Pareggio ed equilibrio di bilancio: fra scientificità e “feticismo” tecno-economico

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Le regole europee di bilancio: dal pareggio all’equilibrio

Da Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita

Il problema della disciplina dei bilanci statali iniziò ad imporsi sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, allorché in ambito CEE si aprì fra gli Stati membri il confronto sul processo che avrebbe dovuto culminare nella realizzazione della Unione economica e monetaria (UEM), il cui pilastro era l’introduzione di una valuta unica. La necessità di coordinare e regolamentare le politiche di bilancio dei vari Paesi compare infatti esplicitamente come una delle priorità indicate dal cd. Rapporto Delors, licenziato nell’aprile del 1989 dal Comitato di studio, guidato dall’allora presidente della Commissione europea Jacques Delors, che un anno prima aveva ricevuto mandato dal Consiglio europeo di elaborare proposte concrete sulle fasi della costituenda UEM[1].

Con il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, l’Europa vuole andare oltre il semplice mercato comune e affermarsi come entità politica, e, nel solco del Rapporto Delors, si dà come primo obiettivo proprio l’integrazione economica e l’unificazione monetaria: «promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l’instaurazione di un’unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta unica, […]» (art. B). Tale obiettivo esige da parte dei Paesi membri un impegno di lungo periodo teso a coordinare le loro politiche economiche, in un quadro di sorveglianza multilaterale orientata al rispetto di norme finanziarie e di bilancio. Di qui, per la prima volta, l’inserimento di specifiche disposizioni di natura prescrittiva in materia di finanze pubbliche, come l’art. 104 C parr. 1 e 2 (ora art. 126 TFUE):

 

  1. Gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi.
  2. La Commissione sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di individuare errori rilevanti. In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio sulla base dei due criteri seguenti:
  3. a) se il rapporto tra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che:

– il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina al valore di riferimento;

– oppure, in alternativa, il superamento del valore di riferimento sia solo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti vicino al valore di riferimento;

  1. b) se il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo superi un valore di riferimento, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato.

 

I valori di riferimento, di cui al par. 2 a) e b), vengono precisati nell’allegato Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi. Si tratta degli ormai noti parametri quantitativi, stabiliti allora e tuttora vigenti, che fissano in termini numerici esatti i limiti dell’indebitamento netto e del debito: 3 per cento per il rapporto deficit/Pil e 60 per cento per il rapporto debito/Pil. Da Maastricht in poi, questi valori hanno goduto, per così dire, di dogmatica sacralità, pur non mancando fra gli economisti autorevoli voci critiche[2].

Secondo quanto previsto dal Trattato di Maastricht, il 1° gennaio 1994 ebbe inizio la seconda fase per la realizzazione dell’UEM[3]: i Paesi membri erano chiamati a varare programmi pluriennali «destinati ad assicurare la durevole convergenza necessaria alla realizzazione dell’Unione economica e monetaria, in particolare per quanto riguarda la stabilità dei prezzi e la solidità delle finanze pubbliche»; i progressi ottenuti dovevano essere valutati dal Consiglio, sulla base di una relazione della Commissione[4]. Quattro erano i criteri di convergenza cui ottemperare ai sensi dell’art. 109 J par. 1: 1) stabilità dei prezzi tramite un tasso d’inflazione prossimo a quello conseguito dai tre Stati membri con migliori risultati; 2) sostenibilità della finanza pubblica derivante da un bilancio senza disavanzo eccessivo; 3) normale fluttuazione dei tassi di cambio senza svalutazioni nei confronti di monete di altri Stati membri; 4) stabilità dei livelli dei tassi d’interesse a lungo termine. Avrebbero avuto accesso alla terza fase UEM (1° gennaio 1999) e adottato la moneta unica soltanto gli Stati che, in una data anteriore al 1° luglio 1998, alla valutazione del Consiglio risultassero aver soddisfatto le condizioni di convergenza (art. 109 J par. 4). La rilevanza attribuita al criterio delle finanze pubbliche sane e sostenibili trova conferma nel fatto che, a pochi giorni dall’entrata in vigore del Trattato, il Consiglio UE adotta un regolamento (n. 3605/22 novembre 1993) contenente specifiche disposizioni applicative del Protocollo sui disavanzi eccessivi.

Il vaglio finale di ottemperanza, funzionale all’avvio della terza fase UEM, giunge nei tempi previsti: il 3 maggio 1998 il Consiglio, riunito nella composizione dei Capi di Stato o di Governo, sulla base delle relazioni della Commissione e dell’IME, accogliendo le raccomandazioni del Consiglio UE, decide che 11 Stati membri soddisfacevano le condizioni necessarie per l’adozione della moneta unica: Belgio, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Portogallo e Finlandia (98/317/CE)[5].

Rileva tuttavia ricordare che un anno prima (giugno-luglio 1997) della decisione che dà il via libera agli undici Paesi, l’Unione europea si dota del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), lo strumento giuridico che non solo attua, rafforza e definisce ulteriormente le determinazioni di Maastricht sulla sostenibilità delle finanze pubbliche necessaria alla terza fase dell’UEM, ma che, soprattutto, sarà destinato a vincolare a regole stringenti le politiche nazionali di bilancio negli anni a venire. Il PSC si compone di due regolamenti ‒ n. 1466/97 e n. 1467/97 ‒, inerenti, rispettivamente, alla sorveglianza dei bilanci e delle politiche economiche (braccio preventivo) e alle modalità di attuazione della procedura per disavanzi eccessivi (braccio correttivo).

Ma il cuore del PSC può senz’altro considerarsi la risoluzione adottata ad Amsterdam dal Consiglio europeo il 17 giugno 1997 (97/C 236/01), che è parte integrante di esso insieme con i due regolamenti, e che solennemente dichiara in premessa la propria vocazione politica: «La presente risoluzione costituisce per le parti che attueranno il patto di stabilità e crescita un orientamento politico rigoroso» (punto IV). Il principale impegno cogente che ne deriva per gli Stati membri è rispettare l’Obiettivo a medio termine (Omt)[6] di un saldo di bilancio in pareggio o positivo, e correggere i disavanzi eccessivi, ossia ogniqualvolta il deficit superi il valore del 3% in rapporto al Pil. Tale correzione deve essere immediata, completarsi cioè non oltre l’anno successivo alla rilevazione dello sforamento[7].

Il secondo regolamento provvede peraltro a definire in termini precisi la deroga prevista e genericamente qualificata dal Trattato di Maastricht come superamento eccezionale e temporaneo[8] del valore di riferimento: il deficit deve considerarsi eccezionale e temporaneo «qualora sia determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro interessato ed abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure nel caso sia determinato da una grave recessione economica» (art. 2, par. 1). Ma c’è di più. Viene statuito che la Commissione assuma quale parametro di “grave recessione” un declino annuo del Pil in termini reali non inferiore al 2% (par. 2); il Consiglio, da parte sua, ha un margine valutativo più flessibile, al di sotto del 2%, nel caso in cui accerti che la recessione sia stata improvvisa e inattesa (par. 3). In ogni caso, allo Stato membro è prescritto l’impegno ad invocare la fattispecie  del deficit eccezionale, solo in presenza di un declino accertato almeno dello 0,75% del Pil[9].

Siamo dunque di fronte a un quadro normativo molto rigido che, pur lasciando agli Stati la piena titolarità dei conti pubblici, ne comprime l’autonomia decisionale entro parametri numerici e vincoli procedurali nettamente determinati[10]. L’eccesso di rigore difatti ben presto si palesò, e anche Paesi quali Germania e Francia disattesero fra il 2001 e il 2005 la regola sul disavanzo eccessivo superando il valore limite del 3% dell’indebitamento netto in rapporto al Pil.

      • La riforma del Patto di Stabilità e Crescita nel 2005

Il risultato fu la riforma nel 2005 del Patto di Stabilità e crescita volta ad attenuare la rigidità delle disposizioni iniziali. Per limitarci agli aspetti qui rilevanti[11], la novità principale è rappresentata senz’altro dall’introduzione del criterio del saldo strutturale, che consente più elasticità valutativa, depurando il saldo nominale di bilancio dagli effetti del ciclo economico e dalle misure una tantum e temporanee, e distinguendo, quindi, ai fini della quantificazione del disavanzo la componente strutturale da quella ciclica. Viene di conseguenza rimodulato ad una maggiore flessibilità l’intero impianto del PSC: sia gli obiettivi di medio termine con le relative misure di correzione, sia le modalità di contenimento, nel breve termine, del deficit entro il limite del 3%, sia, infine, i riferimenti quantitativi sottostanti al giudizio di disavanzo eccezionale e temporaneo sono ora da interpretare e valutare alla luce dei fattori di crescita, produttivi e occupazionali peculiari di ciascun Paese membro.

Al livello normativo, il nuovo PSC consta dei regolamenti n. 1055/2005 e n. 1056/2005 ― in riforma rispettivamente dei precedenti n. 1466/97 e n. 1467/97 ―, adottati dal Consiglio UE (27/06/2005), su impulso della relazione Migliorare l’attuazione del patto di stabilità e crescita, presentata dal Consiglio ECOFIN (20/3/2005), approvata dal Consiglio europeo di Bruxelles il 23 marzo 2005, e costituente parte integrante del novellato PSC. Basta scorrere le conclusioni del Consiglio europeo per rendersi conto che l’insoddisfazione sui risultati raggiunti dal PSC spinge il legislatore europeo ― almeno negli intenti asseriti ― a una sostanziale correzione di rotta, orientata al potenziamento della crescita economica almeno quanto al consolidamento delle finanze pubbliche:

 

Cinque anni dopo il varo della strategia di Lisbona il bilancio è modesto. Accanto a innegabili progressi ci sono lacune e ritardi evidenti. […] Urge pertanto agire. A tal fine, è indispensabile rilanciare senza indugi la strategia di Lisbona e procedere a un riorientamento delle priorità verso la crescita e l’occupazione. L’Europa deve infatti rinnovare le basi della sua competitività, aumentare il suo potenziale di crescita e la sua produttività e rafforzare la coesione sociale, puntando principalmente sulla conoscenza, l’innovazione e la valorizzazione del capitale umano. […] Le modifiche al patto di stabilità e crescita vi contribuiranno, permettendo nel contempo agli Stati membri di svolgere pienamente il loro ruolo nel rilancio di una crescita a lungo termine[12].

Dalla relazione del Consiglio ECOFIN giunge dunque il dettaglio delle proposte migliorative capaci di dare «maggiore risalto agli sviluppi economici» e porre «l’accento sulla garanzia della sostenibilità delle finanze pubbliche»[13]. Come anticipato, vengono ridefiniti alcuni punti caratterizzanti l’originario PSC in tema di obiettivi di bilancio e deficit. Si parte dalla convinzione che il quadro economico e finanziario, divenuto molto più eterogeneo e differenziato nell’UE a 25 Paesi (oggi 27, dopo la Brexit), imponga di tenere maggiormente in conto la diversa situazione economica di ciascuno Stato membro. Le finalità generali cui conformare i programmi di stabilità/convergenza sono tre: a) garantire un margine di sicurezza rispetto al limite del 3% deficit/Pil; b) assicurare rapidi progressi verso la sostenibilità; c) consentire uno spazio di manovra nel bilancio, in particolare riguardo agli investimenti pubblici[14].

In una simile prospettiva, diviene opportuna una differenziazione degli Omt che ammetta possibili divergenze dal saldo di bilancio in pareggio o in attivo, laddove lo consentano l’entità del debito pubblico e quella del potenziale di crescita:

Gli obiettivi a medio termine dovrebbero essere differenziati e possono divergere dall’obiettivo di una posizione di bilancio “con un saldo prossimo al pareggio o in attivo” per singoli Stati membri sulla base dell’attuale rapporto debito/PIL e della crescita potenziale, mantenendo nel contempo un margine sufficiente al di sotto del valore di riferimento del – 3% del PIL. La forcella per gli obiettivi a medio termine di ciascun paese della zona euro e degli Stati membri dell’ERM 2 si troverebbe pertanto, in termini corretti per il ciclo, al netto delle misure temporanee e una tantum, tra il -1% del PIL per i paesi a basso indebitamento/elevato potenziale di crescita e il pareggio o l’attivo per i paesi ad alto indebitamento/basso potenziale di crescita[15].

