Corte di Cassazione Civile Sezioni unite 30/10/2008 n. 26019; Pres. Criscuolo A.

Redazione 30/10/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 31 luglio 2006, n. 255 la Corte d’appello di Cagliari, sezione staccata di Sassari, confermando la decisione di primo grado, riconosceva il diritto di M.M., docente dell’Università degli Studi di Sassari, a percepire dall’Istituto Nazionale di Previdenza dei Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (INPDAP) la riliquidazione dell’indennità di buonuscita computando il servizio svolto quale maestro elementare dal 1 ottobre 1947 al 30 settembre 1951 e tenendo conto – per il periodo dal 6 aprile 1970 al 28 febbraio 1973, secondo il criterio di cui al D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 4, del servizio svolto, nel contempo, quale docente di scuola media e quale incaricato in pre – ruolo presso l’Università.

La Corte di merito rilevava:

a) quanto al primo periodo, che l’Istituto non aveva contestato in primo grado la durata del medesimo, sicchè la relativa questione – in quanto posta per la prima volta in appello – era inammissibile in tale grado;

b) quanto al secondo periodo, che il servizio di pre – ruolo era stato riscattato dal docente, mediante il pagamento delle relative rate di contribuzione – anch’esso rimasto privo di tempestiva contestazione -, sicchè ai fini della riliquidazione della buonuscita ai sensi del cit. art. 4, doveva considerarsi anche tale servizio, essendo irrilevante che per il medesimo periodo il M. avesse prestato servizio di ruolo come docente della scuola media.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’INPDAP deducendo due motivi di impugnazione.

Il M. resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso l’INPDAP deduce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e denuncia al riguardo – formulando uno specifico quesito a norma dell’art. 366 bis c.p.c., la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 3 e 63, per non avere la Corte territoriale declinato la propria giurisdizione trattandosi di controversia attinente a rapporto di lavoro di docente universitario, sottratta alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi delle menzionate disposizioni normative.

2. Con il secondo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1032 del 1973, artt. 4, 14 e 15, e della L. n. 1368 del 1965, art. 2.

La decisione della Corte d’appello viene censurata in due profili: a) per non avere riconosciuto che la continuità del servizio di docente della scuola elementare non era stata allegata e dimostrata e che, comunque, tale servizio andava conteggiato per un totale di tre anni e quattro mesi – così come determinato dalla consulenza tecnica espletata nel corso del giudizio – e non per quattro anni;

b) per avere sovrapposto il periodo di servizio prestato come docente di ruolo della scuola media statale a quello prestato, contemporaneamente, come docente incaricato dell’Università, finendo così per valutare due volte, ai fini dell’indennità di buonuscita, un medesimo periodo di servizio.

In ordine a tale secondo profilo viene formulato quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

3. Con riguardo al primo motivo di ricorso occorre pronunciarsi, in via preliminare, sulla ammissibilità dell’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sollevata da una parte (l’INPDAP) la quale, soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza di merito senza nulla eccepire circa la giurisdizione del Giudice che l’ha pronunciata, essendosi limitata – come risulta dalla decisione della Corte d’appello – a contestare la pretesa del M. di ottenere una diversa liquidazione dell’indennità di buonuscita mediante il computo di due ulteriori e distinti periodi di servizio.

3.1. Mette conto rilevare che una situazione processuale analoga a quella in esame è stata recentemente valutata da queste Sezioni unite con la sentenza n. 24883 del 2008 – in riferimento alla eccezione di difetto di giurisdizione del giudice tributario, sollevata dall’Agenzia delle Entrate per la prima volta in sede di legittimità, dopo che la medesima, soccombente dinanzi alla commissione tributaria di primo grado in relazione alla impugnazione proposta da una fondazione privata avverso il provvedimento di cancellazione dall’Anagrafe unica di cui al D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 11, aveva proposto appello limitandosi a contestare la sussistenza dei requisiti necessari per l’iscrizione della fondazione nella predetta Anagrafe.

