Con sentenza in data 4 ottobre 2024 la Corte di Giustizia Europea ha ribadito il controllo della giurisdizione sulle decisioni amministrative precisando, tra l’altro, che il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro. Il governo, per superare vari provvedimenti giurisdizionali che hanno annullato i trasferimenti dei migranti nei Centri di detenzione in Albania, in data 23 ottobre 2024, ha emanato un decreto legge, poi inserito in un emendamento al Decreto legge n. 145 dell’11 ottobre 2024, convertito in legge n. 187/2024 (c.d. decreto flussi), che indica gli Stati da ritenersi sicuri. Nonostante l’adozione di tale provvedimento normativo, il Tribunale, prima, e la Corte di Appello di Roma divenuta competente in materia, poi, hanno sospeso i provvedimenti del Questore di Roma di trattenimento dei citati migranti detenuti nei centri in Albania, trasmettendo le decisioni alla Corte di Giustizia Europea. Anche la Corte di Cassazione, con pronunce in data 19 e 30 dicembre 2024, ha interessato la stessa Corte europea. A porre fine al dibattito, in data 1° Agosto 2025, è intervenuta la sentenza della predetta Corte la quale ha statuito che le procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, lette alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretate nel senso che esse non devono impedire che uno Stato membro proceda alla designazione di paesi terzi quali Paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo, a condizione che tale designazione possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale vertente sul rispetto delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, determinando in tal modo un vulnus alle politiche migratorie del governo. Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione
Indice
- 1. Il trattato con l’Albania e la sentenza della Corte di Giustizia Europea in data 4 ottobre 2024
- 2. Il decreto legge n. 158 in data 23 ottobre 2024 confluito nel decreto flussi (legge n.187/2024)
- 3. Le pronunce della Corte di Cassazione in data 19 e 30 dicembre 2024 sui “paesi sicuri”
- 4. Il nuovo decreto “Albania” (legge n. 75 /2025) e l’ordinanza della Corte di Cassazione in data 30 maggio 2025
- 5. La sentenza della Corte di Giustizia Europea in data 1° agosto 2025
- 6. Conclusioni
1. Il trattato con l’Albania e la sentenza della Corte di Giustizia Europea in data 4 ottobre 2024
Allo scopo di contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, in data 5 dicembre 2023, il Consiglio dei Ministri, ha approvato un disegno di legge di ratifica del Protocollo tra il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania e il Governo della Repubblica italiana per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, stipulato a Roma il 6 novembre 2023.[1]
Il documento prevede che nei due centri previsti sul territorio albanese possono essere condotte “esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso”.
Tra le misure principali è prevista la clausola di equiparazione delle due aree previste dal Protocollo alle zone di frontiera o di transito indicate dal decreto legislativo n.25/2008, nelle quali si dispone l’espletamento delle procedure accelerate in frontiera. Tali aree sono assimilate rispettivamente agli hotspot e ai centri di permanenza per il rimpatrio di cui al Testo unico sull’immigrazione (C.P.R.).
Per quanto concerne la disciplina amministrativa, viene individuata la competenza del Prefetto, del Questore e della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale con costituzione ad hoc di apposite sezioni di Roma per i provvedimenti da adottare nei confronti dei migranti.
Si prevedono anche la competenza dell’autorità giudiziaria e della polizia giudiziaria italiane nelle aree individuate dal Protocollo quando è esercitata la giurisdizione penale, la trasmissione nei casi di arresto in flagranza o fermo del verbale, entro quarantotto ore, al pubblico ministero di Roma e che, nelle successive quarantotto ore, si svolga l’udienza di convalida presso la Corte di Appello della stessa città ai sensi della legge n. 187/2024.
Tuttavia, nonostante tale accordo, si sono susseguiti gli sbarchi in Albania e conseguentemente i provvedimenti di non convalida da parte prima del tribunale, poi della Corte di Appello di Roma in ossequio ad una decisione della Corte europea
Infatti, con sentenza n. C- 406/22 del 4 ottobre 2024, in un caso riguardante un richiedente asilo moldavo giunto nella Repubblica ceca, la Corte ha stabilito che la designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro deve estendersi a tutto il suo territorio, aggiungendo che “Il giudice nazionale che esamina la legittimità di una decisione amministrativa con cui si nega la concessione della protezione internazionale deve rilevare la violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro”.