Né evidentemente poteva, in coerenza con la riforma sollecitata dal Consiglio, restare impregiudicata la questione del superamento eccezionale e temporaneo del valore di riferimento per il disavanzo: i precedenti parametri fissati per definire la nozione di “grave recessione economica” furono infatti giudicati troppo rigidi e quindi suscettibili di aggiustamento. Vengono abbandonati i valori numerici assoluti in favore di un criterio relativo, curvato in funzione del potenziale di crescita, che qualifica lo sforamento come eccezionale, qualora risulti «da un tasso di crescita negativo o dalla diminuzione cumulata della produzione durante un periodo prolungato di crescita molto bassa in relazione alla crescita potenziale»[16].

Il principio ispiratore che viene esibito dalla riforma del PSC nel 2005 è quello secondo cui gli Stati membri sono chiamati a politiche fiscali virtuose, e dunque più restrittive, nelle fasi favorevoli di crescita, tali da ridurre deficit e debito attraverso gli avanzi positivi derivanti dalla disciplina di bilancio, e fronteggiare meglio le eventuali fasi avverse del ciclo economico in forza di finanze pubbliche consolidate[17]. Quanto poi al percorso di avvicinamento agli obiettivi a medio termine, programmati e non ancora raggiunti, si postula «un aggiustamento annuale in termini corretti per il ciclo, al netto di misure una tantum e di altre misure temporanee, dello 0,5% del PIL»[18].

Sin qui, dunque, un’autentica ricerca di maggiore, se pur sorvegliata, elasticità sembra avere effettivamente guidato la mano riformatrice. Sennonché, ad uno sguardo più scaltrito, i concreti esiti applicativi del PSC riformato ridimensionano, se non addirittura smentiscono, la portata di flessibilità asserita in linea di principio. La chiave esegetica ci viene fornita dal Codice di condotta per l’implementazione del Patto di stabilità e crescita (2005).

Intanto, per partire proprio dal percorso di avvicinamento agli Obiettivi a medio termine, vi si legge che i Paesi in recessione sono parimenti tenuti a un aggiustamento annuale dei conti pubblici, sia pure inferiore allo 0,5% del Pil[19]; e ciò ad onta del fatto che le manovre pro-cicliche in fasi negative rischiano di deteriorare ulteriormente il quadro economico[20]. Resta poi il vero punto cruciale: la definizione e il calcolo degli Omt differenziati.

Tralasciando i particolari più strettamente tecnici[21], il Codice di condotta ha definito l’Omt specifico di ogni Paese membro come il più elevato di tre valori alternativi:

  • Omtmb [mb sta per Minimum Benchmark]: è il valore del saldo netto di bilancio strutturale che garantisce il rispetto della soglia nominale del 3% in condizioni di ciclo economico normale;
  • Omteuro/erm2 [euro/erm2 sta per Paesi Eurozona e Paesi aderenti ERM 2]: è il valore dell’indebitamento strutturale che i Paesi della zona euro e quelli membri dell’ERM 2 si sono obbligati a raggiungere, ovvero -1% del Pil (vedi supra);
  • Omtild [ild sta per Implicit Liabilities Debt]: è il valore minimo del saldo di bilancio strutturale che assicura la sostenibilità delle finanze pubbliche, o comunque il rapido avvicinamento ad essa, tenuto conto del debito pubblico e delle passività implicite collegate all’invecchiamento della popolazione[22].

Il valore dell’Omteuro/erm2, comune a tutti i Paesi, è un termine fisso; gli altri due Omt costituiscono le variabili differenziate in modo specifico per ogni singolo Paese. Questi ultimi vengono determinati e aggiornati sulla base delle stime che la Commissione europea pubblica ogni tre anni, in particolare in occasione del Rapporto sull’invecchiamento (Ageing report). Il Paese membro è tenuto, dunque, ad adottare e indicare nel Programma di stabilità/convergenza il proprio Omt, che non può essere inferiore al più ambizioso dei tre valori[23]; ha facoltà ovviamente di optare per un valore ancor più ambizioso. Dal 2005, nel Programma di stabilità e crescita, l’Italia ha sempre indicato il valore 0,0% come proprio Obiettivo di medio termine, ha scelto cioè il pareggio di bilancio in termini strutturali[24].

Bastano questi pochi elementi a dimostrare che dal 2005 gli Omt, ancorché differenziati, hanno subìto una complicata articolazione, su cui gravano, per un verso, complessi calcoli econometrici, per l’altro, scelte politiche fatte passare per dettami tecnici[25]. Il risultato è un armamentario tecnico estremamente sofisticato, giuridico ed economico insieme, che risulta oscuro e sfuggente per l’opinione pubblica:

Il Mto è una sorta di araba fenice dai contorni sfumati. Tutti sono impegnati a cercarla e, una volta trovata, a non perderla; ma non si sa bene cosa sia, avvolta in un’eterea nebbia di stime composite e ambivalenti. La regola «stupida» del 3 per cento è divenuta anche molto confusa e indeterminata[26].

In realtà, una volta rimasti intangibili i limiti numerici posti da Maastricht e confermati dal primo PSC, l’obiettivo vero e proprio  della riforma del 2005 ‒ dichiarato peraltro apertis verbis ‒ è solo ed esclusivamente la maggiore efficacia delle regole[27]. A ciò probabilmente non dovettero essere estranee le serie preoccupazioni circa i rischi di un PSC depotenziato dalla riforma, espresse, all’indomani della Relazione ECOFIN, dalla dichiarazione del Consiglio direttivo della Bce, cui seguirono (3 giugno 2005) due pareri specifici sulle modifiche ai regolamenti, nel secondo dei quali si perora la necessità che la Procedura per disavanzo eccessivo resti rigida nella tempistica, credibile ed efficace[28].

A dispetto del perseguimento di regole più efficaci, il pilastro degli Omt differenziati mostra evidenti crepe proprio nel saldo strutturale di bilancio, una nozione econometrica che, come vedremo più avanti, ha incontrato, e incontra, fondate riserve e obiezioni nella comunità scientifica, in ragione dei molti elementi discrezionali, quando non aleatori, che essa presenta.

  • Gli sviluppi dopo la crisi: il Six Pack

Il Patto di Stabilità così rivisto non fece in tempo ad andare a normale regime che nel 2008 l’Europa veniva investita dalla grave crisi finanziaria nata oltreoceano. Molte economie dei Paesi UE entrano in una prolungata spirale recessiva. Eppure, di fronte a Paesi euro del Sud che vedono messa a repentaglio dagli attacchi speculativi la possibilità stessa del servizio del debito, che subiscono un pesante impatto sulla produttività e competitività, e che scontano i duraturi effetti negativi della crisi sui fondamentali macroeconomici con il progressivo deterioramento delle prospettive di crescita, si resta ancorati con ostinazione a principi e regole del Patto. L’eccezionalità della crisi avrebbe legittimato ragionevoli deroghe temporanee, o consigliato almeno di tentare politiche economiche sia pur moderatamente alternative. Invece, non solo i vincoli di Maastricht su deficit e debito pubblico restano come scolpiti nella pietra, ma anzi si rafforza sempre più l’idea secondo cui il contrasto alla crisi va perseguito anzitutto tramite il rigore delle finanze pubbliche, e alla cui luce possono leggersi gran parte degli inasprimenti normativi e procedurali successivi.

Se l’assioma è che la crisi ha provocato nei Paesi UE “indisciplinati” gravi squilibri macroeconomici e finanziari che hanno rischiato di contagiare anche i Paesi “virtuosi”, allora l’interesse euronitario alla stabilità economica e finanziaria va tutelato esigendo maggiore disciplina di bilancio e rinforzando i meccanismi di coordinamento e di controllo multilaterale[29].

Nel 2011, in piena tempesta economica, viene perciò varata la terza revisione del PSC, meglio noto come Six Pack, costituito da una direttiva e ben cinque regolamenti[30].

Per la questione qui in parola, il Six Pack non fa registrare novità significative[31], nella misura in cui il saldo strutturale resta uno dei principali riferimenti per valutare la corretta gestione dei bilanci pubblici, fissare l’Omt cui vincolarsi, determinare l’entità degli aggiustamenti a correzione dei deficit eccessivi. Merita tuttavia enucleare alcune disposizioni introdotte, paradigmatiche dell’ulteriore restringimento della “sovranità economica” degli Stati membri.

Il considerando 1 della Direttiva pone l’accento sul fatto che gli insegnamenti tratti dal primo decennio di UEM e le nuove sfide imposte dalla crisi economica esigono nuove politiche di bilancio nell’Unione: vi è dunque «la necessità di rafforzare la titolarità nazionale e di disporre di requisiti uniformi per quanto riguarda le regole e le procedure inerenti ai quadri di bilancio degli Stati membri». È piuttosto sorprendente come la titolarità nazionale venga oramai declinata disinvoltamente nella fattispecie dell’uniformità di regole e procedure. È come dire che il lato attivo della titolarità degli Stati in materia di bilancio consista nell’adottare quadri normativi che ne riducano gli ambiti stessi di titolarità: siamo francamente sul filo dell’ossimoro giuridico.

Così ne consegue, ad esempio, che nello schema del framework di bilancio, cui la Direttiva chiede di conformare le legislazioni nazionali, spicchi l’inserimento di regole numeriche che promuovano l’effettiva osservanza degli obblighi derivanti dal TFUE, inerenti sia al rispetto dei valori di riferimento per disavanzo e debito, sia al rispetto dell’Omt fissato in un orizzonte di programmazione pluriennale (art. 5). Ma il rigorismo è spinto ancora più oltre: alle regole recepite negli ordinamenti nazionali viene demandato altresì di disporre che il controllo sull’osservanza delle regole stesse si basi «su un’analisi affidabile e indipendente, eseguita da organismi indipendenti od organismi dotati di autonomia funzionale rispetto alle autorità di bilancio degli Stati membri»[32]. Al decisore politico nazionale, insomma, viene richiesto di adottare provvedimenti legislativi autolimitanti, tali da porre il proprio operato di bilancio sotto tutela di organismi la cui affidabilità e indipendenza viene evidentemente presunta in forza della meccanica assunzione di regole (iper)tecniche, e dunque con il crisma dell’esattezza e imparzialità. Per contro, la decisione politica, se non vincolata da regole siffatte, risulta declassata a scelta potenzialmente inaffidabile, perché troppo cedevole al moral hazard; lo dimostrerebbero i ritardi e le inadempienze nel risanamento dei conti pubblici da parte di alcuni Stati membri: comportamenti incauti, affiorati fatalmente alla prova della crisi, che denoterebbero la sottovalutazione dei danni riflessi sulle economie dei Paesi con finanze sane, complici le maglie normative lasciate larghe dal PSC del 2005[33].

L’attenzione, pertanto, si focalizza in prima istanza sul braccio preventivo del PSC (Regolamento (CE) n. 1466/97): il Regolamento (UE) n. 1175/2011 (in particolare, artt. 5 e 6) introduce una specifica regola sulla spesa. Si tratta di un limite all’incremento di spesa pubblica (expenditure benchmark), diretto a rafforzare il conseguimento dell’Omt. Alla base vi è una diagnosi economica con duplice valenza rispetto al PSC vigente: la mala gestio pre-crisi nella spesa pubblica e un difetto econometrico palesatosi post-crisi. Dal combinato disposto sarebbero scaturiti i più pesanti contraccolpi della crisi su alcuni Paesi.

Come infatti si è visto, attuare il consolidamento delle finanze pubbliche in periodi di congiuntura favorevole, per avere margini espansivi nelle congiunture sfavorevoli, costituiva un principio cardine del PSC riformato. Di conseguenza, l’avvicinamento all’Omt da realizzare nel corso del ciclo, prevedeva uno sforzo maggiore di politica fiscale nella fase favorevole, uno più limitato in quella avversa[34]. La responsabilità soggettiva di alcuni Stati membri era consistita nel disattendere tale principio, con un eccesso, anziché un contenimento, di spesa nel periodo di crescita ante crisi[35]. Un’attenuante, tuttavia, era il non aver concepito nel PSC del 2005 un criterio guida, fondato sulla rilevazione certa dei flussi di entrata e di spesa, in grado di indirizzare in tempo reale le scelte di politica fiscale degli Stati, dato che l’equilibrio strutturale di bilancio è strumento efficace ma basato su dati non osservabili e ricavati con tecniche statistiche[36].