In tale decisione si è osservato che secondo l’art. 329 c.p.c., comma 2, l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate: se i Giudici tributari avessero espressamente affermato la propria giurisdizione (su istanza di parte o d’ufficio) contestualmente alla decisione di merito, la mancata impugnazione della relativa statuizione avrebbe determinato senz’altro l’effetto dell’accettazione della stessa da parte dell’appellante e del passaggio in giudicato (esplicito) del relativo capo della sentenza con l’effetto preclusivo di cui all’art. 324 c.p.c., nonostante il disposto dell’art. 37 c.p.c., comma 1, in forza del quale il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo;

ma un effetto identico si produce in conseguenza della decisione del merito, senza una statuizione esplicita sulla giurisdizione, poichè la decisione sul merito implica la decisione sulla giurisdizione e, quindi, se le parti non impugnano la sentenza, o la impugnano senza eccepire il difetto di giurisdizione, pongono in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire tale difetto e, quindi, si verifica il fenomeno della acquiescenza per incompatibilità con le conseguenti preclusioni sancite dagli art. 329 c.p.c., comma 2, e art. 324 c.p.c..

Sul piano della coerenza del sistema, inteso con generale riferimento alle norme del codice di procedura civile (applicabili al processo tributario, in quanto compatibili), un tale effetto si riconnette – come queste Sezioni unite hanno rilevato con la citata sentenza – all’esigenza della ragionevole durata del processo e all’obbligo incombente su tutti i soggetti del rapporto processuale di controllare il corretto esercizio della giurisdizione, sin dalle prime battute del processo, anche quando la questione non venga espressamente sollevata, sì che la portata precettiva dell’art. 37 c.p.c., debba essere contenuta in limiti più ristretti di quelli autorizzati dalla lettera della legge.

3.2. il principio, enunciato a completamento di una graduale evoluzione giurisprudenziale influenzata dalla costituzionalizzazione del giusto processo, si rivela di notevole incidenza nel processo del lavoro e, particolarmente, nella materia del riparto di giurisdizione fra giudice del lavoro e Giudice amministrativo nelle controversie – come quella ora in esame – relative a rapporti di pubblico impiego.

Una ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali formatisi dopo la riforma del processo del lavoro (L. n. 533 del 1973) consente di delineare, con riguardo al potere di controllo del Giudice in materia di giurisdizione, una evoluzione non proprio coerente con le finalità del legislatore.

Nell’ambito di un processo, in cui il controllo sull’esatta osservanza delle regole si poneva -negli intenti originari – non più come controllo autoritativo circa l’applicazione delle regole processuali dettate dallo Stato in quanto fornite di una propria intrinseca validità, ma come garanzia di certezza e di immediatezza della tutela giurisdizionale dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali, la verifica della giurisdizione si configurava come meramente strumentale e, in definitiva, assumeva rilievo processuale solo nel caso di mancato rilievo della carenza di giurisdizione, e dunque come un genere di vizio della sentenza determinato da violazione di norma regolatrice, non del rapporto sostanziale dedotto ad oggetto del processo dall’attività assertiva delle parti, ma appunto del processo, sia pure di suoi presupposti, attinenti al Giudice.

Tuttavia, una configurazione siffatta del mancato rilievo del difetto di giurisdizione, cioè come una mera nullità processuale, non ha determinato una semplificazione del sistema.

Molteplici sono i fattori che hanno impedito la completa valorizzazione dei principi di disponibilità e di assorbimento di tale invalidità nell’impugnazione, quale era lecito attendersi dalla peculiare funzione del processo lavoristico.

Da una parte, la preoccupazione di delimitare i poteri del Giudice ordinario nei confronti degli organi della giustizia amministrativa e della Corte dei conti, anch’essi titolari di una giurisdizione costituzionalmente riconosciuta (art. 103 Cost., ha certamente contribuito a configurare il controllo sulla giurisdizione come una verifica dei poteri del Giudice – esercitata a prescindere dall’impugnazione della parte – nella quale la rilevabilità ex officio non poteva essere messa in discussione; e, più in generale, proprio la centralità della funzione giurisdizionale ha finito per esaltare il ruolo di controllo del giudice, chiamato a verificare la corretta attuazione di essa ed il rispetto delle regole formali che ne consentono l’attuazione.

D’altronde, la dilatazione delle attività e dei tempi processuali dovuta al moltiplicarsi delle controversie, la surrettizia reintroduzione, nella prassi giudiziaria, della forma scritta come ordinaria modalità di trattazione e la stessa funzione di mediazione assunta dal Giudice nell’ambito di quel processo, specialmente in rilevanti settori come quelli delle relazioni industriali e della tutela dei diritti sociali, con l’accentuazione del suo ruolo partecipativo e l’ampliamento dei suoi poteri officiosi, hanno inevitabilmente favorito la tendenza ad assegnare allo stesso giudizio di legittimità un ruolo improprio di totale verifica delle precedenti fasi, implicante, in molti casi, il controllo d’ufficio delle attività processuali.