Secondo quanto comunicato dalla Corte, nel caso in esame, “il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro designi un Paese terzo come Paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio. Inoltre, il giudice nazionale chiamato a verificare la legittimità di una decisione amministrativa in materia di protezione internazionale deve rilevare d’ufficio, nell’ambito dell’esame completo ad esso incombente, una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di Paesi di origine sicuri”.
In particolare, prosegue la Corte “L’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che: quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate da richiedenti provenienti da paesi terzi designati, ai sensi dell’articolo 37 di tale direttiva, come Paesi di origine sicuri, tale giudice deve, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dall’articolo 46, comma 3, rilevare, sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati alla sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad esso pendente, la mancata conoscenza delle condizioni materiali di tale designazione, enunciate nell’allegato I di detta direttiva, anche se tale mancanza di conoscenza non è espressamente invocata a sostegno del ricorso”.
I giudici di Lussemburgo hanno anche dichiarato che il diritto dell’Unione impedisce che uno Stato membro designi un Paese terzo come paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio. Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione
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2. Il decreto legge n. 158 in data 23 ottobre 2024 confluito nel decreto flussi (legge n.187/2024)
Sempre al fine di contenere il fenomeno migratorio, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge n.158 del 23 ottobre 2024 che introduce disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e contiene una lista dei Paesi di origine cosiddetti “sicuri” per le persone migranti, in modo che le richieste di asilo avanzate dai loro cittadini vengano esaminate attraverso una procedura accelerata, quando il richiedente asilo si trova in uno stato di detenzione.
Il testo, analogamente a quanto previsto da altri Paesi europei, aggiorna con atto avente forza di legge l’elenco dei Paesi di origine sicuri. Tenuto conto dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati come Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia. Con il citato decreto diventa quindi “fonte primaria l’indicazione dell’elenco di 19 Paesi sicuri sugli originari 22 presenti in un decreto interministeriale”.[2]
Inoltre, “l’elenco dei Paesi di origine sicuri è aggiornato periodicamente con atto avente forza di legge ed è notificato alla Commissione europea. Ai fini dell’aggiornamento dell’elenco di cui al comma 1 (dell’art. 1), il Consiglio dei Ministri delibera, entro il 15 gennaio di ciascun anno, una relazione, nella quale, compatibilmente con le preminenti esigenze di sicurezza e di continuità delle relazioni internazionali e tenuto conto delle informazioni di cui al comma 4, riferisce sulla situazione dei Paesi inclusi nell’elenco vigente e di quelli dei quali intende promuovere l’inclusione. Il Governo trasmette la relazione alle competenti commissioni parlamentari” (art. 1, lett. d).[3]
Con tale decreto il governo ha voluto dare una maggiore legittimità politica e istituzionale alla lista dei “Paesi di origine sicuri” che in precedenza erano stati approvati con un decreto interministeriale.
Inoltre, il provvedimento introduce anche una norma di diritto processuale, modificando il D.Lgs. n.25/2008 all’art 35-bis prevedendo la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato e un reclamo alla Corte di appello avverso la sentenza di primo grado con termini molto ristretti per assumere le decisioni.
Per accelerare le procedure di approvazione, il testo del provvedimento è stato inserito in un emendamento al decreto legge. n. 145 dell’11/10/2024 (c.d. decreto flussi) convertito con la legge 9 dicembre 2024, n. 187.
3. Le pronunce della Corte di Cassazione in data 19 e 30 dicembre 2024 sui “paesi sicuri”
Successivamente, con sentenza depositata il 19 dicembre 2024, la Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, esaminando un rinvio pregiudiziale del tribunale di Roma del primo luglio 2024, nell’affermare che “è riservata al circuito democratico della rappresentanza popolare la scelta politica di prevedere, in conformità della disciplina europea, un regime differenziato di esame delle domande di asilo per gli stranieri che provengono da Paesi di origine designati come sicuri”, ha ribadito che il giudice ordinario è il garante dell’effettività, nel singolo caso concreto al suo esame, dei diritti fondamentali del richiedente asilo.[4]
E dunque il giudice “non può sostituirsi al ministro degli Affari Esteri” né “può annullare con effetti erga omnes il decreto ministeriale”. Tuttavia il giudice “può valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto […] recante la lista dei paesi sicuri”.
