Ai fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della pubblica Amministrazione, non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è inoltre necessario che sia configurabile la sussistenza dell’elemento soggett

Lazzini Sonia 06/01/11
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Per poter disporre il risarcimento dei danni è quindi necessaria la previa verifica della circostanza se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi.

In sede di accertamento della responsabilità della pubblica Amministrazione per danno a privati conseguenti ad un atto illegittimo da essa adottato il Giudice amministrativo può quindi affermare la responsabilità solo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, negandola invece quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (in termini: Consiglio Stato, sez. V, 13 aprile 2010, n. 2029).

Nel caso che occupa ritiene la Sezione che la determinazione assunta dall’Amministrazione denotasse negligenza ed imperizia nell’assunzione del provvedimento viziato stante la insussistenza di contrasti giurisprudenziali in materia e la nitidezza del quadro normativo di riferimento, che chiaramente indicava che la anomalia della offerta della Ricorrente non potesse essere dichiarata facendo riferimento alla contrattazione relativa a lavoratori dipendenti del settore commercio, ai quali i lavoratori a contratto non sono assimilabili.

La censura in esame, considerato che la sussistenza del danno subito dalla Ricorrente s.r.l. a causa della esclusione dalla gara è incontestabile, non è quindi suscettibile di favorevole considerazione.

4.- L’appello deve essere conclusivamente respinto e deve essere confermata la prima decisione.

Si legga anche la decisione numero 2029 del 13 aprile 2010 pronunciata dal Consiglio di Stato

in accoglimento della domanda dell’impresa interessata, deve essere affermata la responsabilità della Azienda appellata, per i danni derivanti dall’illegittima aggiudicazione dell’appalto

la responsabilità patrimoniale della pubblica amministrazione conseguente all’annullamento giurisdizionale di provvedimenti illegittimi dev’essere inserita nel sistema dell’accertamento dell’illecito extracontrattuale delineato dagli artt. 2043 ss. cod. civ., alla stregua del quale l’imputazione non può avvenire sulla base del mero dato oggettivo dell’illegittimità del provvedimento (cfr. pure, tra le tante di questa Sez., 6 marzo 2007 n. 1049).

In tale contesto, è stato altresì evidenziato che anche la giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia CE 5 marzo 1996, cause riunite nn. 46 e 48 del 1993; 23 maggio 1996, causa C5 del 1994), pur assegnando valenza decisiva alla gravità della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado di chiarezza e precisione della norma violata, la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall’amministrazione, nonché la novità della medesima questione, riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni (cfr. cit. dec. n. 1346/07).

La Sezione deve valutare la domanda di risarcimento del danno, proposta dalla parte interessata, concernente la riparazione del pregiudizio derivante dal provvedimento di aggiudicazione, annullato dalla parziale decisione della Sezione, ormai divenuta, in questa parte, definitiva.

Al riguardo, l’Azienda appellata ha svolto ampie ed articolate deduzioni, dirette a sostenere l’assenza di colpa nell’adozione degli illegittimi provvedimenti annullati. Ha contestato, inoltre, la quantificazione del danno indicata dall’impresa appellante, nei propri atti difensivi.

La tesi prospettata dall’appellata muove dalla condivisibile premessa secondo la quale l’accertata illegittimità di un provvedimento amministrativo annullato dal giudice competente non è condizione sufficiente per affermare la responsabilità civile dell’amministrazione che lo ha adottato.

Per ottenere la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno occorre dimostrare, invece, la concreta sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, compreso quello relativo all’elemento soggettivo della responsabilità (dolo o colpa del soggetto autore dell’atto illegittimo ritenuto produttivo di pregiudizio patrimoniale).

Qual è il parere dell’adito giudice amministrativo di appello del Consiglio di Stato?

In linea generale, questa Sezione ha affermato il consolidato principio secondo cui, “ai fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della pubblica amministrazione, non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è altresì necessario che sia configurabile la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa, dovendo quindi verificarsi se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi; segue da ciò che in sede di accertamento della responsabilità della Pubblica amministrazione per danno a privati conseguenti ad un atto illegittimo da essa adottato il giudice amministrativo può affermare la responsabilità quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato e negandola quando l’indagine presupposta con- duce al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto” (fra le ultime pronunce in tal senso, si veda Consiglio Stato, Sez. V, 12 giugno 2009 , n. 3750).