Va aggiunto che la centralità assunta, in generale, dal diritto inviolabile alla difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost., comma 2) ha comportato nelle controversie di lavoro una sostanziale marginalità del principio di disponibilità della tutela giurisdizionale, inteso come scelta fra l’impugnazione e l’acquiescenza alla pronunzia viziata, essendosi comunemente tradotta l’inviolabilità della difesa, nell’ambito di quel processo, nella rilevabilità in ogni stato e grado delle nullità derivanti dalla difettosa instaurazione del rapporto processuale e dal difettoso controllo della potestas judicandi.

Può dirsi, in conclusione, che secondo l’orientamento consolidato a decorrere dalla riforma del 1973 la rilevabilità in cassazione di alcune nullità, se non poteva riconnettersi, ormai, ad una pretesa validità dell’ordinamento processuale, conseguiva tuttavia al riconoscimento di un interesse pubblico riguardo alla verifica della potestas judicandi (frequentemente riferita anche ad esigenze di ordine pubblico, relativamente al difetto di giurisdizione) e al riconoscimento del contraddittorio come mezzo per la realizzazione dello scopo del processo: alla insussistenza di una potestas judicandi, in particolare, sono state ricondotte l’ipotesi dell’improponibilità della domanda (per esempio, per mancata proposizione della domanda amministrativa, ovvero per decadenza sostanziale dall’azione nelle controversie previdenziali), configurata come difetto assoluto di giurisdizione, ed altre ipotesi non esplicitamente contemplate dalla legge, per le quali il collegamento con siffatta potestas consegue comunque a considerazioni di carattere sistematico (in relazione per esempio alla legitimatio ad causam e al divieto di jus novorum ex art. 437 c.p.c.).

3.3. Questo sistema ha subito tuttavia un rilevante ridimensionamento in virtù di alcune regole correttive elaborate dalla stessa giurisprudenza, le quali, per un verso, incidono direttamente sul potere di verifica d’ufficio e, per l’altro, riducono la concreta possibilità che il vizio possa essere rilevato, a prescindere dalle limitazioni al rilievo officioso connesse al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione e alla rilevanza esclusiva degli atti interni, quella che interessa in questa sede è la regola secondo cui il vizio di nullità del procedimento, in sè rilevabile d’ufficio, resta superato da un vizio di decisione circa l’applicazione della norma regolatrice della situazione processuale prospettatasi, con la conseguenza che questo vizio è attratto alla disciplina generale della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione.

Tale principio è stato adottato, principalmente, proprio in materia di giurisdizione, oltre che di incompetenza inderogabile, con la conseguenza che, ove sia intervenuta una statuizione sulla giurisdizione (non più sulla competenza inderogabile, ormai non rilevabile d’ufficio oltre la prima udienza di trattazione del giudizio di primo grado, secondo il nuovo testo dell’art. 38 c.p.c., comma 1), i Giudici delle successive fasi possono conoscere della questione solo se ed in quanto essa sia stata riproposta con l’impugnazione (cfr. ex pluribus Cass., sez. un., n. 850, 12618 e 12699 del 1998).

L’incidenza di tale regola è del tutto evidente sul piano degli effetti pratici, valendo a configurare – attraverso l’effetto preclusivo del giudicato – una limitazione del controllo di legittimità nelle diverse ipotesi di nullità per carenza di potestas judicandi (sub specie del difetto assoluto della giurisdizione o del suo difetto nei confronti della pubblica amministrazione e dei Giudici speciali): la verifica della Corte di cassazione diviene allora, sul piano sistematico, una verifica del tutto eventuale, preclusa dall’esistenza di un precedente giudizio, ancorchè erroneo, del Giudice di merito, sicchè per esempio il giudicato può formarsi sulla pronunzia emessa da un Giudice del tutto privo di potestas judicandi, in quanto carente di giurisdizione, con la conseguenza che lo stesso interesse pubblico al riparto della giurisdizione viene condizionato alla scelta della parte riguardo alla contestazione o meno di quel giudizio. E, d’altronde, ricondurre tali cause di nullità, ove vi sia stata su di esse una pronuncia, nell’ambito dell’onere di impugnazione segnala – come queste Sezioni unite hanno già osservato, in generale, con la richiamata sentenza n. 24883 del 2008 – un chiaro spostamento degli equilibri del processo verso il principio di disponibilità.