In data 30 dicembre 2024, poi, la prima sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che, in attesa della decisione la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la definizione di Paesi sicuri per i migranti “spetta, in generale, soltanto al ministro degli Affari esteri e agli altri ministri che intervengono in sede di concerto”. Il giudice è, quindi “chiamato a riscontrare, nell’ambito del suo potere istituzionale, la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo Paese di origine come sicuro, rappresentando tale designazione uno dei presupposti giustificativi della misura del trattenimento”.
Lo stesso giudice esercita comunque la sua funzione di controllo caso per caso in sede di convalida, anche analizzando il profilo di violenze e discriminazioni endemiche in alcune aree, senza tuttavia tracciare facili automatismi tra categorie di persone “perseguitate” ed eventuale depennamento dalla lista.
Inoltre, l’organo giudiziario deve anche riscontrare la sussistenza dei presupposti. Infatti, lo stesso giudice, aggiungono gli ermellini, “è chiamato a riscontrare, nell’ambito del suo potere istituzionale, la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo Paese di origine sicuro, rappresentando tale designazione uno dei presupposti giustificativi della misura del trattenimento”. E aggiungono che “la procedura accelerata di frontiera non può applicarsi là dove il giudice ravvisi sussistenti i gravi motivi per ritenere che il Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui il richiedente si trova, ma le eccezioni non possono essere ammesse senza limiti”.
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4. Il nuovo decreto “Albania” (legge n. 75 /2025) e l’ordinanza della Corte di Cassazione in data 30 maggio 2025
Allo scopo di legittimare i centri in Albania dopo numerose decisioni contrarie dei giudici della Corte di appello di Roma, il governo ha emanato il decreto legge n.37 del 28 marzo 2025 convertito in legge 23 maggio 2025, n. 74, che modifica il funzionamento dei centri per migranti già costruiti nel paese balcanico, trasformandoli a tutti gli effetti in Centri di permanenza per il rimpatrio (C.P.R.), strutture dove vengono trattenuti gli stranieri in attesa di essere rimpatriati nei loro paesi d’origine. Il provvedimento rappresenta il tentativo del governo di rilanciare un’operazione ritenuta strategica che si era arenata a causa dei ripetuti interventi della magistratura che aveva bloccato i trasferimenti dei migranti nei centri albanesi di Shengjin e Gjaderritenendo illegittimi i trattenimenti e ordinando il loro rientro in Italia. La modifica sostanziale consiste nell’ampliare la categoria di migranti che possono essere trasferiti nei centri albanesi, includendo anche coloro che si trovano già sul territorio italiano e sono destinatari di provvedimenti di espulsione.
Con il decreto in esame, si aumenta, quindi, la capacità di accoglienza del centro di Gjader: da 48 posti si passa a 144. Viene poi specificato che la permanenza dei migranti nei C.P.R. albanesi non può superare i 18 mesi e i trasferimenti dei migranti devono avvenire via nave o aereo, a seconda delle necessità logistiche e della distanza dalle strutture.
Ma inaspettatamente, la Corte di Cassazione, con ordinanza in data 30 maggio 2025, nonostante lo stesso giudice l’8 maggio scorso, con una precedente sentenza, avesse equiparato il C.P.R. albanese ai centri italiani, ha chiesto chiarimenti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla compatibilità di trasferimenti e trattenimenti in Albania con il diritto comunitario.
