URBANISTICA

Redazione 01/09/04
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inserito in Diritto&Diritti nel settembre 2004
Autori: GIOVANNI RANCI ALESSANDRA RANCI
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SOMMARIO

Introduzione alla rassegna
Il Piano Regolatore Generale
2.-1.- premesse d’ordine generale
– la radice del potere urbanistico
– potere urbanistico e tutela paesaggistica
– interesse diretto e strumentale a ricorrere
– legittimazione delle Associazioni (caso Codacons)
2.-2.-competenze
riparto di poteri fra Comune e Provincia
competenza degli Organi della Provincia
2.-3.-controinteressati
2.-4.- destinazioni urbanistiche
zona agricola
edifici rurali
aree produttive
2-5.-disparità trattamento
2.-6.-motivazione delle scelte

3.- Il procedimento di formazione
3.-1.-Problematiche circa la normativa antisismica
3.-2.- osservazioni
competenza al loro esame e decisione
osservazioni tardive
parere Soprintendenza: non necessità
ripubblicazione: molteplici problematiche connesse
Varianti al P.R.G.
Variante con accordo di programma

Strumenti attuativi
lottizzazione d’ufficio: azione costitutiva
lottizzazione in zona attività produttive (P.I.P.)
P.E.E.P.
Piani di Recupero patrimonio edilizio
programma integrato di intervento

Gli interventi di trasformazione urbana;
le problematiche delle società miste

1.- INTRODUZIONE
E’ stato detto che le aule del TAR e del Consiglio di Stato, oltreché naturalmente quelle del Giudice Ordinario in ogni caso di coesistenza nella fattispecie di profili privatistici e pubblicistici, sono l’autentica fucina di ogni più o meno plausibile tesi giuridica.
Riteniamo che così si formi anche quel diritto vivente del quale si parla, non quale astrazione dalle tesi reali, ma quale loro sintesi distillata.
Infatti fuori dagli schematismi teorici che talora contraddistinguono le discussioni dottrinarie, nelle aule di giustizia il diritto si pone in tutta la sua effervescenza antinomica espressa dalle tesi contrapposte, ognuna delle quali chiede di essere accolta in situazioni sempre più complesse di intreccio di profili, anch’essi singolarmente sempre più complessi, quali sono ormai diventati quelli processuali e quelli sostanziali.
Non meraviglia pertanto se spesso emerge l’esigenza di trascendere linee e concetti tradizionali per portare la giustizia nell’amministrazione su posizioni di tutela sostanziale, verificando l’attività amministrativa non più (soltanto) all’ombra degli elementi tradizionalmente sintomatici dell’illegittimità, bensì sotto quelli dell’adeguatezza, della trasparenza e della coerenza.
L’analisi della giurisprudenza del TAR Marche nel periodo considerato in materia urbanistica (materia che svincolandosi dalla matrice etimologica è diventata governo del territorio, non edificandosi quindi più con l’urbs, ma ricomprendendola con tutte le complicazioni e le difficoltà che la trasformazione genetica ha comportato), mette in evidenza lo sforzo di risolvere problematiche giuridiche molteplici e complesse che non trovano più quadri compiuti di riferimento normativo né nazionale, né regionale (quest’ultimo in materia urbanistica estremamente parco), soggetti come sono i quadri esistenti alle turbolenze modificative e/o abrogative continue per intervento del legislatore e della Corte Costituzionale.
Se talora le decisioni del TAR delle Marche in questa trattazione sono ritenute opinabili o sottoposte ad analisi critica, ciò è dovuto al compito che ci siamo ripromessi, che non è quello di massimare le sentenze, ma è quello di dire, prolungando la dialettica che si è sviluppata inter partes nell’aula giudiziaria, la nostra modesta opinione.
Giovanni Ranci Alessandra Ranci