Peraltro, si è anche chiarito ripetutamente, con riferimento alla ripartizione dell’onere probatorio relativo alla dimostrazione concreta del prescritto elemento soggetti vo dell’illecito, che, “in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato di un errore scusabile per contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, per la complessità del fatto ovvero per l’influenza di altri soggetti” (Consiglio Stato, Sez. V, 20 luglio 2009 , n. 4527).

Infatti, in tema di responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima e con riguardo all’elemento soggettivo della colpa, la Sezione ha escluso l’applicabilità dei principi concernenti la responsabilità contrattuale per inadempimento in ordine alla presunzione relativa di colpa e l’ascrizione all’amministrazione dell’onere di dimostrare la propria incolpevolezza, e, nel far uso dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, ha ripetutamente affermato che, mentre il privato può limitarsi a fornire al giudice elementi indiziari quali la gravità della violazione (come presunzione semplice di colpa e non già come criterio di valutazione assoluto), il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento.

Dal canto suo, l’amministrazione può allegare elementi, anch’essi indiziari, rientranti nello schema dell’errore scusabile, spettando poi al giudice apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità a comprovare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione stessa, senza che possa considerarsi valida l’equazione “illegittimità dell’atto-colpa dell’apparato pubblico” (cfr. Sez. V, 20 marzo 2007 n. 1346).

La parte appellata, senza contestare le regole riguardanti la ripartizione dell’onere probatorio in tema di dimostrazione della colpa dell’amministrazione elaborate dalla giurisprudenza, indica gli argomenti logici e fattuali che, a suo dire, condurrebbero a ritenere sussistente un rilevante errore scusabile, tale da escludere, in concreto, la sua colpa nell’adozione del provvedimento illegittimo.

Nell’ambito di queste corrette coordinate interpretative, in particolare, l’appellata sostiene che, nel caso di specie, vi sarebbe stata una “obiettiva incertezza e notevoli difficoltà interpretative”, in ordine all’applicabilità del divieto di partecipazione alla gara in contestazione.

Sotto un primo aspetto, la società appellata evidenzia la “peculiarità della fattispecie” in oggetto, che avrebbe resa incerta l’applicabilità concreta del divieto di partecipazione alle gare, sancito dall’articolo 113, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000. In quest’ottica, a suo dire, la circostanza che la società aggiudicataria CONTROINTERESSATA fosse affidataria diretta da parte del comune di Moie di Maiolati Spontini della gestione dell’impianto di discarica sita nel territorio comunale non avrebbe determinato il sicuro divieto di partecipazione alla gara in contestazione.

A parere dell’ASA, infatti, la procedura selettiva in oggetto non riguarda un servizio pubblico locale “tipico” (raccolta, trasporto e conferimento in discarica dei rifiuti), bensì un’attività complessa e specifica da prestare all’interno della discarica comunale del comune di Corinaldo, nell’interesse della società titolare del servizio di gestione.

La non immediata qualificabilità dell’oggetto dell’appalto come espletamento di un servizio pubblico locale prestato nell’interesse degli utenti, quindi, avrebbe determinato una violazione del tutto incolpevole e giustificabile di regole dalla portata applicativa incerta.

Vi sarebbe, poi, un ulteriore errore scusabile, originato dalla circostanza che anche la giurisprudenza di questo Consiglio si sarebbe espressa, in un primo tempo, nel senso di ritenere che le disposizioni di cui all’articolo 35 della legge n. 448/2001 non potessero ritenersi immediatamente applicabili nelle more dell’entrata in vigore del previsto regolamento di attuazione.

La tesi della parte appellata, benché ampiamente argomentata, non è condivisibile.

Se è vero, infatti, che la disciplina in materia ha presentato senz’altro alcune difficoltà interpretative, non si può dire che il comportamento della stazione appaltante sia stato condizionato dall’adesione a un indirizzo interpretativo univoco.

Né sembra esatta l’affermazione di un scarsa chiarezza della disciplina positiva, in relazione ai due profili indicati (oggetto dell’appalto in contestazione e differimento dell’entrata in vigore della nuova disciplina recante il divieto di partecipazione alle gare).