Con due ordinanze pregiudiziali, infatti, i giudici di piazza Cavour hanno rinviato alla Corte di Lussemburgo la decisione relativa ad altrettanti ricorsi del Viminale contro le mancate convalide del trattenimento decise dalla Corte d’appello di Roma. La Cassazione pone alla Corte U.E. le questioni pregiudiziali relative ai due casi in esame: quello di un migrante in situazione di irregolarità amministrativa e quello di un richiedente asilo che ha fatto domanda di protezione internazionale quando era già ristretto nel C.P.R. albanese. I giudici di legittimità chiedono di valutare se la direttiva rimpatri (2008/115/Ce, art. 3) che riguarda i cittadini di Paesi terzi in situazione irregolare, sia di ostacolo all’applicazione della legge n. 14/2024, che consente di condurre al C.P.R. di Gjader, in forza del protocollo di cooperazione tra il governo italiano e quello di Tirana, le persone destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati, “in assenza di qualunque predeterminata e individuabile prospettiva di rimpatrio”. Nel secondo caso, invece, si richiama la Direttiva 2013/32/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo le procedure comuni per il riconoscimento e la revoca dello status di protezione internazionale.
In caso di risposta negativa, la Suprema corte, chiede di chiarire se la direttiva sulle procedure comuni per il riconoscimento e la revoca dello status di protezione internazionale osti all’applicazione della disciplina interna che consente di disporre, per il carattere strumentale della domanda di protezione, il trattenimento in Albania.
Di conseguenza, sono stati sospesi i giudizi in questione in attesa della decisione dei giudici Lussemburgo – ai quali è stato chiesto di esprimersi con la procedura di urgenza – sulle questioni pregiudiziali proposte.
5. La sentenza della Corte di Giustizia Europea in data 1° agosto 2025
Esaminando i citati rinvii pregiudiziali, la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in merito con la sentenza in data 1° agosto 2025.
Il giudice europeo precisa preliminarmente che il criterio fondamentale per stabilire la fondatezza della domanda di protezione internazionale è la sicurezza del richiedente nel Paese di origine. In tal caso, gli Stati membri dovrebbero poterlo designare Paese sicuro e presumerne la sicurezza per uno specifico richiedente, a meno che quest’ultimo non adduca controindicazioni.
Lo stesso giudice osserva, altresì, che la designazione di un Paese terzo quale paese di origine sicuro non può stabilire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale nazione. Per la sua stessa natura, la valutazione alla base della designazione può tener conto soltanto della situazione civile, giuridica e politica generale in tale Paese e se i responsabili di persecuzioni, torture o altre forme di punizione o trattamento disumano o degradante siano effettivamente soggetti a sanzioni se riconosciuti colpevoli. Per questo motivo è importante che, quando un richiedente dimostra che vi sono validi motivi per non ritenere sicuro tale Paese per la sua situazione particolare, tale designazione non può più applicarsi al suo caso.
La Corte suggerisce anche che, al fine di garantire l’applicazione corretta del concetto di Paese sicuro basato su informazioni aggiornate, gli Stati membri dovrebbero condurre riesami periodici sulla reale situazione in base di una serie di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni di altri Stati membri, dell’EASO, dell’UNHCR, del Consiglio d’Europa e di altre pertinenti organizzazioni internazionali. Quando gli Stati membri vengono a conoscenza di un cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani in un Paese designato da essi come sicuro, dovrebbero provvedere affinché sia svolto quanto prima un riesame di tale situazione e, ove necessario, rivedere la designazione di tale Paese come sicuro.
Precisa, altresì, la Corte che, nel caso in esame, due cittadini della Repubblica popolare del Bangladesh, dopo essere stati soccorsi in mare dalle autorità italiane sono stati condotti in Albania, dove sono stati trattenuti nel centro di permanenza di Gjadër. Da tale centro di permanenza, il 16 ottobre 2024, hanno depositato, ciascuno, una domanda di protezione internazionale presso le autorità italiane.
Con decisioni del 17 ottobre 2024, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma ha respinto tali domande, in esito a una procedura accelerata di frontiera, con la motivazione che i migranti provenivano da un Paese di origine sicuro. I provvedimenti di trattenimento non sono stati convalidati dall’organo giurisdizionale competente e i richiedenti sono stati pertanto rimessi in libertà.
Arrivati in Italia, gli stessi hanno adito, il 25 ottobre 2024, il Tribunale ordinario di Roma, giudice del rinvio allora competente, con un ricorso avverso le decisioni di rigetto delle loro domande di protezione internazionale.