Il nuovo Codice di condotta del 2012 fornisce le indicazioni operative per l’applicazione della regola sulla spesa[37]. La valutazione di Commissione e Consiglio UE circa i progressi verso l’Omt dovrà tener conto anche dell’evoluzione temporale della spesa pubblica. Il limite alla crescita della spesa (expenditure benchmark) viene fissato da ciascun Paese in rapporto al tasso di crescita di medio periodo del Pil potenziale. Quest’ultimo valore, determinato e reso noto dalla Commissione, è calcolato su una media di dieci anni: stime dei 5 esercizi precedenti e di quello corrente, proiezioni dei 4 successivi. L’applicazione della regola deve essere meno o più severa, secondo che sia stato o non sia stato raggiunto l’Omt. Nel primo caso, il Paese può attenersi a una gestione prudente con il tasso di crescita della spesa non superiore al tasso di riferimento a medio termine del Pil potenziale. Nel secondo caso, in parallelo all’aggiustamento annuale del bilancio in termini strutturali dello 0,5% del Pil, il Paese deve prevedere un tasso d’incremento di spesa tale da migliorare  il saldo strutturale comunque dello 0,5% del Pil. Per fare ciò, la crescita dell’aggregato di spesa deve essere ridotto rispetto al tasso a medio termine del Pil potenziale di un ammontare stimato dalla Commissione (shortfall). L’expenditure benchmark imporrà pertanto una soglia di variazione della spesa pubblica non già in linea con la crescita del Pil potenziale, bensì inferiore al tasso di quest’ultima.

Va detto che la regola sulla spesa fu originata anche dalla constatazione dell’effetto distorsivo che, secondo evidenze scientifiche, le entrate straordinarie (windfall revenues) avevano prodotto sui conti pubblici di alcuni Paesi negli anni a cavallo della crisi. Si ricorderà, infatti, che nella prospettazione del PSC del 2005 proprio le entrate  supplementari inattese sarebbero dovute essere opportunamente impiegate per il risanamento di bilancio (disavanzo e debito).

Per definizione, queste sono entrate eccedenti il gettito fiscale previsto, che derivano da provvedimenti legislativi a carattere permanente ma che seguono l’andamento del ciclo economico: un extra-gettito da congiuntura favorevole dovuto all’aumento della base imponibile, ancorché non prevedibile sulla base dei dati macroeconomici disponibili[38]. Il rischio delle entrate straordinarie è però quello di incentivare i governi a politiche fiscali pro-cicliche durante le fasi espansive, con aumenti di spesa non più sostenibili allorché le entrate si riducono nella successiva fase discendente[39]. Lo comproverebbero le notevoli oscillazioni nelle entrate fiscali di Spagna e Irlanda fra prima e subito dopo la crisi del 2008[40].

A questo quadro normativo, già irrigidito in regole numeriche e procedurali, si va ad aggiungere l’altrettanto rigida definizione delle entrate fiscali straordinarie. Del resto, ― si tenga presente ― anche il calcolo del saldo strutturale, ovvero aggiustato per il ciclo e al netto delle misure una tantum e temporanee, aveva richiesto pari esercizio classificatorio appunto per le entrate temporanee. Il Codice di Condotta le definisce come «measures having a transitory budgetary effect that does not lead to a sustained change in the intertemporal budgetary position»[41], fornendo anche esempi concreti; la Commissione interverrà a più riprese per tipizzarle meglio, ma il tenore resta meramente indicativo[42].

L’impegno speso a caratterizzare e distinguere esattamente la fattispecie delle entrate straordinarie (windfall revenues) e quella delle una tantum e temporanee (one-off and temporaries revenues) risponde dunque alla medesima logica: restringere i margini di autonomia decisionale al legislatore nazionale. Le misure temporanee – le uscite ma, più comunemente, le entrate – vengono escluse dalle azioni volte alla sostenibilità di bilancio per il sol fatto che hanno effetti sulle finanze pubbliche limitati nel tempo, quand’anche esse discendano da provvedimenti a carattere non discrezionale. Quanto poi alle entrate straordinarie, esse, nella sostanza, vengono sottratte alla disponibilità dei governi, che pur avendole concepite in un quadro di politica economica e normate in senso duraturo, sono tuttavia obbligati a destinarle al risanamento dei conti pubblici. Restano le entrate collegate a misure discrezionali come unico strumento per un incremento di spesa pubblica oltre la soglia imposta dalla regola[43]. Il che equivale a connotare vieppiù la normativa comunitaria di austerità neoliberista, con buona pace di chi invece vede comunque salva l’autonomia di governo anche nella regola sulla spesa: «It is not aimed at constraining the size of the government, as it explicitly allows for a discretionary revenue offset »[44].

Anche il braccio correttivo del PSC viene rivisto tramite il Regolamento (UE) n. 1177/2011, che modifica il Regolamento (CE) n. 1467/97, introducendo, in primo luogo, un’ulteriore regola riguardante specificamente il debito pubblico: «[…], si considera che il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo (PIL) si stia riducendo in misura sufficiente e si avvicini al valore di riferimento con un ritmo adeguato […], se il differenziale rispetto a tale valore è diminuito negli ultimi tre anni ad un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento, […]» (par. 1 bis, comma 1). Il requisito del criterio del debito risulterà egualmente soddisfatto anche nel caso in cui dalle proiezioni di bilancio della Commissione emerga che la riduzione necessaria del differenziale si compirà a partire dall’anno in corso e per i due anni successivi (comma 2).

Da Maastricht in poi, il debito pubblico in effetti era rimasto alquanto in ombra, nel senso che i PSC non avevano modificato né integrato le disposizioni originarie. Si era fermi al dettato dell’art. 104 C (TUE) – poi art. 126 TFUE – par. 2, lettera b), nonché all’allegato Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, a tenor dei quali si disponeva che il rapporto debito/Pil non superasse il 60% e, in caso di superamento, si avviasse una riduzione sufficiente con un avvicinamento a ritmo adeguato al valore di riferimento.

Mentre con la riforma del 2005, rispetto all’indebitamento, era stata fissata l’entità dell’aggiustamento annuale da realizzare nel medio termine triennale, il debito eccessivo era invece soggetto ad un mero obbligo “generico” di riduzione sufficiente a ritmo adeguato. Con il Six Pack ora si provvede a quantificare la riduzione, retrospettiva o proiettiva, di medio termine: 1/20 all’anno della parte eccedente il 60% del rapporto debito/Pil. Come per il deficit, anche la regola sul debito contempla l’andamento del ciclo economico: «Nell’applicazione del parametro di riferimento relativo all’adeguamento del rapporto debito/PIL si tiene conto dell’influenza del ciclo sul ritmo di riduzione del debito» (par. 1 bis, comma 3). Nelle fasi avverse, il rapporto debito/Pil, aggiustato per il ciclo, risulterà inferiore rispetto a quello effettivo, il che consentirà un impegno minore di riduzione del debito; nelle fasi favorevoli, però, contrariamente a quanto prescritto per l’indebitamento, non viene richiesto alcuno sforzo supplementare di riduzione del debito, giacché non si applicano gli aggiustamenti positivi dovuti alla congiuntura[45].

Perché si possa ravvisare la violazione della regola sul debito, è necessario che il Paese membro non ottemperi a nessuna delle tre condizioni: 1) adeguata riduzione retrospettiva; 2) adeguata riduzione proiettiva; 3) inadeguata riduzione imputabile agli effetti del ciclo. In tal caso, la Commissione redige un rapporto, onde raccomandare al Consiglio europeo l’apertura di una procedura per disavanzo eccessivo (EDP) – nominalmente identica a quella per l’indebitamento, ma riguardante il debito pubblico – non senza aver prima valutato, oltre al mero sforamento del benchmark numerico, anche svariati altri fattori qualitativi giudicati rilevanti[46]. Se a ciò si aggiunge che per i Paesi che, alla data di adozione del regolamento (8 novembre 2011), risultavano sottoposti a procedura per deficit eccessivo, è stato previsto un periodo transitorio di tre anni, a decorrere dalla correzione del deficit, nel corso dei quali vigono vincoli e limiti numerici ad hoc sull’aggiustamento strutturale, si può ben cogliere la non semplice applicabilità della nuova regola sul debito[47].

Parametri numerici, proiezioni statistiche, variabili macroeconomiche di finanza pubblica, fattori qualitativi costituiscono il complicato strumentario tecnico predisposto per regolamentare il contenimento dei debiti pubblici; magna pars del governo del debito sovrano viene così sottratta alla discrezionalità della politica economica nazionale e trasferita in capo alla Commissione europea, alla quale sono demandati la gestione e il controllo del sofisticato meccanismo, la cui complessità non elimina certo le valutazioni discrezionali, bensì le trasla solo in ambito tecnocratico.

Oltre a modificare i due regolamenti che, già dal primo PSC, costituivano i rispettivi ancoraggi normativi del braccio preventivo e di quello correttivo, il Six Pack introduce un nuovo regolamento che «stabilisce disposizioni dettagliate volte ad individuare gli squilibri macroeconomici e a prevenire e correggere gli squilibri macroeconomici eccessivi all’interno dell’Unione»[48]. La gravità della crisi convince il legislatore europeo della necessità di varare una procedura specifica (Macroeconomic Imbalances Procedure, MIP), che monitori le tendenze macroeconomiche capaci di squilibrare l’economia di singoli Paesi o dell’intera UE, e che soprattutto contrasti gli squilibri gravi, segnatamente quelli che mettono a rischio il corretto funzionamento dell’Unione e economica e monetaria (art. 2). Viene perciò concepito un meccanismo analogo a quello per la sorveglianza delle posizioni di bilancio, strutturato cioè in azione preventiva e correttiva. Ai fini di tale valutazione, il Regolamento dispone che venga approntato un quadro di riferimento (scoreboard) contenente un numero limitato di indicatori macro «pertinenti, pratici, semplici, misurabili e disponibili», tali da consentire la rapida individuazione degli squilibri  insorgenti a breve termine, dovuti a fattori strutturali e di lungo termine (art. 4). Il quadro di valutazione si è poi concretizzato in un’ennesima lista operativa comprendente ben 10 – poi diventati 11 – indicatori di squilibrio[49], interni ed esterni, del settore pubblico e privato[50].

In tutte le fasi della procedura, il ruolo centrale spetta ancora alla Commissione: 1) presenta una relazione annuale (Alert Mechanism Report), che include il quadro aggiornato degli indicatori di squilibrio con le relative soglie di allerta, un’analisi economica, la lista degli Stati a rischio di squilibrio macroeconomico e richiedenti un esame più approfondito; 2) a seguito di una valutazione globale del Report da parte del Consiglio o dell’Eurogruppo (Stati della zona euro), esamina approfonditamente la situazione macroeconomica di ogni Stato membro; 3) sollecita il Consiglio a rivolgere opportune raccomandazioni allo Stato che presenti squilibri (misure preventive); 5) sollecita il Consiglio ad avviare la procedura avverso lo Stato con squilibrio eccessivo e a raccomandare l’adozione di misure correttive; 6) relaziona al Consiglio circa l’adeguatezza o meno del piano d’azione correttivo presentato dallo Stato soggetto a procedura; 7) vigila sulla corretta attuazione delle misure correttive e ne valuta l’avvenuta adozione; 8) raccomanda al Consiglio la decisione che stabilisce l’inadempimento ovvero l’abrogazione delle raccomandazioni formulate.

L’ampio potere istruttorio conferito alla Commissione prevede anche che essa effettui missioni ricognitive o ispettive nei Paesi membri; qualora lo Stato interessato sia dell’Eurozona o aderente all’ERM 2, la Commissione ha facoltà di coinvolgere nella missione in loco rappresentanti della Bce (art. 13). L’istituzione della missione rientra esplicitamente in un progetto di sorveglianza che, nel caso di specie, si vuole rafforzata rispetto a quella concepita per le posizioni di bilancio. Una procedura a tal punto rinforzata da concedere alla Commissione piena discrezionalità, una volta relazionato al Consiglio, se rendere pubblico o meno l’esito dell’ispezione in Paesi destinatari di raccomandazioni per squilibrio eccessivo (art. 13, par. 4). La preminenza goduta dalla Commissione si completa infine, sul piano formale, con il criterio di voto prescelto per sancire la sussistenza di squilibrio eccessivo, in forza del quale la decisione a carico di un Paese adottata dalla Commissione si considera del pari adottata dal Consiglio se esso, entro dieci giorni, non respinge la raccomandazione a maggioranza qualificata.

Si tratta di un’altra importante novità della riforma della governance economica europea del 2011, ossia l’introduzione del principio della votazione a maggioranza inversa (reverse majority voting, RMV), semplice o qualificata. Mentre, nell’ambito del PSC, per le deliberazioni del Consiglio dell’Unione vige la maggioranza qualificata (QMV) “diretta”, il Six Pack non casualmente prescrive, proprio per l’irrogazione di sanzioni da parte del Consiglio, l’inversione del meccanismo di voto in favore, con tutta evidenza, degli atti decisionali assunti dalla Commissione.