Le caratteristiche obiettive dell’appalto potevano lasciare, forse, un certo margine di dubbio interpretativo fisiologico, ma la riconduzione allo schema del servizio pubblico locale non avrebbe richiesto uno sforzo interpretativo troppo marcato ed intenso.

Non può giovare all’appellata, poi, nemmeno il riferimento ad un isolato precedente giurisprudenziale di primo grado, secondo cui il divieto di partecipazione sarebbe stato differito al 1 gennaio 2007. Infatti, non risulta che questa circostanza abbia influito sulla determinazione adottata dalla stazione appaltante, la quale, negli atti del procedimento selettivo in contestazione, non ha mai utilizzato questo argomento logico-giuridico. E non può essere trascurato nemmeno che la pronuncia invocata (TAR Lazio, III, 18 luglio 2007, n. 7698) faccia riferimento, essenzialmente, ad una disposizione (l’articolo 113, comma 5 quater, introdotto dall’articolo 4, comma 284 della legge n. 350/2003), entrata in vigore solo dopo l’aggiudicazione dell’appalto in oggetto.

Sotto altro aspetto, poi, la società appellata ritiene di essere incorsa in un errore scusabile anche in relazione all’altro profilo di illegittimità accertato dalla decisione parziale di questo Consiglio n. 3920/2009 (“l’A.T.I. aggiudicataria doveva essere esclusa perché aveva fatto presente di voler assegnare in subappalto il trasporto del percolato e per la manutenzione dell’impianto di sollevamento”).

In relazione a tale aspetto, la violazione della lex specialis di gara, che espressamente vietava il subappalto, risulta evidente. L’accertamento istruttorio compiuto in sede di gara (svolto nell’ambito della valutazione circa l’anomalia dell’offerta) avrebbe dovuto confermare la sussistenza della violazione riscontrata e non certo giustificarla.

Resta quindi integrato, in concreto, il requisito della colpa dell’amministrazione. Pertanto, in accoglimento della domanda dell’impresa interessata, deve essere affermata la responsabilità della Azienda appellata, per i danni derivanti dall’illegittima aggiudicazione dell’appalto.

Ai fini della liquidazione del danno, in applicazione del disposto dell’articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998, entro trenta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente decisione, l’ASA dovrà offrire all’appellante una somma determinata in applicazione dei seguenti criteri.

a) Nulla va dovuto quale ristoro economico delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, trattandosi di costo che grava, fisiologicamente, sulle imprese concorrenti. Né risulta dimostrato che la società appellante abbia sopportato spese maggiori di quelle ordinarie, a causa degli atti illegittimamente adottati dalla stazione appaltante.

b) Non possono essere computati i danni riferiti alla asserita “disgregazione” dei beni strumentali e alla perdita dell’attività di impresa conseguente al fallimento. Infatti, anche prescindendo dai possibili profili di novità della domanda in appello, non risulta dimostrato, allo stato, il rapporto di causalità tra l’illegittimità della mancata aggiudicazione del servizio e il fallimento dell’impresa. Tale circostanza, in particolare, non è affatto accertata dalla sentenza dichiarativa del fallimento e l’appellante, a tale riguardo, non ha svolto adeguate attività difensive volte a dimostrare il proprio assunto.

c) Ai fini della liquidazione del lucro cessante derivante dalla mancata aggiudicazione della gara deve essere utilizzato il parametro della misura dell’utile di impresa indicato nell’ambito delle giustificazioni dell’offerta economica presentate dall’appellante, oppure, in subordine, una somma equitativamente determinata nel cinque per cento del prezzo offerto in sede di gara, rapportato all’effettiva durata dell’appalto.

 

Riportiamo qui di seguito la decisione numero 8229 del 25 novembre 2010 pronunciata dal Consiglio di Stato

N. 08229/2010 REG.SEN.

N. 05572/2009 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 5572 del 2009, proposto da:

Comune di Luino, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. ***************, con domicilio eletto in Roma, via di Val Fiorita n.90;

contro

Impresa Ricorrente S.r.l. (già ********************) ora Ricorrente S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. *********************** e ******************, con domicilio eletto presso lo Studio Legale Chiomenti, in Roma, via XXIV Maggio n. 43;