Sulla base di tali premesse, la Corte (Grande Sezione) ha quindi statuito che:
1) Gli articoli 36 e 37 nonché l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a che uno Stato membro proceda alla designazione di paesi terzi quali Paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo, a condizione che tale designazione possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale vertente sul rispetto delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I a detta direttiva, da parte di qualsiasi giudice nazionale investito di un ricorso avverso una decisione concernente una domanda di protezione internazionale.
2) Gli articoli 36 e 37 nonché l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali, devono essere interpretati nel senso che:
lo Stato membro, che designa un Paese terzo come Paese di origine sicuro, deve garantire un accesso sufficiente e adeguato alle fonti di informazione sulle quali si fonda tale designazione, accesso il quale deve, da un lato, consentire al richiedente protezione internazionale interessato, originario di tale Paese terzo, di difendere i suoi diritti e di decidere, con piena cognizione di causa, se gli sia utile adire il giudice competente e, dall’altro, consentire a quest’ultimo di esercitare il proprio sindacato su una decisione concernente la domanda di protezione internazionale;
il giudice nazionale investito di un ricorso avverso una decisione relativa a una domanda di protezione internazionale, esaminata nell’ambito del regime speciale di esame applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da Paesi terzi designati come sicuri, può, qualora verifichi, anche solo in via incidentale, se tale designazione rispetti le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I a detta direttiva, tener conto delle informazioni da esso stesso raccolte, a condizione, da un lato, di accertarsi dell’attendibilità di tali informazioni e, dall’altro, di garantire alle parti in causa il rispetto del principio del contraddittorio.
3) L’articolo 37 della direttiva 2013/32, letto in combinato disposto con l’allegato I a tale direttiva, deve essere interpretato nel senso che esso osta a che uno Stato membro designi come Paese di origine sicuro un Paese terzo che non soddisfi, per talune categorie di persone, le condizioni sostanziali di siffatta designazione.
6. Conclusioni
In sostanza, il governo attuale in materia migratoria si muove tra opposte esigenze: quella della chiusura delle frontiere, quella della solidarietà con l’Ucraina, quella dell’apertura ai lavoratori richiesti dal sistema produttivo.
In questo contesto la decisione della Corte di Giustizia Europea in data 1° agosto 2025 ha nuovamente acceso i riflettori su una questione delicata: il trattamento dei migranti in Italia e il loro rimpatrio. La sentenza apre, quindi, la strada a una revisione del provvedimento di convalida del trattenimento, ponendo interrogativi sulle procedure legali che riguardano l’immigrazione e la protezione dei diritti dei migranti.
D’altro canto, i timori rappresentati da più parti sulla efficacia dell’approvazione del decreto legge sui Paesi sicuri avevano trovato un riscontro nei provvedimenti dei giudici italiani, senza che l’approvazione per legge dell’elenco di tali Paesi abbia sanato i rilievi sollevati.
Inoltre, come già detto, la sentenza della Corte di Giustizia Europea dello scorso 4 ottobre aveva già sottolineato il dovere del giudice di rilevare, anche d’ufficio, l’eventuale violazione, nel caso sottoposto al suo giudizio, delle condizioni sostanziali della qualificazione di Paese sicuro enunciate nell’allegato della direttiva 2013/32; motivo per cui, nonostante sia stata adottata dal governo italiano una normativa primaria, permanevano dubbi sull’efficacia del predetto strumento legislativo.
In questa situazione non vi è dubbio che la sentenza di cui trattasi potrebbe rappresentare un vulnus alla politica migratoria del governo e arriva in un momento di incertezza normativa: infatti il regolamento europeo su immigrazione e asilo, che potrebbe incidere sui trasferimenti dei migranti, dovrebbe entrare in vigore solo nel 2026.
Sarà questo il provvedimento decisivo che potrebbe mettere fine anche al dibattito sui centri in Albania e quindi di conseguenza incidere sul conflitto tra l’esecutivo e la magistratura in materia di migrazione che, nonostante le raccomandazioni del Capo dello Stato, ha ormai raggiunto livelli allarmanti in grado, quindi, di minare il nostro sistema democratico e il principio di leale collaborazione sancito dall’art.20 della Carta costituzionale.
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