Del resto, si noti che all’interno del Six Pack il sistema sanzionatorio acquisisce particolare rilevanza: i primi due dei cinque Regolamenti, da applicarsi ai soli Paesi della zona euro, sono specificamente destinati a normare fattispecie, procedura ed ammontare delle sanzioni, tanto in relazione al rispetto della parte preventiva e correttiva del PSC (n. 1173/2011), quanto in rapporto alla correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi (n. 1174/2011)[51].

Il quadro complessivo della riforma del 2011 ci restituisce un PSC temperato in taluni aspetti – pochi –, in molti altri inasprito e più complesso. Anche infatti a voler trascurare l’inserimento delle nuove regole suesposte, non può non constatarsi che nel novellato braccio preventivo stesso (n. 1175/2011) l’irrigidimento procedurale e di merito sopravanza l’ammorbidimento.

Sul punto, sono senz’altro condivisibili le osservazioni di Landi. È vero – rileva Landi – che il Regolamento n. 1175/2011 consente uno scostamento dall’Omt o dal percorso di avvicinamento programmati in tre casi, ossia riforme strutturali, eventi eccezionali, “clausola degli investimenti”; ma resta il fatto che tali deroghe sono ammesse sempre entro limiti ben fissati. Le riforme strutturali (in particolare, del sistema pensionistico) devono infatti avere impatto positivo sui conti pubblici; la deviazione, imputabile ad eventi eccezionali (peraltro, già svincolati da parametri numerici nel precedente PSC), è subordinata alla temporaneità e alla sostenibilità delle finanze pubbliche nel medio periodo. Quanto poi ai margini concessi per gli investimenti pubblici, soggetti comunque ai valori nominali di bilancio, in concreto «si tratta di un ammorbidimento dell’ortodossia, molto limitato e inficiato dalle numerose condizionalità applicate»[52].

Ben più diretta e manifesta, invece, è la forza limitativa introdotta con l’istituto della deviazione significativa dall’Omt o dal percorso di aggiustamento verso l’Omt, di cui al novellato art. 6. Nel contesto della sorveglianza preventiva, si dispone che la Commissione valuti i Programmi di Stabilità presentati annualmente dagli Stati membri «[…] allo scopo di individuare scostamenti sensibili, in atto o prevedibili, del saldo di bilancio rispetto all’obiettivo a medio termine o al percorso appropriato di avvicinamento a tale obiettivo» (par. 1). La valutazione viene dunque effettuata sia ex ante (anno corrente e seguenti), sia ex post (anno precedente). La deviazione è considerata significativa,  qualora il saldo strutturale di bilancio risulti scostato almeno dello 0,5% del Pil in un anno o almeno dello 0,25% del Pil in media annua per due anni consecutivi, e l’impatto della spesa pubblica sul saldo sia almeno dello 0,5% del Pil in un anno o cumulativamente in due consecutivi.

All’esito di un accertamento ex post di deviazione significativa, si attiva una procedura molto complessa, che si articola in diverse fasi, ciascuna caratterizzata da un criterio di votazione (maggioranza qualificata, inversa qualificata, inversa semplice), e che vede ancora la Commissione dare impulso alle deliberazioni del Consiglio. Inoltre, per i Paesi della zona euro, la procedura può culminare con una decisione del Consiglio che sancisca l’inadempimento e l’irrogazione cautelativa allo Stato inadempiente di un deposito fruttifero pari allo 0,2% del Pil. Si badi bene che – come nota Landi − siamo in sede preventiva e non già in quella correttiva, in una fase cioè antecedente all’eventuale sforamento del limite di bilancio e della conseguente Procedura per disavanzo eccessivo previsti da Maastricht. Il che significa aver introdotto il principio non irrilevante secondo cui uno Stato membro può essere sanzionato anche senza il superamento del 3% del saldo nominale di bilancio in rapporto al Pil[53]. Come di certo non irrilevante è la nuova facoltà, accordata alla Commissione, di condurre, anche riguardo alla deviazione significativa, missioni di sorveglianza, esplorative o rafforzate, suscettibili analogamente di riservatezza circa i risultati, e di coinvolgimento, nel caso dell’Eurozona, di rappresentanti della Bce (art. 11).

In definitiva, se l’Unione europea nel 2011 cercava una risposta alla crisi finanziaria in termini di rigore, la riforma dell’ordinamento prodotta dal Six Pack la fornì, e oltremodo incisiva. La governance europea dell’economia, come sopra si è sommariamente illustrato, ne esce gravida di un complesso e rigido sistema normativo, fatto di regole nuove o novellate, vincoli procedurali rafforzati, parametri numerici ampliati e aggiornati. Tuttavia, di là da ciò, il dato politico che emerge con nettezza è che la sorveglianza sulle posizioni di bilancio e il coordinamento delle politiche economiche sono demandati in misura sempre più ampia all’autorità della Commissione, qualificandosi in senso sempre più accentrato e tecnocrate. La Commissione europea accresce il proprio potere grazie a un’attribuzione di funzioni plurime e multilivello: elaborazione di nozioni, criteri e valori di riferimento macroeconomici e di finanza pubblica, indicazione dei requisiti e delle tecniche econometriche e statistiche, valutazione dei Programmi di Stabilità/Convergenza e dei Programmi nazionali di riforma, monitoraggio e sorveglianza della corretta attuazione di tali programmi, impulso al Consiglio UE per l’adozione di raccomandazioni, di procedure per disavanzo o squilibri eccessivi, conduzione di missioni in loco.

Ma vi è di più. Alla stessa stregua può infatti considerarsi l’introduzione del Semestre europeo, l’ultima ma non meno significativa innovazione disposta dal Regolamento n. 1175/2011 (art. 2-bis), che ha senz’altro concorso all’ampliamento dei poteri della Commissione, ponendola sullo stesso piano del Consiglio nell’esercizio della sorveglianza multilaterale, e superando di fatto lo schema consolidato «la Commissione propone il Consiglio decide»[54]. Come è noto, il Semestre europeo è un ciclo di procedure di durata semestrale che cade nella prima metà di ciascun esercizio di bilancio ed è volto a coordinare e sorvegliare preventivamente le politiche economiche programmate dai Paesi UE per l’anno successivo: novembre – la Commissione adotta l’Analisi annuale della crescita contenente le priorità macroeconomiche per l’anno successivo (politiche economiche e di bilancio, riforme per la crescita e l’occupazione); marzo – sulla base dell’Analisi annuale adottata dalla Commissione, il Consiglio europeo definisce le linee guida per le politiche nazionali; aprile – gli Stati membri presentano i Programmi di Stabilità/Convergenza e i Programmi nazionali di riforma; giugno – esaminati i Pds e i Pnr, la Commissione formula le raccomandazioni, il Consiglio europeo le adotta.

Nel predisporre le politiche economiche e di bilancio e le riforme strutturali, lo Stato membro deve tenere in debito conto le indicazioni del Consiglio e sottoporsi al costante monitoraggio della Commissione, ivi compresa l’eventuale missione rafforzata di cui sopra. In caso d’inadempimento, alle raccomandazioni ulteriori può seguire un avvertimento della Commissione e, per i Paesi dell’Eurozona, le sanzioni preventive di cui sempre al Regolamento n. 1173/2011[55].

Semestre europeo, votazione a maggioranza inversa, sanzioni semi-automatiche e preventive, missioni di sorveglianza costituiscono il corredo tecnico in forza del quale la Commissione assorbe quote non trascurabili proprie della politica e si affianca pari potestate al Consiglio europeo, organo istituzionalmente deputato all’orientamento politico-strategico. Sicché non mi parrebbe affatto improprio generalizzare il seguente giudizio, pur riferito nello specifico al procedimento per la sanzione del deposito fruttifero pari al 2% del Pil:

In sintesi si accorda un certo favor alla Commissione rispetto al Consiglio, che sarebbe da cogliere positivamente pensando alla contrapposizione tra interesse europeo (generale) e interesse degli Stati (particolare); un po’ meno se la contrapposizione è tra organo tecnico, «neutrale», e organo «politico», rappresentante di presunti interessi compromissori[56].

 

Il risultato è una oggettiva compressione della dialettica democratica. Se, da un lato, si legittima che alle missioni in area euro prenda parte un’istituzione tecnica, priva d’investitura democratica e di titolarità politica, quale la Bce[57], dall’altro, il Parlamento resta confinato nella residualità della funzione consultiva. Per quanto nel Six Pack si dia molto risalto all’inserimento del Dialogo economico, un’innovazione tesa, nelle intenzioni, ad intensificare e garantire la dialettica, la responsabilità e la trasparenza fra le istituzioni UE, in particolare fra il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione, concretamente il Parlamento acquisisce la mera facoltà d’invitare i vertici delle altre istituzioni a comunicare e discutere, davanti alla propria commissione competente, le determinazioni e provvedimenti assunti; in più, può offrire uno scambio di opinioni allo Stato membro destinatario di raccomandazioni. Parva materia per un’autentica condivisione democratica eurounitaria.

  • Il Fiscal compact e il Two Pack

Il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (TSCG), meglio noto come Fiscal Compact, entra in vigore il 1° gennaio 2013. Come si è detto, il Fiscal Compact è un trattato intergovernativo extra-UE che vincola, previa ratifica dei Parlamenti nazionali, tutti gli Stati dell’Eurozona, sia quelli la cui moneta era l’euro all’entrata in vigore del Trattato, sia quelli che adotteranno la valuta in seguito. Ogni altro Paese membro Ue che non sia parte contraente, può nondimeno aderire al Trattato in ogni momento depositando lo strumento di adesione, che necessita dell’autenticazione delle parti contraenti.

Ad oggi, il Trattato è stato sottoscritto da 26 degli attuali 27 Paesi membri Ue: il Regno Unito non lo ha mai firmato, la Repubblica ceca lo ha adottato e ratificato soltanto nel 2014, mentre la Croazia, entrata a far parte dell’Ue il 1° luglio 2013, non l’ha ancora sottoscritto.

Il Fiscal Compact ribadisce in premessa che per la stabilità dell’intera Eurozona è fondamentale che i singoli governi mantengano finanze pubbliche sane e sostenibili ed evitino disavanzi eccessivi; si ravvisa perciò la necessità d’introdurre una specifica “regola del pareggio di bilancio” e un meccanismo automatico di misure correttive.

Qui “pareggio di bilancio” è una mera formulazione sintetica, che ripropone solo terminologicamente l’originaria prescrizione secca (I PSC 1997) di raggiungere a medio termine un saldo di bilancio vicino al pareggio o positivo. La lettera del testo ci chiarisce che la locuzione va intesa estensivamente in termini di saldo strutturale, e che dunque assorbe in sé l’evoluzione normativa in materia di Omt, intervenuta dal 2005 con il PSC rivisto:

 

la regola di cui alla lettera a) [scil. posizione di bilancio in pareggio o in avanzo] si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato. […]. (art. 3, par 1, lettera b)

L’elemento di novità della nuova regola sul pareggio di bilancio consiste quindi nel fissare allo 0,5% del Pil il limite inferiore al disavanzo strutturale. Rispetto al PSC riformato, resta immutato il criterio che impone di scegliere un valore non al di sotto del più ambizioso fra i tre possibili Omt, ma viene innalzato da -1% a -0,5% il riferimento inferiore e resa più stretta la forbice delle opzioni. In altri termini, è consentito programmare un disavanzo strutturale al più pari allo 0,5% del Pil, invece del precedente -1%, e sempre che questo valore sia il più alto rispetto a quelli calcolati negli altri due Omt, che altrimenti vincolano alla scelta più ambiziosa[58].

Ciò nondimeno, il Patto fiscale consente maggiore flessibilità a quei Paesi che abbiano un debito pubblico significativamente inferiore al 60% del Pil, per i quali il limite inferiore al disavanzo strutturale rimane dell’1%; analogamente, per tutti gli Stati membri, restano invariati gli sforamenti previsti in circostanze eccezionali[59].

Orbene, nessun significativo cambiamento di merito, ma semplici specificazioni e aggiustamenti quantitativi: anche il PSC del 2005 subordinava infatti i margini di divergenza dal saldo in pareggio o in attivo al rapporto debito/Pil, sia pur senza quantificarlo[60]. A seguito della crisi, invece, accade che l’accento posto dal Six Pack sul debito pubblico si riverbera nel Fiscal compact, e così l’intervallo per il disavanzo strutturale viene agganciato al discrimine numerico del 60% del rapporto debito/Pil.

