocentesco, ancor prima di quello del ’42) al più moderno concetto “verticale” della proprietà immobiliare, caratteristico degli attuali insediamenti urbani ove si manifesta – perlopiù – nel condominio degli edifici .

Senonché il punto dolente del su riportato principio di diritto, risiede proprio nell’inciso “in quanto compatibili” : espressione in sé e per sé decisamente criptica, ed aperta ai più vari significati – anche tra loro contrastanti – ove non corredata di positivi elementi interpretativi idonei a risolvere l’amletico dubbio posto al difensore, che deve stabilire – al momento di invocare le predette norme in materia di distanze legali . cosa sia compatibile e cosa non lo sia.
Decisione di non poco momento, ove si osservi come la stessa Corte di Cassazione affermi che, ove non sia possibile una applicazione complementare di tali norme con quelle relative alla disciplina dei rapporti condominiali “prevalgono le norme relative all’ uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime.” : il che implica il rigetto della domanda, qualora il giudizio di compatibilità non venga opportunamente supportato da convincenti argomentazioni logico-giuridiche o, peggio ancora, sia stato dato per implicito nell’esposizione della causa petendi.

Orbene, nelle due pronunzie che si commentano la Corte Regolatrice è assai avara di elementi utili all’interprete, non chiarendo né il concetto di compatibilità tra i due gruppi di norme, né fornendo un’esemplificazione di applicazione complementare delle stesse, ma limitandosi a confermare (nelle motivazioni) “il consolidato indirizzo giurisprudenziale di questa Corte Suprema, che e’ confortato dalla opinione dominante in dottrina ed al quale il Collegio aderisce pienamente” secondo cui nel caso di contrasto prevalgono le norme relative all’ uso delle cose comuni.
Insomma, stando alla Corte, se non vi è contrasto tra le norme, esse sono compatibili, se invece tale contrasto sussiste, esse non sono applicabili contemporaneamente in quanto incompatibili : Monsieur De Lapalisse non avrebbe potuto far meglio!

Come chiunque può scorgere tali decisioni sono affette da un grave vizio logico: ossia l’aver ritenuto il giudizio di compatibilità prodromico al risultato del giudizio di complementarietà (o di non contrasto) , quando – in realtà – tali giudizi coincidono perfettamente, costituendo le classiche due facce della medesima medaglia.
Tale stato di incertezza dev’essere pertanto risolto volta per volta dal giudice di merito, le cui valutazioni potranno in concreto differire molto da caso a caso, con quale ulteriore contributo alla certezza del diritto in una ipotesi come quella esposta – invero assai frequente – è inutile dire… Così d’altra parte si appalesano le difficoltà del difensore nell’esporre al proprio Cliente un fondato giudizio prognostico sulle possibilità di accoglimento della relativa domanda di tutela giurisdizionale.
Ma poiché l’interprete non può accontentarsi di tanto relativismo, è alla stregua dei principi generali già presenti nel sistema normativo che dev’essere risolta l’antinomia.

Ora, l’art. 1122 c.c. dispone che il condomino, nella porzione di piano di sua proprietà, non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio. Non è la quadratura del cerchio, ma senz’altro attraverso questa norma il Legislatore indica un criterio ben preciso: quello (già contenuto nelle norme in tema di limitazioni legali della proprietà) per cui dev’essere senz’altro esclusa ogni utilizzazione egocentrica (non egoistica!) del bene, che si disinteressi alle possibili ripercussioni del proprio agire nella sfera giuridica altrui.
Tale norma senz’altro non può essere estesa alle ipotesi di danni cagionati alle altre proprietà esclusive dello stabile (come nella fattispecie in esame), anziché alle parti comuni : la concreta disciplina di tali ipotesi è di conseguenza ampiamente dibattuta tra chi invoca un generico riferimento ai rapporti di buon vicinato, e chi si rifà all’art. 844 c.c. in tema di immissioni immateriali (sul punto cfr. Perlingieri, Cod. Civ. Annotato, art. 1122).

Non mancano però in giurisprudenza interventi diretti a ritenere applicabile anche a tali ipotesi la disciplina delle distanze legali, senza porre minimamente il dubbio di compatibilità (chiamiamolo così!) esposto nelle due sopraindicate sentenze: così in un non recente passato si è stabilito che “I proprietari  dei singoli piani di un edificio in condominio hanno il diritto di non subire,  a causa della costruzione eseguita nella parte esterna  dell’edificio da altro condomino, una diminuzione oltre che nel godimento dell’aria e della luce anche della possibilita’ incondizionata di esercitare dalle proprie aperture le vedute  in appiombo sino alla base dell’edificio, senza che possa rilevare la lieve entita’ del pregiudizio arrecato” (Cass. 3822/86).
Principio ribadito negli stessi termini da Cass. 3822/86 , e peraltro non innovativo perché risultava già enunciato da Cass. 448/82, Cass. 4451/84, Cass. 1381/72 e altre.