A.I.P.A. – Agenzia Italiana per le Pubbliche Amministrazioni s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA – Milano, Sezione III, n. 01356/2009, resa tra le parti, di reiezione del ricorso proposto per l’annullamento del provvedimento del Comune di Luino di esclusione della Ricorrente s.r.l. dalla gara relativa al servizio di accertamento e riscossione della imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, per il periodo 1.1.2004-31.12.2008, nonché per l’annullamento degli altri atti indicati nell’epigrafe del ricorso e per il risarcimento del danno.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Impresa Ricorrente S.r.l. (già ********************) ora Ricorrente S.p.a.;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore, nella udienza pubblica del 27.4.2010, il Consigliere **************** e udito per la parte appellante l’avv. *****, come specificato nel verbale;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

FATTO

Con bando del 16.10.2003 il Comune di Luino ha indetto una gara per pubblico incanto per l’affidamento del servizio quadriennale di accertamento e riscossione della imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, nonché per lo svolgimento del relativo servizio, alla quale ha partecipato, tra le altre, la s.r.l. Ricorrente.

Poiché la offerta di detta società era risultata la più conveniente la Commissione di gara ha proceduto alla verifica della anomalia della offerta economica da essa presentata, perché essa superava di un quinto la media dei ribassi proposti dalle altre imprese partecipanti alla gara, invitandola a giustificare la convenienza economica dell’offerta.

Le giustificazioni presentate dalla Ricorrente s.r.l. sono state valutate in data 30.12.2003 dalla Commissione di gara, che ne ha disposto la esclusione perché il costo del personale indicato nella offerta non è stato ritenuto congruo (nell’assunto che le retribuzioni dovute a due unità lavorative assunte con contratto di lavoro “a progetto” non potevano essere inferiori ai minimi salariali previsti nel C.C.N.L. del settore commercio, applicato dalla società stessa i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato).

La gara è stata quindi aggiudicata alla AIPA s.p.a..

Gli atti di gara sono stati impugnati innanzi al T.A.R. Lombardia, Milano, che, con sentenza 1356 del 2009, ha accolto il ricorso, ritenendo che non fosse condivisibile l’assunto della stazione appaltante che, pur senza negare la astratta compatibilità dei rapporti di lavoro a progetto con l’oggetto dell’appalto, aveva ritenuto che la retribuzione minima dovuta per tale categoria di prestazioni dovesse essere quella prevista nei contratti collettivi applicabili ai lavoratori subordinati del settore commercio. E’ stata quindi annullata la esclusione della ricorrente dalla gara, nonché la conseguente aggiudicazione del servizio alla controinteressata, ed il Comune è stato condannato al risarcimento del danno in favore della società ricorrente.

Con il ricorso in appello in epigrafe indicato il Comune di Luino ha chiesto la riforma di detta sentenza del T.A.R. deducendo i seguenti motivi:

1.- Error in iudicando nella parte in cui è stata ritenuta illegittima la esclusione dalla gara della Ricorrente s.r.l..

Poiché la ratio dell’art. 17 del capitolato speciale è individuabile nel fine di evitare che, indipendentemente dal tipo di contratto che lega il concessionario all’imprenditore, il personale utilizzato possa vedersi attribuire un trattamento retributivo deteriore rispetto a quello minimo previsto per i lavoratori subordinati della stessa impresa concessionaria, i minimi retributivi previsti dal CCNL di settore andavano applicati anche ai lavoratori a progetto, anche in base all’art. 1 della L. n. 327 del 2000, pena la assimilabilità del loro impiego al subappalto di manodopera.

2.- Error in iudicando nella parte in cui il Comune di Luino è stato condannato al risarcimento del danno.

Non sussisteva l’elemento soggettivo e quanto meno colpa del Comune, ma, al più, errore scusabile, avendo esso applicato pedissequamente l’art. 17 del capitolato e sussistendo incertezza circa il quadro normativo di riferimento.

Con atto depositato il 16.4.2010 si è costituita in giudizio la Impresa Ricorrente S.r.l. (già *******************) ora Ricorrente S.p.a., che ha dedotto la infondatezza dell’appello, concludendo per la reiezione.

Alla pubblica udienza del 27.4.2010 il ricorso è stato trattenuto in decisione alla presenza dell’avvocato della parte appellante, come da verbale di causa agli atti del giudizio.