Prova ulteriore di tale accentuazione è che la regola stessa sul debito dal Regolamento (UE) n. 1177/2011 refluisce nel Fiscal compact, con il disposto che lo Stato contraente con un debito pubblico superiore al 60% del Pil s’impegna a ridurre in media di 1/20 all’anno la parte eccedente (art. 4). Inoltre, ai sensi dell’art. 6, «le parti contraenti comunicano ex ante al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea i rispettivi piani di emissione del debito pubblico».

Quanto allo spirito, può dirsi che la regola del pareggio recepisce e consolida alcuni capisaldi del Six Pack, fra cui il rafforzamento dei vincoli numerici, l’accurato controllo preventivo sulle politiche di bilancio nazionali, il maggior rigore degli obblighi correttivi. Anzi, su quest’ultimo punto, il Fiscal compact fa registrare addirittura un irrigidimento rispetto al terzo PSC, il che costituisce nei fatti il mutamento più sostanziale .

In presenza di deviazione significativa dall’Omt o dall’avvicinamento ad esso, si attiva un meccanismo automatico di correzione, che include l’obbligo di realizzare in un tempo definito le misure correttive del caso (art. 3, par 1, lettera e). In più, viene sancito l’impegno da parte dei Paesi euro contraenti «a sostenere le proposte o le raccomandazioni presentate dalla Commissione europea», nel caso in cui essa, nell’ambito della procedura per disavanzi eccessivi, ravvisi una violazione dei parametri del deficit, a meno che la maggioranza qualificata di tali Paesi, escluso quello interessato, non voti in senso contrario (art. 7). Come si nota, è il criterio della deliberazione a maggioranza inversa qualificata, varato nel Six Pack per regolamentare alcune decisioni del Consiglio su impulso della Commissione, che ora viene traslato nel rapporto fra i Paesi euro sottoscrittori del Patto e la Commissione, con il conseguente favor per quest’ultima, poc’anzi evidenziato.

Altrettanto degne di nota, infine, sono le disposizioni relative alla recezione delle regole nel diritto nazionale degli Stati contraenti. Entro un anno dalla vigenza del Trattato, ― già vi si è accennato e più avanti si tornerà ― gli ordinamenti nazionali devono adottare le prescrizioni di bilancio del Fiscal compact tramite norme stabili, preferibilmente di rango costituzionale. L’obbligo riguarda anche l’istituzione al livello nazionale tanto del meccanismo di correzione per le deviazioni significative, secondo gli indirizzi comuni della Commissione, quanto degli organismi indipendenti preposti al controllo dell’osservanza delle regole (art. 3, par. 2).

Qualora nella relazione predisposta dalla Commissione per ciascuno Stato aderente si concluda che una parte contraente non ha ottemperato a quanto disposto dall’art. 3, par. 2, sarà adita la Corte di giustizia europea da una o più parti contraenti, le quali hanno facoltà di ricorrervi anche sulla base di un autonomo convincimento, al di là delle conclusioni della Commissione (art. 8, par 1). Se per valutazione propria o della Commissione uno Stato sottoscrittore ravvisa che la parte contraente, giudicata inadempiente dalla Corte di giustizia, non abbia dato esecuzione ai provvedimenti entro i termini stabiliti in pronuncia, può adirla nuovamente e chiedere l’irrogazione di sanzioni finanziarie, che possono arrivare fino allo 0,1% del Pil (par. 2).

Per concludere, solo qualche breve cenno al Two Pack: esso consta di due atti legislativi ― Regolamenti (UE) n. 472/2013 e n. 473/2013 ― destinati ai soli Paesi della zona euro.

Anche il Two Pack può ascriversi a pieno titolo agli interventi normativi di contrasto alla crisi: abbattutasi sull’Europa alla fine del 2008, negli anni successivi ha obbligato alcuni Paesi euro in difficoltà a ricorrere ad assistenza finanziaria esterna, vuoi per evitare la bancarotta, causata dalla grave crisi del debito sovrano (Grecia, Irlanda, Portogallo), vuoi per operare un salvataggio del sistema bancario (Spagna).

Il primo provvedimento intende pertanto rafforzare la sorveglianza economica e di bilancio posta in essere dalle istituzioni europee nei confronti di tutti quei Paesi dell’area euro che presentino serie difficoltà, attuali o prospettiche, di stabilità o sostenibilità delle finanze pubbliche, con potenziali rischi di spillover sull’intera Eurozona, oppure abbiano richiesto o ricevuto qualsivoglia sostegno finanziario esogeno, vale a dire da Stati membri o paesi terzi, Fondo monetario internazionale (Fmi), Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf), Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Mesf), Meccanismo europeo di stabilità (Mes)[61] (art. 1, par. 1).

Nel primo caso, la sorveglianza si applica, e va rinnovata ogni sei mesi, in forza di una decisione ad hoc della Commissione, frutto della valutazione dei parametri di squilibrio macroeconomico, ex Regolamento (UE) n. 1176/2011, e dell’esame di altri indicatori quali, in particolare, la solidità di bilancio e il carico debitorio (art. 2, par. 1). Nel caso dei Paesi che beneficiano di assistenza finanziaria, invece, è automatica (par. 5).

Il meccanismo di sorveglianza rafforzata segue lo schema inaugurato dal Six Pack, ma si ampliano le attribuzioni della Commissione e si istituzionalizzano ruolo e funzione di controllo della cd. Troika[62]: la Commissione sovraintende all’elaborazione, al monitoraggio e all’attuazione delle misure correttive adottate dal Paese in difficoltà, alla Bce, nella sua veste di autorità di vigilanza, è demandata la sorveglianza specifica del sistema finanziario, il Fmi può essere chiamato a fornire consulenza tecnica in taluni passaggi della procedura, ivi compreso il coinvolgimento nelle periodiche missioni di verifica in loco, al fianco di Commissione e Bce. Se dalle missioni di verifica la Commissione ravvisa ancora il permanere di una situazione economica e finanziaria del Paese membro potenzialmente rischiosa per la stabilità della zona euro, può proporre al Consiglio, che si esprime a maggioranza qualificata, di raccomandare ulteriori misure correttive precauzionali o un programma di aggiustamento macroeconomico.

Il regime di controllo è reso più severo per gli Stati che accedono ad aiuti finanziari esterni: l’assistenza fa attivare in automatico la sorveglianza rafforzata e la richiesta finanziaria comporta di per sé che lo Stato richiedente elabori un progetto di programma di aggiustamento macroeconomico, di concerto con la Commissione che, a sua volta, agisce d’intesa con la Bce e, se del caso, con il Fmi (art. 7, par. 1).

Il Paese euro supportato finanziariamente entra così in una sorta di regime speciale, che lo esonera temporaneamente dalle obbligazioni derivanti dall’ordinaria sorveglianza multilaterale (Patto di stabilità e crescita; Meccanismo di Allerta ex Regolamento (UE) n. 1176/2011; Semestre europeo). Il programma di aggiustamento macroeconomico assorbe ed integra le determinazioni già in essere in ottemperanza del PSC ― avvicinamento all’Omt, correzione di eventuale disavanzo eccessivo ―, e va a costituire  in via esclusiva il documento di politica economica e di bilancio attraverso il quale si esplica la “cooperazione forzosa” fra Stato membro in difficoltà e Commissione, coadiuvata dai suoi partners tecnici di vigilanza: esame preliminare, proposta di approvazione, monitoraggio di corretta attuazione, accertamento di deviazioni significative, giudizio d’inadempienza.

A parer di chi scrive, rilevano in particolare due disposizioni a mettere in luce il carattere condizionante e verticista di siffatta concertazione. In primo luogo, nel valutare la sostenibilità del debito pubblico, la Commissione si riserva un largo margine di discrezionalità, nella misura in cui gli elementi valutativi vengono desunti dallo scenario macroeconomico più probabile o più prudente, dalle previsioni di bilancio più aggiornate, dalle relazioni periodiche prescritte allo Stato membro sui risultati delle prove da stress e delle analisi di sensibilità ― condotte sempre secondo le modalità indicate dalla Commissione e dalla Bce ―, ma anche da ogni attività di vigilanza esercitata (art. 6). D’altronde, il Paese soggetto a programma di aggiustamento macroeconomico è tenuto ad un audit completo delle proprie finanze pubbliche, volto a individuare le cause risalenti dell’eccesso di debito nonché a riscontrare possibili irregolarità (art. 7, par. 9).

In secondo luogo, lo Stato che ha beneficiato di aiuti finanziari esterni può continuare ad essere sottoposto a sorveglianza rafforzata finché non abbia rimborsato almeno il 75% dell’ammontare ricevuto; ma non solo. La Commissione ha facoltà di proporre al Consiglio una proroga ulteriore della sorveglianza post-programma, laddove ravveda ancora nello Stato interessato condizioni d’instabilità finanziaria o di non sostenibilità di bilancio. In tal caso, il Consiglio adotta tacitamente la proposta della Commissione, se non la respinge entro dieci giorni, secondo il criterio della deliberazione a maggioranza inversa qualificata. Tale sorveglianza post-programma, protratta oltre l’assolvimento di gran parte degli oneri debitori, non attenua affatto le procedure di controllo, ma le mantiene tutte invariate, fra cui le missioni in loco e le raccomandazioni di nuove misure correttive.

Il testo normativo non lesina certo richiami alla necessità che l’applicazione del regolamento si esplichi nel rispetto dei principi di solidarietà e nella salvaguardia dei fondamentali diritti sociali: ad esempio, si sancisce che occorre tenere in conto l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[63], onde non pregiudicare il diritto di negoziazione collettiva conforme al diritto nazionale (art. 1, par. 4); che il progetto del programma di aggiustamento macroeconomico tenga conto della dinamica salariale e del Programma nazionale di riforma predisposto dallo Stato membro nell’ambito della strategia UE per la crescita e l’occupazione (art. 7, par. 1); che il consolidamento di bilancio assicuri comunque mezzi sufficienti per l’istruzione e l’assistenza sanitaria (art. 7, par. 7); che nella preparazione dei programmi di aggiustamento siano consultate le parti sociali e le organizzazioni della società civile per un consenso sui contenuti (art. 8).

Ebbene, di fronte alla demolizione delle più elementari tutele sociali che la Grecia e, più di recente, l’Irlanda hanno dovuto subire per onorare i piani di rientro finanziari, nei tempi e modi imposti dall’intransigenza UE, viene oggettivamente difficile non pensare che a una vacua petitio principii. Ché anzi, l’asserito principio ispiratore del sostegno finanziario concesso agli Stati membri in difficoltà, cioè offrire solidarietà in cambio di solidità, si sia piuttosto concretato in offrire solidarietà in cambio di sovranità.

Non diversamente, benché il secondo Regolamento del Two Pack ― n. 473/2013 ― rechi disposizioni ordinarie per l’Eurozona, e non “emergenziali” come il precedente, la sua ratio è nondimeno il potenziamento della vigilanza tecnica sull’azione politica. In linea con quanto già disposto dalla Direttiva 2011/85/UE (Six Pack) e dal Fiscal compact, si prescrive che, in aggiunta e a corredo di tutti gli altri sistemi di sorveglianza vigenti (Semestre europeo, multilaterale di bilancio, squilibri macroeconomici, disavanzo eccessivo), ogni Stato euro garantisca previsioni macroeconomiche elaborate o approvate da «[…]enti strutturalmente indipendenti o dotati di autonomia funzionale nei confronti delle autorità di bilancio dello Stato membro che, in virtù di apposite disposizioni di legge nazionali, godono di un elevato grado di autonomia funzionale e responsabilità[…] » (art. 2, par. 1, lettera a)). Un custode interno super partes, messo a guardia permanente della malaccorta politica nazionale, e con l’avallo tecnico delle istituzioni europee. Lo Stato euro, inoltre, è tenuto al nuovo obbligo di trasmettere annualmente alla Commissione e all’Eurogruppo, entro il 15 ottobre,  un progetto di programmazione di bilancio per l’anno successivo, che risulti coerente con tutte le raccomandazioni o i pareri ricevuti in sede di governance economica europea (art. 6, par. 1). La Commissione esamina e valuta il documento programmatico di bilancio, quindi adotta un parere, che è più celere e contiene una richiesta motivata di revisione, nel caso in cui siano emerse inosservanze gravi degli obblighi di politica finanziaria previsti dal PSC. Di qui, la ripresentazione da parte dello Stato del progetto riveduto, e nuovo parere della Commissione (art. 7, par. 2). Il tutto in tempi rapidi, per consentire di approvare entro i termini le leggi nazionali di bilancio.