3.4. Si può concludere, volendo fare il punto sulla evoluzione storico – sistematica del potere di controllo della Corte di cassazione sulle nullità verificatesi nel processo lavoristico, che il sistema, risultante dall’orientamento giurisprudenziale successivo alla riforma del 1973 e da tali regole correttive successivamente elaborate, consiste nella rilevabilità d’ufficio in cassazione di determinate nullità, accomunate dal difetto di potestas judicandi o dal difetto assoluto di rapporto processuale e non costituenti oggetto di una specifica pronuncia di merito non impugnata.

Si tratta di vedere – anche e soprattutto per le controversie di lavoro, nelle quali particolarmente risalta l’esigenza dell’immediatezza della tutela giurisdizionale – se questo sistema, fondato sull’equilibrio fra principio di disponibilità dell’impugnazione e potere officioso del Giudice, resista ad una verifica di compatibilità con il principio del giusto processo e, in particolare, con la "durata ragionevole", che della nozione di "giusto processo" costituisce un elemento costitutivo, secondo il nuovo testo dell’art. 111 Cost., (cfr. Cass. n. 12746 del 2008).

Se, infatti, "la giurisdizione si attua mediante il giusto processo", è evidente che la giurisdizione resta inattuata se il processo non è giusto, per il fatto di non svolgersi secondo le garanzie del contraddittorio e/o per avere una durata irragionevole. Non solo, dunque, vi è la coesistenza, nell’esercizio della giurisdizione, di un interesse pubblico (potestas judicandi e ripartizione di tale potestas) e di un interesse privato (diritto all’azione e alla difesa, ex art. 24 Cost., commi 1 e 2), ma quest’ultimo si caratterizza ulteriormente (diritto all’azione e alla difesa mediante il giusto processo), nel senso che la garanzia del giusto processo aggiunge un segmento al diritto, già assicurato dall’art. 24 Cost., di agire in giudizio, mediante un giusto processo, per la tutela dei propri diritti (nonchè degli interessi legittimi, che il rapporto fra i due principi in termini di effettività del diritto d’azione si configura anche con riferimento a tali posizioni soggettive).

Quanto al processo del lavoro, ciò comporta che la verifica sulla effettiva attuazione della giurisdizione deve essere riferita, ora, non solo alla eventualità di una carenza di potestas judicandi (assoluta o relativa al riparto fra Giudice ordinario e Giudici speciali), la quale giustifica, secondo il modello sinora consolidato, il potere di controllo in ogni stato e grado, ma anche all’eventualità di un esercizio ingiusto della stessa giurisdizione, in quanto attuato in tempi non ragionevoli: nè potrebbe obiettarsi che la durata non ragionevole è riconducibile all’allungamento patologico dei tempi processuali, da verificare caso per caso, rispetto alla previsione legislativa di un processo orale e con cadenze predeterminate, anzichè al sistema della rilevabilità delle nullità, che la novità della previsione costituzionale risiede proprio nel considerare ingiusto un sistema processuale che consenta, in alcuni casi, la protrazione del processo per un tempo irragionevole o, comunque, non sia idoneo ad impedire tale protrazione normativamente, e cioè con una previsione valevole per tutti i casi.

Si tratta di accertare, cioè, la possibilità di coesistenza di tutti i diversi aspetti della giurisdizione e la compatibilità degli interessi tutelati, nel senso che ognuno dei valori costituzionalmente protetti non può sacrificare i contenuti fondamentali dell’altro; una volta trovato il punto di equilibrio, la compatibilità non può che essere assicurata, sul piano della regolamentazione, attraverso il meccanismo della interpretazione adeguatrice delle norme vigenti.

La verifica di compatibilita implica le relazioni:

a) durata ragionevole / contraddittorio;

b) durata ragionevole / carenza di potestas judicandi.