DIRITTO

1.- Con il ricorso in appello, in epigrafe specificato, il Comune di Luino ha chiesto la riforma della sentenza del T.A.R. Lombardia – Milano, con cui è stato accolto il ricorso proposto dalla Ricorrente s.r.l. per l’annullamento del provvedimento del Comune di esclusione della società stessa dalla gara relativa al servizio di accertamento e riscossione della imposta sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, per il periodo 1.1.2004-31.12.2008, nonché degli altri atti indicati nell’epigrafe del ricorso e per il risarcimento del danno, con conseguente annullamento della esclusione di detta società e della aggiudicazione della gara alla controinteressata, nonché condanna di detto Comune al risarcimento del danno a favore della società stessa.

2.- Con il primo motivo di appello è stato dedotto error in iudicando nella parte in cui è stata ritenuta illegittima la esclusione dalla gara della Ricorrente s.r.l..

2.1.- Non sarebbe condivisibile la tesi del TAR (secondo cui erroneamente l’Amministrazione aveva ritenuto che il parametro delle retribuzioni minime previsto dal C.C.N.L. per i lavoratori del settore commercio, utilizzato dal Comune per verificare la congruità dei costi del personale indicato nelle giustificazioni fornite dalla Ricorrente s.r.l., non fosse appropriato alla fattispecie) perché la remunerazione minima dovuta ai lavoratori “a progetto” di cui alla c.d. “legge Biagi” (già co.co.co.), di cui la società aveva dichiarato di volersi avvalere, avrebbe invece dovuto essere proprio quella prevista nei contratti collettivi applicabili ai lavoratori subordinati del settore commercio.

Infatti, sebbene i lavoratori “a progetto” possano essere assimilati ai lavoratori autonomi, la Ricorrente s.r.l. si era espressamente obbligata al rispetto delle prescrizioni di cui al D.Lgs. n. 157 del 1995, al D. Lgs. n. 446 del 1997, alla L. n. 327 del 2000 e al D.M. n. 289 del 2000 (regolamento per l’iscrizione all’Albo nazionale dei soggetti abilitati ad effettuare attività di accertamento), che, unitamente al bando di gara, al disciplinare e al capitolato speciale d’oneri costituiva la lex specialis della procedura in questione.

L’art. 8 di detto regolamento prevede che le società interessate ad essere iscritte all’Albo devono dimostrare il rispetto degli obblighi derivanti dalle leggi in materia di lavori e di previdenza, nonché dai contratti collettivi degli addetti.

Inoltre l’art. 17 del capitolato speciale prevede che il gestore si obbliga nei confronti dei propri lavoratori dipendenti e dei prestatori di manodopera al rispetto ed alla applicazione delle condizioni normative, retributive assicurative e previdenziali previste dai Contratti Collettivi del Lavoro di settore. Ciò al fine di evitare che indipendentemente dal tipo di contratto che lega il concessionario all’imprenditore il personale utilizzato possa vedersi attribuire un trattamento retributivo deteriore rispetto a quello minimo previsto per i lavoratori subordinati della stessa impresa concessionaria.

Quindi, in base alla interpretazione letterale del combinato disposto degli artt. 8 del D.M. n. 289 del 2000 e dell’art. 17 del capitolato speciale d’oneri, i minimi retributivi previsti dal CCNL di settore andavano applicati a tutti gli addetti e quindi anche ai lavoratori a progetto.

2.2.- Osserva il Collegio che la Commissione di gara, a seguito di chiarimenti della Ricorrente s.r.l., ha rilevato che questa applicava ai propri dipendenti il C.C.N.L. del settore commercio e che in casi specifici, come quello di specie, era orientata a stipulare contratti di lavoro a progetto. Ha poi richiamato l’art. 17, III c., del Capitolato speciale d’oneri (che prevede che il gestore si impegna nei confronti dei propri dipendenti e prestatori di manodopera al rispetto delle condizioni previste dai contratti collettivi di lavoro del settore), l’art. 8 del D.M. n. 289 del 2000 (che impone il rispetto degli obblighi derivanti dai contratti collettivi di lavoro degli addetti) e la L. n. 327 del 2000 (che impone che il valore della offerta deve essere adeguato rispetto al costo del lavoro).