Alla fine di questa scorsa sulla ventennale evoluzione legislativa da Maastricht al Two Pack, è un fatto che, almeno dal secondo PSC e, a fortiori, dopo la crisi finanziaria del 2008, la strada prescelta dall’Unione europea è stata quella della legiferazione frenetica e ridondante e della regolamentazione onnivora, piuttosto che quella, auspicabile e da più parti auspicata, dell’ideazione di nuove strategie economiche atte a favorire politiche comuni più solidali. Ma al di là di ogni valutazione politica, il risultato è stato uno stratificarsi di fonti e un proliferare di regole che oggi imporrebbe almeno uno sforzo di semplificazione e trasparenza, pena una separazione sempre più profonda fra cittadini e istituzioni: «[…] occorrerebbe una sorta di “Testo unico” dei vincoli europei in tema di finanza pubblica e di squilibri macroeconomici: una fonte a cui si possa fare riferimento per sapere quali sono i parametri da rispettare, superando la necessità di fare riferimento alle numerose fonti […].[…] una riflessione sul fronte della semplificazione va fatta, altrimenti le istituzioni europee saranno sempre più lontane e incomprensibili per i loro cittadini»[64].

L’equilibrio strutturale di bilancio: limiti e complessità

Il Trattato di Maastricht fissava una regola di bilancio, rigida ma semplice, applicata al saldo nominale: limite del 3% deficit/Pil. Per renderla meno meccanica, come si è detto, nel PSC del 2005 si affianca la regola sul saldo strutturale, flessibile ma più complessa. Contrariamente alle attese, però, il più complesso calcolo del saldo strutturale non solo non ha ripagato in termini di duttilità, quando ha finito per destare parecchi dubbi sulla sua affidabilità.

Nel calcolo del saldo strutturale, infatti, entrano il saldo nominale di bilancio e il Pil effettivo, grandezze osservabili e misurabili, ma anche il Pil potenziale, che è un indicatore stimato e non osservabile direttamente.

Rinviando per maggiore precisione e dettagli all’ampia letteratura economica, ci basti semplificare dicendo che il prodotto potenziale è il massimo del prodotto che si otterrebbe utilizzando a pieno i fattori produttivi (capitale e lavoro), e avendo un tasso di disoccupazione “naturale”, tale cioè da evitare spinte inflazionistiche con il rialzo dei salari e quindi dei prezzi.

Per inciso, si tenga presente che il Pil potenziale nella sua evoluzione temporale, stimato dalla Commissione europea, è un indicatore oramai decisivo non solo per il saldo strutturale, ma, come si è visto, anche per le regole sulla spesa e sul debito[65]. Il che comporta che le criticità legate alla stima del prodotto potenziale rischiano di appesantire e complicare l’intero sistema di regole, rendendole piuttosto rigide e “cervellotiche”.

Quanto al rispetto della regola del deficit strutturale, la determinazione del prodotto potenziale esige particolare prudenza e accuratezza: è infatti la differenza fra il Pil potenziale e il Pil effettivo ― il c.d. output gap ― a determinare l’entità delle politiche fiscali. Se il Pil potenziale viene sottostimato, e di conseguenza l’output gap risulta troppo contenuto, si rendono necessarie manovre fiscali di aggiustamento più severe, in quanto viene rilevata una maggiore riduzione di capacità produttiva del Paese permanente e strutturale e una minore riduzione dovuta agli effetti negativi del ciclo. Viceversa, una stima più elevata del Pil potenziale, e un maggiore output gap, fa registrare un’economia in recessione, che impatta negativamente sui conti pubblici e dunque richiede politiche fiscali meno restrittive.

Per calcolare il saldo strutturale di bilancio bisogna depurare il saldo nominale della componente del ciclo economico e delle misure temporanee ed una tantum: saldo netto strutturale = saldo netto nominale – effetti del ciclo – misure una tantum = saldo netto nominale – (0,55[66] × output gap) – misure una tantum. Essendo le misure una tantum in genere poco influenti, il confronto fra gli economisti si è focalizzato su come calcolare gli effetti del ciclo economico sul saldo contabile, ossia sulla quantificazione del Pil potenziale e dell’output gap, una variabile non osservabile il primo e dunque neppure il secondo[67].

La Commissione europea utilizza per il calcolo dell’output gap il metodo della funzione di produzione che, nonostante l’approccio econometrico, sconta problemi legati alla revisione delle stime statistiche: « Se l’output gap viene rivisto per il passato o per il futuro – a parità di saldo nominale di bilancio, del parametro di semi-elasticità e delle misure una tantum – il saldo strutturale assume un valore diverso da quello calcolato in precedenza. Non vi è dunque certezza assoluta dei numeri, nemmeno retrospettivamente»[68].

In realtà, la volatilità dei numeri e le rilevanti implicazioni sulla valutazione dello stato dei conti pubblici furono segnalati già a ridosso della pubblicazione del DEF 2014, il primo Documento in vigenza della riforma costituzionale sul pareggio di bilancio. Ad esempio, nel Rapporto Annuale ISTAT viene presentata una simulazione alternativa del pareggio strutturale di bilancio, basata sull’ipotesi che la capacità produttiva dell’economia italiana non si fosse deteriorata, come invece indicato dalle stime del Pil potenziale della Commissione europea. Questa simulazione indica che «l’Italia avrebbe raggiunto l’obiettivo del pareggio strutturale del bilancio nel 2012 e che potrebbe mantenerlo nel 2014 e 2015 in presenza di un livello non superiore al 3 per cento del rapporto deficit/Pil (come previsto dal Patto di stabilità e crescita). La differenza in termini di indebitamento netto tra questo scenario di simulazione e gli andamenti programmatici di finanza pubblica, equivale a circa 5 miliardi di euro nel 2014 e ad oltre 10 miliardi nel 2015»[69]. Un nuovo scenario dei conti pubblici tutt’altro che trascurabile: pareggio strutturale di bilancio già raggiunto e mantenuto per i due anni successivi; regola del 3% rispettata; 15 miliardi di euro in meno (sic!) di indebitamento netto su due esercizi finanziari.

Simili rilievi critici compaiono anche nel primo Rapporto predisposto dall’Ufficio parlamentare di bilancio, l’organismo indipendente con funzioni di verifica e controllo, istituito ai sensi della legge di riforma costituzionale: « A causa delle frequenti revisioni di queste stime […] è possibile che sulla loro base vengano fornite ex-ante raccomandazioni di finanza pubblica che ex-post possono rivelarsi controproducenti»[70].

Ma approfondiamo brevemente ancora la questione. Il metodo econometrico della funzione di produzione che utilizza la Commissione europea ricorre ad alcune variabili stimate, in quanto non direttamente osservabili, le quali possono portare a stime pro-cicliche del Pil potenziale. In particolare, come si è detto, una di queste variabili stimate è il tasso di disoccupazione “naturale”, ossia coerente con una crescita stabile dei salari (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment, NAWRU). Ebbene, è stato eccepito sul piano metodologico il difetto che proprio l’andamento stimato del tasso di disoccupazione strutturale potrebbe finire per avvicinarsi molto a quello di disoccupazione effettivo[71].

Nel 2014 gli economisti italiani del CER (Centro Europa ricerche) sono stati fra i primi a contestare la fondatezza del significato economico delle previsioni del NAWRU effettuate dalla Commissione europea (Winter forecasts 2014) per il triennio 2013-1015, secondo cui il tasso di disoccupazione in Italia non sarebbe dovuto scendere al di sotto del 10,5%, pena spinte inflazionistiche. Invero, solo con una lieve correzione di questa ipotesi, a parità d’indebitamento nominale, cambierebbe l’output gap, il saldo strutturale di bilancio migliorerebbe, con una sensibile diminuzione dell’indebitamento strutturale: «già con un tasso di disoccupazione di equilibrio del 10% la manovra necessaria per rispettare l’obiettivo di azzeramento del disavanzo strutturale si dimezzerebbe; con una disoccupazione strutturale del 9% l’obiettivo risulterebbe pienamente conseguito; il saldo strutturale sarebbe poi in avanzo se ponessimo il livello di disoccupazione di equilibrio fra valori compresi fra l’8 e l’8,6%»[72].

Malgrado la Commissione europea, per evitare il prodursi di un eccesso di pro-ciclicità nelle stime, abbia poco dopo modificato la metodologia di calcolo del NAWRU, e di conseguenza la determinazione dell’output gap[73], il dibattito in seno alla comunità scientifica degli economisti non si è affatto sopita.

A completamento di questa sintetica panoramica, merita richiamare, fra le altre, la netta presa di posizione di tre insigni economisti, i quali hanno concettualizzato il fatto che il modello consolidato al livello europeo tende a sottostimare il prodotto potenziale, spiegandolo plausibilmente con una pronunciata sensibilità della metodologia a quelli che la letteratura economica conosce come “effetti isteresi”: «La bassa crescita/recessione del Pil effettivo impatta sulla stima del Pil potenziale mediante procedure statistiche che finiscono per accentuare l’intensità di tale relazione al prolungarsi della crisi: la metodologia tende in sostanza a sottostimare l’ampiezza del ciclo economico, e a interpretare come strutturali gli sviluppi economici recenti»[74].

Guardando poi allo specifico caso italiano, gli studiosi fanno rilevare gli effetti distorsivi che possono derivare anche per l’attivazione dei margini di flessibilità di bilancio previsti dallo stesso PSC: con il tasso di crescita potenziale negativo assegnato all’Italia, «significa che qualsiasi tasso di crescita positivo ridurrebbe l’output gap e, di conseguenza, richiederebbe una riduzione del disavanzo nominale anche solo per mantenere inalterato il saldo strutturale. È come nuotare contro corrente: si nuota solo per restare fermi»[75].

Le conclusioni suonano come un monito ai “sacerdoti” europei delle politiche di austerità, affinché non trasformino un importante modello di calcolo ― certo utile, ma al pari di altri ― in un “feticcio” econometrico che, contrariamente all’immediata evidenza, potrebbe addirittura indurre a politiche economiche controproducenti proprio per il loro obiettivo prioritario di rigore e disciplina di bilancio:

 

Se in tempi normali il potenziale è un fantasma necessario per valutare l’atteggiamento della politica di bilancio, in questi anni di bassa domanda il fantasma è diventato dispettoso e imbroglione; così imbroglione da rendere – se si è davvero molto incerti della stima del potenziale – addirittura preferibile il semplice utilizzo del deficit nominale (corsivo ns.). Da ultimo va notato un paradosso, anzi un’incoerenza, tra l’interpretazione dell’economia che le istituzioni europee implicitamente assumono con questo modello e le loro raccomandazioni di policy. Qualora l’impatto della recessione sulla crescita potenziale avesse effettivamente l’intensità del modello, politiche macroeconomiche restrittive andrebbero evitate come la peste per non danneggiare le prospettive, anche fiscali, di lungo termine[76].

Va tuttavia precisato che il metodo per il calcolo del Pil potenziale adottato dalla Commissione è un metodo concordato al livello europeo, giacché essa coopera con un gruppo di lavoro del Comitato di Politica Economica, cui partecipano delegati degli Stati membri: l’OGWG (Output Gap Working Group). Il problema dunque non si pone in termini di una sconfessione, da posizioni economiche eterodosse, della visione economica assunta dalle Istituzioni europee e che giace alla base dell’adozione di quel modello. Semmai, si pone in termini almeno di un approccio non dogmatico e fideistico a delicati problemi macroeconomici, soprattutto in tempi di crisi prolungata; il buon senso ― oltre che il dubbio istillato su base scientifica ― potrebbe convincere la Commissione a temperare l’approccio, usando ad esempio le stime di crescita potenziale di medio periodo, piuttosto che quella di breve periodo, per verificare l’osservanza delle regole fiscali[77], oppure utilizzando più modelli di stima del saldo strutturale e affiancandovi anche altri indicatori della posizione di bilancio basati solo su variabili osservabili[78].

Ma come si è mossa la politica italiana rispetto alla questione Pil potenziale ed output gap, così cruciale e vincolante per le politiche fiscali nazionali dall’entrata in vigore della legge n. 243/2012, che dava attuazione alla riforma costituzionale sul pareggio di bilancio?