3.5. Quanto alla prima di tali relazioni, deve considerarsi che l’imprescindibilità del contraddittorio come contenuto fondamentale del diritto di difesa ne impedisce comunque il sacrificio integrale a favore della celerità della definizione del giudizio, come queste Sezioni unite hanno già precisato, con generale riferimento al processo civile, nonchè a quello tributario, con la richiamata sentenza n. 24883 del 2008.

D’altra parte, nel senso della inammissibilità di un integrale pregiudizio del contraddittorio in ragione della celerità del processo si è sempre pronunciata la Corte costituzionale, che per esempio ha dichiarato illegittima la previsione normativa di riti speciali abbreviati nella materia degli appalti pubblici (cfr. Corte cost. n. 427 del 1999).

Al di là dei meccanismi di sanatoria connessi al principio del raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c.), la prospettiva del giusto processo non è dunque incompatibile con un potere di controllo delle nullità esercitabile in sede di legittimità, mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione investita dell’impugnazione sul merito, dovendosi anzi osservare che tale sistema di verifica consente di evitare la protrazione della vicenda contenziosa anche oltre il giudicato, a causa della proposizione dell’autonoma azione di accertamento della nullità da parte del soccombente non evocato validamente in giudizio (c.d. actio nullitatis), ovvero del rimedio impugnatorio straordinario da parte del litisconsorte pretermesso (art. 404 c.p.c., comma 1).

3.6. Al difetto di rapporto processuale può essere assimilata, quanto agli effetti, la mancanza dei presupposti processuali soggettivi (legitimatio ad processum), la cui rilevabilità sine die – come la dottrina ha puntualmente osservato – risponde all’esigenza di evitare una sentenza emessa nei confronti di un soggetto incapace, e pertanto inutiliter data.

3.7. Anche per la relazione durata ragionevole carenza di potestas judicandi va osservato che, in linea generale, un sistema di rilevabilità del difetto di giurisdizione è compatibile con la durata ragionevole del processo ove sia previsto che il rilievo ex officio avvenga entro termini brevi e determinati.

L’interesse delle parti viene invece oggettivamente compromesso in caso diverso, e cioè di mancanza di un prefissato termine ragionevole per tale rilevabilità, poichè l’attività processuale compiuta e la stessa pronunzia del Giudice sul diritto controverso rimangono in tal caso sub judice, a prescindere dal contraddittorio delle parti e dall’assenza di impugnazione, e sono eventualmente travolte da un rilievo officioso che intervenga in qualunque momento del processo (anche a distanza di anni) e comprometta conseguentemente la tutela del diritto sostanziale.

Al riguardo, le considerazioni svolte nella richiamata decisione n. 24883 del 2008 valgono a maggior ragione per le controversie di lavoro e di previdenza.

Non può non essere valutata, particolarmente per tali controversie, la perdita di attualità delle originarie ragioni giustificatrici di un rigido controllo sulla giurisdizione, officioso e sine die. Come si è visto, il sistema ha perso la sua iniziale rigidità a seguito del riconoscimento dell’effetto preclusivo derivante dalla formazione del giudicato esplicito sulla questione di giurisdizione. Ma a ciò occorre aggiungere altre significative circostanze – ugualmente idonee a determinare un affievolimento di quelle originarie ragioni – come la diffusa contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego e l’attribuzione della relativa giurisdizione al Giudice ordinario, l’affidamento alla cognizione dello stesso giudice ordinario delle controversie sulla repressione di comportamenti antisindacali della pubblica amministrazione e la parziale vanificazione del divieto per il Giudice ordinario di valutare gli atti della pubblica amministrazione: le quali circostanze – nell’ambito della consolidata tendenza legislativa a ricondurre la giurisdizione al giudizio sul rapporto e non già sull’atto amministrativo – hanno determinato la radicale revisione dei tradizionali canoni di ripartizione della giurisdizione, fondati sull’attribuzione al solo Giudice amministrativo di un sindacato diretto sugli atti della pubblica amministrazione e di una giurisdizione esclusiva sui rapporti di pubblico impiego, ed hanno finito per ridimensionare la principale ratio che legittimava originariamente la previsione di un intenso potere di controllo sulla giurisdizione da esercitare sine die.

La privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, in particolare, ha comportato in alcuni casi conseguenze rilevanti anche nella materia della ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e Corte dei conti, là dove la labilità dei limiti di riparto può determinare incertezze giurisprudenziali di evidente pregiudizio per il giusto processo: basti pensare alle questioni relative alla conservazione della giurisdizione della Corte dei conti in materia di trattamento pensionistico di alcune categorie di dipendenti transitati al regime privatistico, come i ferrovieri; ed uguali incertezze sono da riconnettere alle questioni relative alla disciplina transitoria del passaggio al Giudice ordinario della giurisdizione sul pubblico impiego, in relazione alle quali la peculiarità delle concrete situazioni può dar conto di quel pregiudizio, ove si ammetta che per esempio il riconoscimento del diritto al trattamento di fine rapporto può essere ritardato in conseguenza del rilievo d’ufficio in sede di legittimità – e quindi anche a distanza di anni dalla maturazione del diritto – della carenza di giurisdizione del Giudice ordinario.

Se è così, è evidente che la razionalizzazione del potere di verifica sulla giurisdizione, in ragione dell’interesse delle parti garantito dal giusto processo, non implica affatto un integrale pregiudizio dell’interesse generale, tanto più che la regolarità dell’esercizio della giurisdizione resta comunque affidata anche al controllo delle stesse parti, esercitabile mediante l’impugnazione della sentenza: si tratta, in definitiva, come queste Sezioni unite hanno precisato, di assimilare la situazione processuale derivante dalla mancata impugnazione, in punto di giurisdizione, della sentenza di primo grado che abbia deciso sul merito a quella derivante dal giudicato esplicito sulla giurisdizione, si che la decisione sul merito renda ormai indiscutibile – in presenza del giudicato implicito al riguardo – l’attribuzione della giurisdizione al Giudice ordinario.

3.8. Mette conto osservare, per esigenza di sistema, che alla carenza di potestas judicandi vengono ricondotte – come s’è visto – ipotesi di nullità del tutto diverse dal difetto di giurisdizione, per le quali, pure, la giurisprudenza consolidata di questa Corte ha riconosciuto l’inevitabilità del controllo – anche officioso – in sede di legittimità; e alcune, fra queste ipotesi, come il difetto di legitimatio ad causam e la carenza di taluni presupposti processuali, nonchè la violazione del divieto di jus novorum, rilevano particolarmente nelle controversie di lavoro, e ancor più in quelle di previdenza sociale, là dove la complessità della legislazione rende difficoltosa l’individuazione del soggetto pubblico obbligato alla prestazione e, per altro verso, la stessa esperibilità dell’azione giudiziale è condizionata all’instaurazione di un procedimento amministrativo e all’osservanza di termini di decadenza sostanziale, mentre l’esigenza di immediatezza della tutela impone precisi limiti per la contestazione dei fatti materiali costitutivi della pretesa (art. 416 c.p.c., comma 3) e preclude, di norma, la proposizione di nuove domande, o nuove eccezioni, in grado d’appello (art. 437 c.p.c., comma 2).

Orbene, per queste ipotesi la prospettiva del giusto processo non appare affatto incompatibile con la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado in deroga ai principi generali della disponibilità della tutela giurisdizionale e dell’onere di impugnazione, atteso che:

a) la legitimatio ad causam riguarda l’individuazione della giusta parte che agisce in una determinata controversia, o nella medesima viene evocata, si che una tale individuazione, a prescindere da ogni possibile termine o preclusione, integra, sotto il profilo soggettivo, la stessa finalità della giurisdizione;

b) la medesima legitimatio si configura come una condizione dell’azione, costituendo, con l’interesse ad agire e con il titolo dedotto in giudizio, l’oggetto medesimo dell’esercizio della giurisdizione, che è volto, appunto, attraverso l’applicazione delle regole procedurali, a verificare l’esistenza di tali condizioni, sì che il giudice, in qualunque fase e a prescindere dall’impugnazione della parte, può rilevarne il difetto (allo stesso modo di come naturalmente, con riguardo al titolo, può rilevare la nullità del contratto, per esempio ai fini dell’applicabilità dell’art. 2126 c.c.);

c) la decadenza sostanziale dall’azione, per il decorso di determinati termini previsti dalla legge (per esempio con decorrenza dalla definizione del procedimento amministrativo relativo alla domanda di prestazione previdenziale, del D.P.R. n. 63 9 del 1970, ex art. 47), riguarda non un vizio dell’attività processuale, bensì la stessa ammissibilità della tutela giurisdizionale;

d) la mancanza della domanda amministrativa di prestazione previdenziale attiene anch’essa, in ragione della rilevanza del procedimento amministrativo ai sensi degli art. 442 c.p.c. e ss., alla proponibilità dell’azione giudiziale;

e) la violazione del divieto di nuove contestazioni e di nuove domande o eccezioni in grado d’appello riguarda la delimitazione della res litigiosa e non collide con la finalità del giusto processo, ma anzi concorre a realizzarla.