Detta Commissione, rilevato che l’art. 61, IV c., del D. Lgs n. 276 del 2003, di attuazione della L. n. 30 del 2003 che regola il contratto a progetto, non pregiudica l’applicazione di accordo collettivo più favorevole per il collaboratore, ha poi ritenuto che, in base a detto art. 17 del capitolato speciale d’oneri e al citato art. 8 del D.M. n. 289 del 2000, fosse cogente per il gestore l’applicazione dei trattamenti minimi, previsti dalla contrattazione collettiva agli addetti della società, anche per i prestatori d’opera con contratto a progetto, conseguentemente ritenendo l’offerta nella parte che interessa incongrua.

Il Collegio condivide la tesi del T.A.R., secondo il quale era errata detta determinazione, perché ai lavoratori autonomi, quali quelli a progetto, non sono applicabili né direttamente né indirettamente i contratti collettivi che disciplinano il lavoro subordinato, né è loro applicabile il principio costituzionale di retribuzione sufficiente, che riguarda esclusivamente il lavoro subordinato, sicché il lavoro a progetto risulta esclusivamente disciplinato dalle norme dettate dal codice civile in materia di lavoro autonomo e dalle norme speciali di cui al D. Lgs. n. 276 del 2003, che prevedono che, fatta salva la applicazione di accordi collettivi più favorevoli, il compenso corrisposto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e debba tenere conto dei compensi normalmente erogati per analoghe prestazioni di lavoro autonomo.

E’ stata quindi giustamente riconosciuta dal T.A.R. l’erroneità del ricorso ai minimi tabellari previsti con la contrattazione collettiva dei lavoratori subordinati per verificare la congruità dei costi previsti per la retribuzione dei lavoratori a progetto. L’art. 61, IV c., del D. Lgs. n. 276 del 2003 si riferisce infatti ad eventuali specifici accordi collettivi riguardanti la categoria dei lavoratori a progetto (perché, diversamente opinando, dovrebbe ritenersi che il legislatore abbia voluto estendere in toto le norme pattizie regolanti i lavoratori subordinati a quelli a progetto, privando di autonomia tale tipologia contrattuale) e non risulta violato l’art. 8 del D.M. n. 289 del 2000, che impone il rispetto delle norme in materia di lavoro e previdenza, perché esso sarebbe stato violato solo se fosse stato accertato che la retribuzione corrisposta dalla Ricorrente s.r.l. fosse stata non proporzionata alla quantità e qualità del lavoro eseguito dai propri collaboratori, tenuto conto dei compensi previsti per il lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto. u

Inoltre è stato correttamente rilevato dal Tribunale che l’art. 17 del capitolato, laddove impone alla aggiudicataria di applicare le condizioni previste dai contratti collettivi di lavoro del settore anche ai propri prestatori di manodopera, debba essere inteso come richiamo al rispetto di obblighi di legge o derivanti da accordi collettivi già applicabili ad essi; diversamente opinando la lex specialis travalicherebbe lo scopo di evitare di contrarre con imprese non in regola con obblighi retributivi per trasformarsi in ingerenza nella organizzazione della impresa, non consentita dalla riserva di legge di cui all’art. 41 della Costituzione, né dalla direttiva n. 96/71 interpretata alla luce dell’art. 41 del Trattato CE.

Dette condivisibili argomentazioni contenute nella sentenza appellata non sono state, ad avviso della Sezione, adeguatamente contestate con l’atto di appello.

Ed invero i contratti con lavoratori a progetto sono figure negoziali diverse da quelle relative ai lavoratori subordinati, atteso che l’art. 61, I c., del D. Lgs. n. 276 del 2003 stabilisce che “Ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa.” Va inoltre considerato che il seguente IV comma prevede che “Le disposizioni contenute nel presente capo non pregiudicano l’applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli per il collaboratore a progetto” e che l’ art. 69, I e II c., del citato D. Lgs. stabilisce che solo “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi dell’articolo 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti”.

Infine va rilevato che l’art. 63 del D. Lgs. n. 276 del 2003 stabilisce chiaramente che “Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto”.

Il rapporto con i collaboratori a progetto è quindi assimilabile al lavoro autonomo, anche se in questo la libertà del lavoratore è piena e concerne anche la scelta dell’opus, mentre così non avviene nel lavoro a progetto, in cui la definizione della dimensione finalistica verso la quale far convergere in modo coordinato ed organizzato le complessive energie lavorative aggregate pertiene unicamente alla parte committente, tuttavia con evidenti differenze con il lavoro subordinato (Consiglio Stato, sez. V, 03 aprile 2006, n. 1743).