Inizialmente, in modo abbastanza timido. Nel DEF 2014, il Governo italiano evidenzia la discrezionalità di alcuni parametri presenti nella metodologia elaborata dall’OGWG europeo per il calcolo del saldo strutturale di bilancio, soffermandosi in specie sulla discordanza nelle stime della disoccupazione strutturale; ma poi si limita a precisare: «Utilizzando gli ultimi parametri ufficiali della Commissione Europea, la situazione fiscale dell’Italia risulterebbe notevolmente migliore rispetto ai valori ufficiali dichiarati nel presente Programma di Stabilità. La scelta operata risponde all’esigenza di avvicinare la stima del potenziale il più possibile a quella della Commissione Europea, anche se, come qui dimostrato, scelte diverse avrebbero portato a risultati significativamente differenti»[79].

Ancora nel 2015 l’attenzione del Governo si concentra essenzialmente sulle criticità intrinseche alla determinazione del tasso di disoccupazione strutturale, e mette a confronto il NAWRU stimato dalla Commissione con un NAWRU ottimale considerato “meno pro-ciclico e leggermente più smussato”: «Se si utilizza il nuovo NAWRU per stimare il prodotto potenziale, a parità di scenario macroeconomico e di finanza pubblica, si ottiene un allargamento dell’output gap, grazie al livello più elevato del prodotto potenziale, e un miglioramento del saldo strutturale di finanza pubblica su tutto il periodo previsivo»[80].

Il tenore del contraddittorio con la Commissione appare invece decisamente più risoluto all’atto della programmazione economica e finanziaria nei due anni successivi: sia il DEF del 2016 sia quello del 2017 contengono, infatti, focus di approfondimento espressamente dedicati a modelli alternativi di calcolo dell’output gap e del saldo strutturale, modelli che introducono nella funzione di produzione altre importanti innovazioni. Una distanza rimarcata con decisione tale da riproporre in premessa il medesimo concetto senza diplomatiche sfumature: «Per quanto riguarda l’Italia, il Governo è dell’opinione che la metodologia concordata a livello europeo non sia adatta (corsivo ns.) a fornire una valutazione imparziale della crescita potenziale sia per quanto riguarda gli anni passati sia per gli anni a venire. Inoltre, le stime prodotte risultano essere pro-cicliche e non in linea con le principali nozioni di carattere macroeconomico»[81].

Si ha insomma l’impressione che, sentitosi sempre più “ostaggio” dei vincoli normativi europei, rinforzati dai nuovi obblighi costituzionali interni, il Governo italiano abbia progressivamente cercato di guadagnare maggiori margini di libertà decisionale nelle politiche fiscali facendo leva sulla opinabilità dei modelli econometrici consolidati. Una strada certo impervia, ma che forse lo sarebbe meno, se il legislatore costituzionale avesse almeno evitato di recepire così pedissequamente tutti i parametri tecno-economici nella revisione dell’art. 81 Cost..

In definitiva, ci sentiamo di aderire convintamente a tre considerazioni conclusive sul processo di stima del saldo strutturale di bilancio: 1) gli strumenti di calcolo non sono affatto “neutrali”, possono partire dalle stesse basi quantitative ma dare risultati diversi e, soprattutto, riflettono precisi orientamenti di teoria economica; 2) i modelli statistici ed econometrici non possono essere la base per rigidi precetti normativi, ma c’è bisogno che gli Stati membri ricevano dalle Istituzioni europee una cornice giuridico-economica più elastica, che lasci qualche margine interpretativo per le politiche di bilancio; 3) regole, metodologie, tecniche devono essere rese più semplici e trasparenti e non una faccenda “esoterica” per soli addetti ai lavori: i parlamentari per primi dovrebbero averne chiara cognizione, perché non si tratta di “estetica contabile”, ma dell’approvazione del bilancio dello Stato, uno dei pilastri del funzionamento della democrazia parlamentare[82].

[1] «However, an economic and monetary union could only operate on the basis of mutually consistent and sound behaviour by governments and other economic agents in all member countries. In particular, uncoordinated and divergent national budgetary policies would undermine monetary stability and generate imbalances the real and financial sectors of the Community. Moreover, the fact that the centrally managed Community budget is likely to remain a very small part of total pub1ic-sector spending and that much of this budget will not be available for cyclical adjustments will mean that the task of setting a Community-wide fiscal policy stance will have to be performed through the coordination of national budgetary policies. Without such coordination it would be impossible for the Community as a whole to establish a fiscal/monetary policy mix appropriate for the preservation of internal balance, or for the Community to play its part in the international adjustment process. […] In the budgetary field, binding rules are required that would: firstly, impose effective upper limits on budget deficits of individual member countries of the Community, although in setting these limits the situation of each member country might have to be taken into consideration; secondly, exclude access to direct central bank credit and other forms of monetary financing while, however, permitting open market operations in government securities; thirdly, limit recourse to external borrowing in non-Community currencies. Moreover, the arrangements in the budgetary field should enable the Community to conduct a coherent mix of fiscal and monetary policies» (Report on economic and monetary union in the European Community (17 aprile, 1989), pp. 19-21).

[2] Si veda, fra gli altri, con i relativi rimandi bibliografici, P. De Grauwe, Economics of Monetary Union (2012), trad. it. di F. Balugani, M. Cantalupi, S. Pedrini, N. Negro, Economia dell’unione monetaria, Bompiani, 2013, p. 169; «Dal punto di vista dell’analisi economica, non ha senso imporre ai paesi un limite numerico (3%) privo di fondamento scientifico e applicato senza tener conto né delle condizioni economiche del momento, né dei livelli di debito dei singoli paesi membri. Allo stesso modo, non ha senso imporre il vincolo di bilancio in pareggio, proibire cioè l’emissione di nuovo debito: sarebbe come introdurre un vincolo di lungo periodo alla crescita» (p. 279).

[3] Il Trattato di Maastricht sancisce nella sostanza l’idea di fondo del Rapporto Delors di un’unione monetaria non immediata ma da conseguire in un decennio, all’esito di un graduale processo d’integrazione: I fase (1990-1994) ‒ completamento del mercato interno e liberalizzazione della circolazione dei capitali; II fase (1994-1999) ‒ creazione dell’Istituto monetario europeo (IME) con la funzione di rafforzare la cooperazione tra le Banche centrali, coordinare le politiche monetarie, preparare la costituzione del Sistema europeo di banche centrali (SEBC); definizione della struttura istituzionale della governance della futura Eurozona; raggiungimento della convergenza economica fra gli Stati membri; III fase (dal 1999) ‒ fissazione irrevocabile dei tassi di conversione; istituzione del SEBC e della Banca centrale europea (BCE); transizione alla moneta comune. Come è noto, dal 1° gennaio 1999 al 31 dicembre 2001, l’euro fu soltanto un’unità di conto per il sistema bancario; il 1° gennaio 2002 l’euro fu immesso in circolazione e vennero ritirate le singole valute nazionali.

[4] Art. 109 E, parr. 1 e 2.

[5] Danimarca e Regno Unito negoziarono una clausola di esenzione permanente (opt-out) dalla terza fase UEM, mentre Grecia e Svezia ancora non soddisfacevano i requisiti. Nel 2000 il Consiglio giudicò raggiunti gli obiettivi di convergenza da parte della Grecia, che venne così ammessa all’area euro il 1° gennaio 2001.

[6] Il regolamento n. 1466/97 dispone che, per consentire la periodica sorveglianza multilaterale di cui all’art. 103 del Trattato, gli Stati membri presentino ogni anno al Consiglio e alla Commissione un programma di stabilità (Stati aderenti alla moneta unica) o di convergenza (Stati non aderenti): le informazioni ivi contenute riguardano l’anno in corso, il precedente e almeno i tre successivi. Va da sé che gli Stati sono tenuti ad adottare tempestivamente misure correttive al verificarsi di scostamenti significativi dagli obiettivi programmati.

[7] Drastico è il giudizio formulato da G. Guarino, Un saggio di verità, cit., pp. 10 ss., secondo cui il Regolamento n. 1466/97, violando o variando illecitamente disposizioni originarie del TUE di Maastricht, ha realizzato un “golpe” ai danni dell’Unione e degli Stati membri, in quanto ne avrebbe leso il fondamento di democraticità nel sopprimere lo spazio delle politiche economiche, il solo soggetto all’influenza dei cittadini.

[8] Art. 104 C, paragrafo 2, lettera a), secondo trattino.

[9] Risoluzione Consiglio europeo, Amsterdam 17/06/1997, Gli Stati membri, par. 7.

[10] «Attraverso il Trattato ed il Patto di Stabilità e Crescita si è intervenuti non sulla titolarità dei poteri nel campo della finanza pubblica ma attraverso un complesso sistema dominato dal diritto, attraverso la posizione di divieti e vincoli e la creazione di un meccanismo procedurale finalizzato a garantirne l’osservanza» (G. Pitruzzella, Chi governa la finanza pubblica in Europa?, in Quaderni Costituzionali, 1 (2012), p. 18).

[11] Per un quadro più ampio delle regole e della governance europee sulla finanza pubblica, così come si sono andate trasformando da Maastricht in poi, si vedano, sul piano istituzionale (sino al 2012, quindi Fiscal compact e Two pack esclusi), G. Pitruzzella, ivi, pp. 15-19 e pp. 23-35, sul piano economico-giurdico, Senato della Repubblica, servizio del bilancio, La governance economica europea, Elementi di documentazione, 3 (2013), L. Landi, Le regole europee e il “cosiddetto” pareggio di bilancio strutturale. Regole di non facile comprensione, in Osservatorio monetario, 2 (2014), pp.41-43 e pp. 52-60, M. Degni, P. De Ioanna, Il vincolo stupido. Europa e Italia nella crisi dell’euro, Castelvecchi, 2015, pp. 39-71.

[12] Consiglio europeo di Bruxelles 22-23 marzo 2005, Conclusioni della Presidenza, parr. 4-5 e 7.

[13] Allegato II ― Relazione del Consiglio al Consiglio europeo ― Migliorare l’attuazione del patto di stabilità e crescita, p. 22.

[14] Cfr. Allegato II, cit., p. 28.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 33.

[17] «Gli Stati membri si dovrebbero impegnare, a livello europeo, a consolidare attivamente le finanze pubbliche in periodi di congiuntura favorevoli nella presunzione di destinare le entrate supplementari inattese alla riduzione del disavanzo e dell’indebitamento. […] Gli Stati membri che non hanno ancora raggiunto i loro obiettivi a medio termine dovrebbero adottare misure per conseguirli nel corso del ciclo. Il loro sforzo di adeguamento dovrebbe essere maggiore nei periodi di congiuntura favorevole e potrebbe essere più limitato nei periodi di congiuntura sfavorevoli» (ivi, pp. 29-30).

[18] Ibidem.

[19] «[…], they (scil. la Commissione e il Consiglio) examine whether a sufficient adjustment effort is made in economic good times, and take into account that the effort may be more limited in economic bad times» (Specifications on the implementation of the Stability and Growth Pact, 2005, p. 5).

[20] Sul punto, si veda L. Landi, cit., p. 49.

[21] Per una illustrazione più dettagliata, si veda Senato, cit., pp. 28-29.

[22] Quest’ultimo valore, si badi, è a sua volta il risultato della somma di tre addendi: «La prima componente rappresenta il saldo di bilancio strutturale che consentirebbe di stabilizzare il debito pubblico al 60 per cento del PIL. La seconda componente indica l’aggiustamento ulteriore di bilancio necessario a coprire una parte del valore attuale dell’incremento di spesa atteso dall’invecchiamento della popolazione. La terza componente rappresenta uno sforzo supplementare di riduzione del debito specifico per i paesi in cui il rapporto debito/PIL supera il valore del 60 per cento» (Senato, cit., p. 29).

[23]«Once the three bounds on the MTO are computed (so as to comply with the requirements i, ii and iii), they are then combined to yield a country-specific lower bound for the MTO, which corresponds to the lowest MTO that fulfils all the criteria defined above: MTO = max (MTOILD, MTOMB, MTOEuro/ERM2). The resulting value of the MTO (up to one decimal pace) is then rounded to the most favourable ¼ of a percentage point» (European Commission, Report on Public finances 2013, in European Economy 4 (2013), pp. 97-98).

[24] In particolare, dall’ultimo Ageing report della Commissione europea (2012), «l’OMT presentato dall’Italia nel proprio Programma di stabilità e crescita è dato da un saldo di bilancio strutturale pari a zero, cioè al valore più ambizioso tra -0,5 (OMTEURO/ERM2), -1,5 (OMTMB) e 0,0 (OMTILD)» (Senato, cit., p. 29).