3.9. Considerazioni analoghe valgono, nell’ambito dei procedimenti relativi a controversie in materia di previdenza e assistenza sociale, per le domande che frazionano un credito relativo al medesimo rapporto, comprensivo delle somme eventualmente dovute per interessi, competenze e onorari e ogni altro accessorio, per le quali la legge impone la declaratoria di improcedibilità in ogni stato e grado del procedimento (D.L. n. 112 del 2008, art. 20, commi 7 e 8, convertito nella L. n. 133 del 2008).

3.10. In un ambito più generale, il potere di controllo in sede di legittimità trova giustificazione, proprio nella prospettiva del giusto processo, anche per quelle situazioni processuali che possono determinare un contrasto di giudicati, come la litispendenza e la formazione del giudicato interno (per singole domande o eccezioni, ovvero per l’intero giudizio come nel caso dell’inammissibilità dell’appello).

3.11. Nelle ipotesi così individuate, relative a nullità conseguenti alla violazione del contraddittorio, ovvero alla carenza di una potestas judicandi non connessa al riparto di giurisdizione fra Giudice ordinario e giudici speciali, la rilevabilità, anche officiosa, in sede di legittimità – salvo l’effetto preclusivo derivante dalla esistenza di una specifica statuizione del Giudice di merito e dalla mancata impugnazione al riguardo – prescinde dal vizio relativo all’individuazione del giudice, poichè si riferisce non già a provvedimenti pronunciati da un Giudice privo di competenza per materia o di competenza giurisdizionale, alla stregua dei criteri normativi che ripartiscono tali competenze, bensì a provvedimenti che nessun Giudice poteva pronunciare difettando i presupposti o le condizioni per il giudizio. In tali ipotesi, il rilievo obbligatorio della nullità, che inficia la decisione impugnata (nella sua interezza o in parte qua), si risolve nella pronuncia, caducatoria e meramente rescindente, di cassazione senza rinvio ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 2, perchè "la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito".

3.12. Al di fuori di queste ipotesi, che afferiscono alla verifica delle condizioni dell’azione o dei presupposti della tutela giurisdizionale, si colloca dunque l’ipotesi del difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, che abbia già pronunciato sul merito della domanda, per la quale – alla stregua del principio del giusto processo – deve affermarsi che la deduzione in cassazione, o il rilievo officioso nella medesima sede, è precluso dalla formazione del giudicato implicito, come già affermato da queste Sezioni unite.

3.13. In base a tali considerazioni, nella controversia ora in esame l’eccezione di difetto di giurisdizione proposta in sede di legittimità dall’Istituto ricorrente è inammissibile essendosi formato il giudicato implicito sulla questione di giurisdizione per effetto della pronuncia sul merito da parte del Giudice di primo grado e della mancata impugnazione, al riguardo, dinanzi al Giudice d’appello.

4. Passando all’esame del secondo motivo, che riguarda il merito della controversia, il Collegio rileva che non è stata censurata la statuizione della sentenza impugnata riguardo alla inammissibilità dell’appello con riferimento alla contestazione delle circostanze dedotte dal dipendente circa la durata e la continuità del servizio prestato come insegnante della scuola elementare e che, d’altronde, il quesito di diritto – formulato, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., a conclusione del motivo – non comprende alcun riferimento a tale periodo di servizio. In relazione a quest’ultimo la censura dell’Istituto è dunque inammissibile.

4.1. Fondata è invece la seconda censura (ammissibilmente proposta mediante formulazione di un pertinente e specifico quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.), relativa al calcolo dell’indennità di buonuscita mediante il computo, nel periodo 6 aprile 1970 – 28 febbraio 1973, sia del servizio prestato presso la scuola media statale, sia di quello prestato, nel contempo, presso l’Università.

L’indennità di buonuscita dei dipendenti dello Stato è disciplinata nel D.P.R. n. 1031 del 1973 (recante il testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato).