Aggiungasi che la circolare del Ministero Lavoro n. 1 dell’8.1.2004 ha stabilito che, stante il contenuto del citato art. 63 del D. Lgs. n. 276 del 2003, non possono essere utilizzate con riguardo ai lavoratori a progetto le disposizioni in materia di retribuzioni stabilite nella contrattazione collettiva per i lavoratori subordinati. Inoltre detta circolare ribadisce che, ex art. 86, II c. del D. Lgs. n. 276 del 2003 , ai lavoratori in questione non sono applicabili i contratti collettivi dei lavoratori subordinati del medesimo settore di attività.

L’art. 17 del capitolato, laddove prevede l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro “del settore” ai prestatori di manodopera, non può stabilire l’applicazione a tutti i prestatori di manodopera, compresi i lavoratori a contratto, dei contratti del settore di lavoro subordinato, essendo invece interpretabile, in armonia con le sopra indicate normative in materia, nel senso che ai prestatori suddetti vanno applicati gli accordi collettivi del settore, se stipulati.

E’ quindi da escludersi che l’art. 17 del capitolato speciale d’oneri potesse essere interpretato nel senso che invece i contratti collettivi dei lavoratori subordinati di applichino anche ai lavoratori a contratto.

La censura in esame non è quindi suscettibile di positiva valutazione.

2.2.- Soggiunge il motivo in esame che, nell’ipotesi che siano ritenuti non applicabili ai lavoratori a progetto i minimi salariali previsti dal C.C.N.L., comunque il T.A.R. avrebbe dovuto tenere conto della circostanza che, in base all’art. 1 della L. n. 327 del 2000 (che prevede che, in mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo di settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione), il gestore aveva l’obbligo di applicare ai collaboratori a progetto i minimi salariali previsti dal settore merceologico più vicino a quello di cui trattasi.

2.2.1.- Osserva la Sezione che detto art. 1 della L. n. 327 del 2000 stabilisce, al primo comma, che “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione, nei casi previsti dalla normativa vigente, dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizio e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro come determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali….” e, al secondo comma, che “In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione”.

La lettura del secondo comma di detto articolo, in correlazione con il primo, esclude che essa possa essere interpretata nel senso indicato dall’appellante (che ogni qual volta che si sia in presenza di posizioni lavorative cui non siano applicabili i contratti collettivi debba essere determinato il costo del lavoro in relazione al contratto collettivo del settore più vicino), dovendosi evidentemente ritenere riferita la disposizione a lavoratori cui siano comunque applicabili i contratti collettivi di lavoro, e non ai lavoratori a progetto (salvo sporadiche ipotesi di stipula di contratti collettivi che li riguardino ex art. 61), assimilabili ai lavoratori autonomi, cui detti accordi non sono di norma applicabili.

Anche con la censura in esame non è quindi possibile concordare.

2.3.- Deduce inoltre il Comune appellante che, aderendo alla tesi del T.A.R., l’impiego dei lavoratori a progetto andrebbe assimilato al subappalto di manodopera, con violazione dell’art. 18 della L. n. 55 del 1990 (ora art. 118 del D. Lgs. n. 163 del 2006).

2.3.1.- La censura non è, ad avviso della Sezione, condivisibile, per le ragioni in precedenza espresse circa la assimilabilità del lavoro a progetto a quello autonomo.

2.4.- E’ infine evidenziato nel motivo in esame che, diversamente opinando, dovrebbero ritenersi ammissibili le libere contrattazioni di mercato, e tanto contrasterebbe con l’obbligo previsto dalla legge di valutare, in sede di verifica economica della congruità dell’offerta, anche il costo del personale, che è invece finalizzato a garantire la mancanza di interruzioni del servizio e la serietà della scelta del gestore.

2.4.1.- La censura non è, ad avviso del Collegio, apprezzabile in senso positivo, atteso che -posto che, per consolidata giurisprudenza (Consiglio Stato, sez. V, 3 aprile 2006, n. 1743) l’appalto di servizi pubblici può essere espletato tramite personale assunto a progetto- l’ art. 63 di del D. Lgs. n. 267 del 2003 stabilisce chiaramente che il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e che, nella sua quantificazione, deve tenersi conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto. Tanto esclude quanto paventato dall’appellante, non essendo la retribuzione del personale in questione rimessa alla libera contrattazione di mercato, ma individuabile in base a parametri predeterminati.