[25] Come ha acutamente osservato L. landi, cit., p. 50, «Ad esempio, è una scelta politica, e non propriamente tecnica, quella di coprire oggi una frazione α, peraltro non nota, del valore attuale dell’incremento futuro dei costi di ageing, sulla base di scenari a 50 anni».

[26] M. Degni, P. De Ioanna, cit., p. 49.

[27] «I due fulcri nominali del patto ― il valore di riferimento del 3% per il rapporto fra il disavanzo pubblico e il PIL e del 60% per il rapporto fra il debito pubblico e il PIL ― si sono dimostrati validi e restano l’elemento centrale della sorveglianza multilaterale. […] Il fine non è certo introdurre maggiore rigidità o flessibilità nelle regole attuali, bensì renderle più efficaci» (Relazione del Consiglio al Consiglio europeo, cit., p. 22).

[28] Cfr. Parere della BCE del 3 giugno 2005 concernente le modifiche al regolamento n. 1467/97 del Consiglio.

[29] «The crisis therefore served as an eye opener of what could go wrong if budgetary and macroeconomic positions were not sufficiently constrained, both for the countries directly concerned and also for the other members of the euro area which were affected due to the significant interdependencies among participants» (European Commission, Building a Strengthened Fiscal Framework in the European Union: A Guide to the Stability and Growth Pact, in European Economy – Occasional Papers 150 (2013), p. 11). Cfr. L. Landi, cit., p. 52.

[30] Si tratta dei Regolamenti (UE) n. 1173, 1174, 1175, 1176, 1177/2011 e della Direttiva 2011/85/UE.

[31] Per un’analisi più particolareggiata, si rimanda ai riferimenti in nota 36.

[32] Art. 6, par. 1, lettera b).

[33] «Specifically, it became clear in the early years of the crisis that many Member States had not used the years of strong growth that preceded the crisis to sufficiently strengthen their budgetary positions and therefore enable them to undertake countercyclical fiscal expansions when the need arose. As the financial crisis turned into a sovereign debt crisis, the precarious debt position of some countries became a driver of global economic events and debt became a focal point. Additional important lessons of the crisis were that the unfolding of large macroeconomic imbalances could rapidly and drastically affect budgetary positions and that budgetary spillovers among euro area members might had been underestimated in past» (European Commission, Building a Strengthened Fiscal Framework, cit., p. 11).

[34] Cfr. supra p. 15.

[35] «In budgetary planning, keeping expenditure in check is essential: an analysis of tax and expenditure trends in the years before the onset of the crisis showed that increases in expenditures were a key reason for a persistence of weak underlying public finances, which left Member States with insufficient ability to support their economies when the crisis hit» (European Commission, Building a Strengthened Fiscal Framework, cit., p. 13).

[36] «Also, while the structural balance, […], remains a useful concept for analyzing the underlying budgetary position, is not always an optimal tool for guiding Member State’s policy choices in real time due to its reliance on unobserved data. Guidance that did not depend on statistical techniques […] but rather on easily observable data, such as revenues and expenditures, was perceived as a valuable addition to the structural balance to assess budgetary positions» (Ibidem).

[37] Si veda, Specifications on the implementation of the Stability and Growth Pact, 03/9/2012, pp. 5-6.

[38] «Windfall tax revenues should be understood as revenues in excess of what can normally be expected from economic growth» (Specifications on the implementation of the Stability and Growth Pact, 2012, p. 6).

[39] «Given that unexpected growth developments lead to unexpected change in tax revenues, this is likely to alter the conduct of counter-fiscal policy in real-time. For instance during phases of positive growth surprises, governments could use these unexpected revenues to increase expenditure (or reduce taxation) beyond what would be otherwise advisable from a medium-term perspective. In the following downward phase of the cycle, revenue shortfalls could mean that tax revenues are insufficient to meet the planned increased expenditure and drive to deterioration of fiscal positions» (S. Barrios, P. Rizza, Unexpected changes in tax revenues and the stabilisation function of fiscal policy: Evidence for the European Union 1999-2008, in European Economy – Economic Papers 404 (2010), p. 13).

[40] «Unexpected changes in tax revenues varied substantially both across time with some EU Member States alternating large tax windfalls in 2005-2007 with substantial shortfalls in 2008, as for instance Spain (1.06% in 2005-2007 vs. -4.57% in 2008) and Ireland (1.15% in 2005-2007 vs. -4.30% in 2008)» (Ivi, p. 19).

[41] Specifications on the implementation of the Stability and Growth Pact, 2005 e 2012, p. 4.

[42] Cfr. Senato, cit., pp. 26-27.

[43] «Avoidance should be expected to result in annual expenditure growth not exceeding the reference medium-term rate of potential GDP growth, unless the excess is matched by discretionary revenue measures» (Specifications on the implementation of the Stability and Growth Pact, 03/9/2012, p. 6).

[44] MEF – Dipartimento del Tesoro, Metodologie per il calcolo del prodotto potenziale e delle regole del debito e della spesa, previste dal nuovo sistema di governance europea, 28 gennaio, 2014, p. 34.

[45] «Nelle fasi negative del ciclo economico, il rapporto debito/PIL aggiustato risulterà inferiore rispetto a quello effettivo, in quanto il debito verrà depurato dell’effetto degli stabilizzatori automatici e il PIL nei tre anni precedenti viene fatto variare al tasso di crescita del PIL potenziale. È da notare che tale formula non viene utilizzata dalla Commissione europea nelle fasi positive del ciclo, nelle quali il debito aggiustato risulterebbe superiore rispetto a quello effettivo (una componente ciclica positiva farebbe aumentare il numeratore e quindi il valore del rapporto)» (Senato, cit., p. 35).

[46] Sul punto, si vedano i 7 fattori rilevanti enucleati da L. Landi, cit., p. 56 n.35.

[47] «Also, in order to ensure continuous and realistic progress towards compliance during the transition period, Member States should respect simultaneously the two below conditions: – First, the annual structural adjustment should not deviate by more than ¼ % of GDP from the minimum linear structural adjustment ensuring that the debt rule is met by the end of the transitional period. – Second, at any time during the transition period, the remaining annual structural adjustment should not exceed ¾ % of GDP» (Specifications on the implementation of the Stability and Growth Pact, 03/9/2012, p. 9).

[48] Regolamento (UE) n. 1176/2011, art. 1, par. 1.

[49] Si vedano, rispettivamente, European Commission, Report from the Commission on the Alert Mechanism Report, 14/2/2012, p. 3, ed European Commission, Report from the Commission to the European Parliament, the Council, The European Central Bank, the European Economic and Social Committee, the Committee of the Regions and the European Investment Bank on the Alert Mechanism Report 2013, 28/11/2012, p. 23.

[50] Per un approfondimento, si vedano European Commission, Scoreboard for the surveillance of macroeconomic imbalances, in European Economy – Occasional Papers 92 (2012), e Senato, cit., pp. 38-41.

[51] Per un’illustrazione sintetica dei due sistemi sanzionatori, si veda, ancora, Senato, cit., pp. 18-20 e pp. 22-23.

[52] L. Landi, cit., p. 54.

[53] Cfr. L. Landi, cit., pp. 53-54.

[54] Cfr. M. Degni, P. De Ioanna, cit., p. 53. Illuminante in tal senso è il commento di European Commission, Vade mecum on the Stability and Growth Pact, in European Economy – Occasional Papers 151 (2013) p. 19: «In line with Article 2-ab of Regulation 1466/97 the Council is “expected to, as a rule, follow the recommendations and proposals of the Commission or explain its position publicly”. This is known as the “comply or explain” principle and is not just confined to the European Semester. It creates a strong presumption in favour of the Council’s opinion following the Commission’s line, unless any divergence from it can be backed up by strong public explanations».

[55] Per ulteriori dettagli sul Semestre europeo, si vedano: Senato, cit., pp. 8-9; European Commission, Vade mecum, cit., pp. 18-19; M. Degni, P. De Ioanna, cit., pp. 53-54.

[56] M. Degni, P. De Ioanna, cit., p. 56.

[57] Per una proposta di riforma che riconduca la Bce sotto un controllo democratico esercitato dal Europarlamento, pur non inficiandone l’indipendenza, si veda A. Ciancio, I nodi della governance europea: euro, politica fiscale, bilancio unico dell’Unione. Per una nuova legittimazione democratica della BCE, in federalismi.it, 16 (2015).

[58] In buona sostanza, a subire la restrizione è l’Omteuro/erm2, ossia il termine fisso contenuto nella formula per il calcolo degli Omt (vedi supra, p. 16), derivante dall’obbligo, assunto dai Paesi euro ed ERM 2, di raggiungere un indebitamento strutturale pari all’1% del Pil: «[…] MTOs should provide a safety margin with respect to the 3% of GDP deficit reference value and, for euro area and ERM II Member States, in any case not exceed a deficit of 1% of GDP» (Specifications on the implementation of the Stability and Growth Pact, 2005, p. 4).

[59] «Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato è significativamente inferiore al 60% e i rischi sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi, il limite inferiore per l’obiettivo di medio termine di cui alla lettera b) può arrivare fino a un disavanzo strutturale massimo dell’1,0% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato» (art. 3, par 1, lettera d).

[60] Vedi supra p. 15: «il -1% del PIL per i paesi a basso indebitamento/elevato potenziale di crescita e il pareggio o l’attivo per i paesi ad alto indebitamento/basso potenziale di crescita».

[61] Fra il 2009 e il 2010, per far fronte all’emergenza debitoria di alcuni Paesi UE, sono stati istituiti il Fesf e il Mesf, due fondi di assistenza finanziaria a carattere temporaneo. Alla fine del 2012, è stato creato un nuovo fondo permanente con ingente potenziale finanziario, il Mes, che da allora ha erogato cospicui prestiti a Paesi euro in difficoltà.

[62] A vario titolo, cooperano al meccanismo di sorveglianza rafforzata anche le Autorità europee di vigilanza (Aev) e il Comitato europeo per il rischio sistemico (Cers).

[63] «I lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero».

[64] A. Baglioni, Semplificare l’Europa, in Osservatorio monetario, 2 (2014), p. 39.

[65] Per i problemi che la stima del Pil potenziale può produrre nell’applicazione di queste due regole, si veda A. Boitani, L. Landi, La casa delle regole europee? Un labirinto, in lavoce.info, 22/07/2014.

[66] Si tratta di un parametro di aggiustamento stimato con metodi statistici dalla Commissione europea, il cui valore è pressoché identico per Italia, Francia e Germania.

[67] Vedi A. Boitani, L. Landi, Regole europee: la lunga strada per uscire dalla stupidità, in lavoce.info, 27/06/2014, p. 1.

[68] Ibidem.

[69] Rapporto Annuale 2014 ISTAT, maggio 2014, p. 216.

[70] upB, Rapporto sulla politica di bilancio 2015, novembre 2014, p. 61.

[71] Cfr., ivi, pp. 63-64.

[72] Rapporto CER, Pacta servata sunt, 25 marzo 2014, p. 3.

[73] Vedi European Commission, European Economic Forecast, Spring 2014, 3/2014, pp. 27-29.

[74] C. Cottarelli, F. Giammusso, C. Porello, Politica di bilancio ostaggio della stima del Pil potenziale, in lavoce.info, 04/11/2014, p. 1.

[75] Ivi, p. 2.

[76] C. Cottarelli, F. Giammusso, C. Porello, Politica di bilancio, cit., p. 2. Al riguardo, si vedano rispettivamente la replica degli economisti della Direzione Generale Affari economici e finanziari della Commissione europea K. Mc Morrow, W. Roeger, Per l’Italia non è solo un problema di metodo, in lavoce.info, 07/11/2014, e la controreplica di C. Cottarelli, F. Giammusso, C. Porello, Perché la crisi complica la stima del Pil potenziale, in lavoce.info, 11/11/2014.

[77] Cfr. C. Cottarelli, Il metodo conta: crescita potenziale e regole fiscali, in lavoce.info, 03/03/2015, p. 2.

[78] Cfr. upB, cit., p. 61.

[79] DEF 2014, Programma di Stabilità, p. 41.

[80] DEF 2015, Programma di Stabilità, p. 21.

[81] DEF 2016, Programma di Stabilità, p. 45 e DEF 2017, Programma di Stabilità, p. 58.

[82] Cfr. M. Degni, P. De Ioanna, cit., pp. 90-91.

Prof. Esposito Marco

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