A nostro parere quest’ultima soluzione appare preferibile, e non ci sembra assolutamente configurabile in proposito un conflitto insanabile con la normativa che regola il condominio (perlomeno in una fattispecie come quella in esame).
D’altra parte il riferimento alla “diminuzione nel godimento” appare direttamente preordinato al riconoscimento della piena estrinsecazione del diritto di proprietà in capo al condomino del piano rialzato, consistente proprio nella percezione di aria e luce nonché nella possibilità di esercitare le vedute : tali facoltà assumono un particolare rilievo nelle odierne realtà degli insediamenti urbani, congestionati dallo smog e dal cemento, in cui il possesso di un appartamento sito nel piano alto di uno stabile può essere di particolare ristoro psichico in coloro – sempre di più! – costretti a condurre negli orari di lavoro una vita che spesso risulta grigia ed intossicata dai fumi del traffico, degli impianti termici e della produzione industriale.
Non appare ardito, per questa via, alludere anche alla tutela costituzionale del diritto alla salute, che per giurisprudenza assolutamente prevalente costituisce, in primo luogo, oggetto di un autonomo diritto primario assoluto, e non un mero interesse o un diritto della collettività (cfr. Cass. 9808/97, in motivaz.), “il cui necessario temperamento con altri interessi, pure costituzionalmente protetti…” (quale, ad esempio, il diritto di proprietà dell’inquilino del piano inferiore) “… non vale a privarlo della consistenza di diritto soggettivo perfetto” (Cass. S.U. 117/99).
Conseguentemente, se con il 2° comma dell’art. 42 la Costituzione “mira a porre un limite, costituito dalla funzione sociale, non alla proprietà in quanto tale ma alla proprietà di quei beni che rivestono importanza dal punto di vista degli interessi sociali” (Gazzoni, Manuale Dir. Privato, 201), e se il bene giuridico “ambiente” costituisce un valore costituzionale primario ed assoluto da tutelare in quanto “habitat nel quale l’uomo vive” (Corte Cost. 641/87) – o dovrebbe aspirare a vivere! – non minore tutela meritano tutte quelle situazioni materiali (quali la presenza di aperture, luci e vedute) che rendono meno problematico il rapporto dell’individuo con l’ambiente circostante, consentendo di percepirne quantomeno la bellezza esteriore, ove non sia più possibile constatarne la salubrità, irrimediabilmente violata dagli insediamenti “civili”.

Dunque non un generico ed astratto concetto di compatibilità tra autonomi gruppi di norme (come espresso nelle due sentenze in epigrafe), bensì il criterio del miglior godimento del bene (inteso anche da un punto di vista ergonomico) costituisce il discrimine tra l’esercizio consentito del diritto di proprietà, e la lesione dell’altrui diritto che l’ordinamento giuridico non può permettere.
Ed in ciò consiste il dilemma giuridico che deve essere sottoposto al giudice di merito, e che lo stesso deve risolvere non inseguendo oscure ed enigmatiche enunciazioni di principio, bensì semplicemente attuando quel bilanciamento degli interessi in conflitto che trova già formulata la propria regola nel sistema normativo, secondo il quale – anche in tema di diritti soggettivi – ubi maior, minor cessat.

Pertanto – una volta individuata la natura e rilevanza degli interessi in conflitto, anche alla stregua dei principi costituzionali – non può non trovare applicazione al caso in esame il principio sancito dall’art 832 c.c. sul contenuto del diritto di proprietà inteso come diritto di godere e disporre entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento : tale “elasticità del dominio”, suggerita al Legislatore del ’42 esclusivamente dall’esigenza di tutelare il contrapposto diritto di proprietà dei fondi confinanti, conduce ad una contrazione dei poteri del proprietario che può essere di fonte convenzionale o legale (cfr. Cass. 5990/84) e, in questo secondo caso, si estrinseca proprio nel già veduto gruppo di norme (873-907 c.c.) che costituiscono il sottosistema normativo delle limitazioni legali alla proprietà edilizia.
Norme (la cui cogenza è senz’altro rafforzata dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute) che in caso di violazione comportano “non soltanto l’obbligo del risarcimento del danno, ma soprattutto il venir meno della stessa esistenza del diritto” (Perlingieri, cit., art. 832) di proprietà illegittimamente esercitato oltre i predetti limiti: è il caso dell’ipotesi tipica (art. 896 c.c.) della Recisione di rami protesi, in base alla quale il proprietario “sul cui fondo si protendono i rami degli alberi del vicino può in qualunque tempo costringerlo a tagliarli” (previo ricorso all’Autorità Giudiziaria), e che appare assolutamente applicabile anche nell’ipotesi di condominio degli edifici non tanto perché compatibile o complementare con le norme in tema di proprietà comune, ma semplicemente perché destinata a risolvere un conflitto tra contrapposti diritti reali.
Si osservi infine che la soluzione proposta – da un punto di vista strettamente operativo – appare particolarmente efficace, dal momento che l’inciso normativo “in qualunque tempo” esclude la possibilità di un acquisto per usucapione della servitù di far sporgere i rami (cfr. Perlingieri, cit., art. 896) : con conseguente irrilevanza di un prolungato periodo di inerzia da parte dei proprietari degli appartamenti dei piani superiori (inerzia non infrequente nella dinamica delle controversie tra vicini di casa!).

Una tale soluzione però mostra il fianco ad una critica: quid iuris nel caso in cui – in una delle sempre più grigie ed anemiche periferie suburbane ove la vita scorre tra le aride colate di cemento e aspre nuvole di smog – il fusto dell’albero piantato dal vicino del pian terreno arrechi alla nostra vista il ricordo (ancorché pallido e smunto) di una natura verde ed incontaminata, sempre più lontana dalle nostre abitazioni?
Sarebbe forse ardito sostenere che in tal caso l’arbusto – anzichè privarci di una luce comunque soffocata dagli abusi e dalle speculazioni edilizie – ci regali in realtà l’illusione (e con essa la speranza) di una migliore qualità della vita?
E che valore può avere (nel sopra descritto sistema normativo orientato anche alla tutela della salute) una illusione capace di arrecare un miglioramento alla salute psico-fisica dell’individuo, alla pari del placebo somministrato ad un malato ormai privo di speranze di guarigione?

Quest’ultima vuole essere senza dubbio una provocazione – sia ben chiaro! – ma quanti manager o professionisti sarebbero oggi disposti a rinunciare al benefico effetto rilassante fornito dal vaso di orchidee e dall’acquario che arredano l’ufficio?

Redazione

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