3.- Con il secondo motivo di gravame è stato dedotto error in iudicando nella parte in cui il Comune di Luino è stato condannato al risarcimento del danno, nell’assunto che non sarebbe sussistito nel caso di specie l’elemento soggettivo (ravvisato dal T.A.R. nell’aver tenuto conto di un contratto collettivo proprio di una categoria di lavoratori diversa da quella da assumere) e quanto meno la colpa richiesta ai fini dell’accoglimento della istanza risarcitoria. Infatti la colpa non può essere riconosciuta in re ipsa per il solo fatto della esecuzione volontaria di un atto illegittimo, sicché il Giudice di primo grado non poteva limitarsi a rilevare la sussistenza del vizio di legittimità del provvedimento, ma avrebbe dovuto valutare se sono stati violati dall’Amministrazione i principi di cui all’art. 97 della Costituzione.

Nel caso di specie la illegittimità rilevata dal T.A.R. era collegata a circostanze e riferimenti normativi contraddistinti da notevole incertezza, sicché essa non sarebbe ascrivibile al Comune di Luino a titolo di colpa o dolo. Non potrebbe quindi escludersi, secondo l’appellante, che la condotta dell’Amministrazione fosse ispirata a buona fede e che è sussistito comunque errore scusabile, esistendo in materia de qua contrasti giurisprudenziali, essendo incerto il quadro normativo ed essendo la situazione di fatto tanto complessa da consigliare l’Amministrazione ad applicare pedissequamente quanto prescritto dall’art. 17 del capitolato.

3.1.- Osserva al riguardo la Sezione che con la impugnata sentenza, posto che l’illegittimità del provvedimento adottato dal Comune in questione aveva comportato la perdita del bene della vita costituito dalla stipulazione del contratto d’appalto, è stata accertata la sussistenza dell’elemento soggettivo (da verificare in base ad elementi presuntivi quali la gravità dell’ violazione, l’univocità del quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento e la partecipazione del danneggiato al procedimento), consistente nell’aver tenuto conto, in sede di verifica dell’anomalia della offerta, del contratto collettivo di una categoria di lavoratori diversa da quella che la Ricorrente s.r.l. aveva dichiarato di voler assumere.

Costituisce invero giurisprudenza consolidata che, ai fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno a carico della pubblica Amministrazione, non è sufficiente il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è inoltre necessario che sia configurabile la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo ovvero della colpa.

Per poter disporre il risarcimento dei danni è quindi necessaria la previa verifica della circostanza se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi.

In sede di accertamento della responsabilità della pubblica Amministrazione per danno a privati conseguenti ad un atto illegittimo da essa adottato il Giudice amministrativo può quindi affermare la responsabilità solo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, negandola invece quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (in termini: Consiglio Stato, sez. V, 13 aprile 2010, n. 2029).

Nel caso che occupa ritiene la Sezione che la determinazione assunta dall’Amministrazione denotasse negligenza ed imperizia nell’assunzione del provvedimento viziato stante la insussistenza di contrasti giurisprudenziali in materia e la nitidezza del quadro normativo di riferimento, che chiaramente indicava che la anomalia della offerta della Ricorrente non potesse essere dichiarata facendo riferimento alla contrattazione relativa a lavoratori dipendenti del settore commercio, ai quali i lavoratori a contratto non sono assimilabili.

La censura in esame, considerato che la sussistenza del danno subito dalla Ricorrente s.r.l. a causa della esclusione dalla gara è incontestabile, non è quindi suscettibile di favorevole considerazione.

4.- L’appello deve essere conclusivamente respinto e deve essere confermata la prima decisione.

5.- La complessità delle questioni trattate, nonché la peculiarità e la novità del caso, denotano la sussistenza delle circostanze di cui all’art. 92, II c., del c.p.c., come modificato dall’art. 45, XI c., della L. n. 69 del 2009, che costituiscono ragione sufficiente per compensare fra la parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 aprile 2010 con l’intervento dei Signori:

 

***********************, Presidente

************, Consigliere

***************, Consigliere

********************, Consigliere

Antonio Amicuzzi, ***********, Estensore

 

L’ESTENSORE    IL PRESIDENTE

 

Il Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 25/11/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione

 

 

Lazzini Sonia

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