Viene previsto, in particolare, che l’indennità di buonuscita spetta al dipendente che cessa dal servizio con diritto alla pensione, purchè il servizio sia durato almeno un biennio (art. 3, comma 1);

l’indennità è pari a tanti dodicesimi della base contributiva per quanti sono gli anni di servizio computabili (art. 3, comma 2); per la determinazione della base contributiva si considera l’ultimo stipendio o l’ultima paga o retribuzione integralmente percepiti (art. 3, comma 3); al dipendente che abbia conseguito il diritto all’indennità di buonuscita e venga riassunto spetta la riliquidazione dell’indennità per il complessivo servizio prestato, previa detrazione dell’importo dell’indennità già conferita (art. 4, comma 1); ai fini della liquidazione dell’indennità si computa il servizio effettivo prestato in qualità di dipendente e si applicano le norme concernenti il trattamento di quiescenza dei dipendenti dello Stato (art. 14); i servizi statali non compresi nel servizio effettivo nonchè i servizi non statali e i periodi di tempo di cui è prevista la commutabilità come servizio effettivo ai fini del trattamento di quiescenza dei dipendenti statali sono ammessi a riscatto ai fini della liquidazione dell’indennità (art. 15, comma 1).

La ricognizione della disciplina normativa consente di osservare che il trattamento di buonuscita realizza una funzione propriamente previdenziale, sia pure mediante la corresponsione di un’indennità commisurata alla base contributiva dell’ultima retribuzione percepita. Ne consegue che, analogamente al trattamento di quiescenza specificamente richiamato da tale disciplina, la liquidazione dell’indennità è determinata in base alla durata del servizio, ivi dovendosi computare i periodi di servizio effettivo e, in mancanza, quelli utili, cioè riscattati, o comunque ammessi al riscatto, idonei a "colmare" periodi non coperti da servizio effettivo; i periodi riscattati, o ammessi al riscatto, non sono invece sovrapponibili a quelli di servizio effettivo.

L’inammissibilità di una tale duplicazione del trattamento di buonuscita per un medesimo periodo è confermata, peraltro, da altre previsioni normative, puntualmente richiamate dall’Istituto ricorrente. In particolare, la L. n. 1368 del 1965, art. 2, (recante la valutazione dei servizi ai fini della liquidazione dell’indennità di buonuscita) prevede, per i dipendenti transitati nello Stato da enti diversi, la computabilità dei servizi precedenti all’inquadramento nei ruoli statali, a condizione che per il precedente periodo non sia stata già liquidata dagli enti di provenienza una analoga indennità previdenziale.

In base a tale criterio, deve affermarsi che se un determinato periodo è fornito di contribuzione connessa alla prestazione di effettivo servizio, non è utile, ai fini della liquidazione della buonuscita, un contemporaneo periodo di servizio non effettivo, ma riscattato mediante versamento dei contributi, o comunque ammesso al riscatto; nè può rilevare, ai fini in esame, che per tale periodo l’interessato abbia ottenuto uno specifico provvedimento di riscatto e abbia versato la relativa contribuzione, poichè l’indennità di buonuscita si determina soltanto in base alla durata del servizio, cioè agli anni di servizio effettivo, o, in mancanza, ai periodi di servizio a questo equiparabile ai sensi del D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 15.

Alla stregua di tali considerazioni, la sentenza impugnata merita di essere censurata, con il conseguente accoglimento del ricorso in parte qua, poichè ha esteso la base di calcolo dell’indennità, per il periodo 6 aprile 1970 – 28 febbraio 1973, cumulando il servizio di ruolo prestato presso la scuola media con quello di incaricato in pre – ruolo presso l’Università, contemporaneamente prestato e oggetto di riscatto da parte del dipendente.

5. In conclusione, va dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso e va accolto il secondo, limitatamente al periodo sopra indicato; la sentenza impugnata deve essere dunque cassata, in relazione alla censura accolta, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Cagliari, affinchè provveda alla nuova liquidazione dell’indennità di buonuscita, ai sensi del D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 4, attenendosi al principio di diritto sopra enunciato.

6. Il medesimo giudice di rinvio pronuncerà altresì sulle spese del giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite, dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso e accoglie il secondo limitatamente al periodo 6 aprile 1970 – 28 febbraio 1973; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia alla Corte d’appello di Cagliari anche per le spese del giudizio di cassazione.

Redazione