2.-PIANO REGOLATORE GENERALE
Il TAR Marche dedica larga attenzione alle problematiche che si intrecciano intorno al potere di pianificazione del territorio.
Verranno distinti, per quanto possibile, gli argomenti più salienti che emergono da una vasta produzione giurisprudenziale anche estrapolandoli (di qui la non facile opera) da contesti processuali e sostanziali complessi e non sempre indicanti il profilo urbanistico come principale.
2.-1.-PREMESSE D’ORDINE GENERALE
A) La radice del potere urbanistico
Si deve premettere qualche cenno alla considerazione che il TAR fa delle radici strutturali del potere che il Comune esercita in materia urbanistica, individuate, in maniera sicuramente ortodossa, nella sentenza n. 1235/2000 che riconduce, con uno sguardo d’orizzonte che va ben oltre la stretta disamina del vizio sollevato dal ricorrente (sviamento per falsità della causa), l’esercizio del potere pianificatorio alla esistenza di specifiche e ben esternate esigenze urbanistiche, rifuggendo da vicende nelle quali è purtroppo spesso riscontrabile un comportamento dell’Amministrazione che tende ad effettuare scelte urbanistiche per concluderne altre di diverso tipo, anch’esse rilevanti e legittime nel quadro delle varie finalità che persegue il Comune, ma inidonee di per sé, e fuori di una precisa ricognizione di attualità urbanistiche, a sorreggere la scelta effettuata dall’Amministrazione stessa.
Il che equivale a dire che non è possibile compensare e compromettere con e nelle scelte urbanistiche altri interessi pur rilevanti e degni di attenzione, sotto altri profili – ivi compresi quelli della conciliazione di vertenze – ma che manifestano la loro estraneità nei confronti della scelta “urbanistica” operata.
La sentenza va collocata nel solco di quella necessità di “consapevolezza urbanistica”, che già la giurisprudenza del Consiglio di Stato aveva individuato quale unica determinante delle scelte, quando con sentenza della Sez. IV, 2/4/1988, n° 291, aveva stigmatizzato la illegittimità della deliberazione del Comune che “riadotta il P.R.G. ritenendosi vincolato nelle proprie scelte urbanistiche al contenuto dell’atto della commissione di controllo sugli atti della Regione – che aveva annullato la proposta regionale di modificazioni al piano – abdicando in tal modo alla sua funzione pianificatoria, senza verificare quale fosse la soluzione più equilibrata sotto il profilo urbanistico”.
B) Potere urbanistico e tutela paesaggistica
Sotto nel punto “Piano Regolatore Generale – competenze – riparto di poteri fra Comune e Provincia” si parla della sentenza 13/10/2000, n° 1445, annotandola per i profili concernenti la competenza, e quindi le procedure per l’esame del P.R.G. nel periodo transitorio nel quale la Regione, che delegava le funzioni in materia urbanistica alle Provincie, tratteneva la conclusione dei P.R.G. che erano stati trasmessi dai Comuni alla Regione stessa entro il 10/5/1992 (art. 75 L.R. 34/92).
La sentenza merita però più largo commento perché prende posizione decisa su una materia mai compiutamente definita, quale è quella del rapporto fra urbanistica e paesaggio e relativa tutela, nel senso di ricondurre “la salvaguardia della valenza panoramica ed ambientale della zona” fra gli elementi che determinano la scelta urbanistica (nel caso di specie edificazione o sua negazione).
E’ noto che la tradizione è stata per la separazione fra poteri urbanistici e poteri paesaggistici e ambientali ognuno dei quali è stato, ed è ancora, retto da norme diverse che li attribuiscono ad autorità diverse che agiscono con procedimenti diversi.
L’art. 7, della legge urbanistica nazionale n° 1150/1942, nel definire il contenuto del P.R.G., dispone che esso oltre ad indicare la rete delle vie di comunicazione, la divisione del territorio in zone, le aree da destinare a spazi ed edifici pubblici, al punto 5) inserisce come elemento integrante del contenuto la indicazione dei “vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale paesaggistico”.
E’ noto altresì che detta disposizione è stata tradizionalmente interpretata come “limite” alla potestà pianificatoria del Comune che appunto nell’esercizio del suo potere urbanistico, è obbligato ad osservare quei vincoli definiti come “esterni”, posti cioè sul territorio da altre autorità e dei quali il Comune si limita a prendere atto.
Questo concetto di attività meramente ricognitiva del Comune, è stata messa in discussione da recente avveduta giurisprudenza che ha ritenuto che “non solo allo Stato, ma anche autonomamente al Comune nell’ambito dei poteri di governo compiuto del territorio esercitabili in sede di approvazione del P.R.G. deve essere riconosciuta la competenza a tutelare gli interessi paesaggistici” (si veda Cass. 10098/96).
Non si tratta con ogni evidenza di identificare urbanistica, paesaggio, ambiente; si tratta invece di riscattare, come fa sapientemente il TAR Marche nella sentenza che si annota, elementi intrinseci della natura e non costituenti oggetto di specifici vincoli aliunde imposti, riconducendoli fra quelli da considerare nella pianificazione urbanistica che in tal modo, raggiunge la sua compiutezza.
Sembra peraltro che questo cambio di tono sia recepito nei principi ispiratori del D.Lgs. 22/1/2004, n° 41 (cosiddetto codice Urbani) che appunto agli artt. 1, 2, 5 riconducono la conservazione del patrimonio culturale (per esso intendendo i beni culturali e paesaggistici, la loro fruizione e valorizzazione) nei poteri dello Stato, delle Regioni, delle Città Metropolitane, delle Provincie e dei Comuni, in una dimensione di interconnessione in cui ogni autorità, compreso il Comune pianificatore urbanistico, abbia il suo peso e la sua dignità, senza complessi pietrificati di barriere, riassumendo la tutela dello stesso paesaggio fra gli interessi primari propri.
C) Interesse diretto e strumentale a ricorrere
C.1 In via generale
Il TAR segue la via tradizionale che si è ormai consolidata dopo lungo travaglio giurisprudenziale che ha preso l’avvio dal principio, sancito in materia edilizia dall’art. 10 della L. 6/8/1975, n° 765, per il quale “chiunque” può ricorrere avverso il rilascio della licenza– concessione edilizia affermando, con assimilazione dell’ipotesi concessoria all’ipotesi pianificatoria già operata da Sez. IV, 912/90 e C.S.I., 131/90, la legittimazione al ricorso del soggetto che sia in posizione di “collegamento effettivo” e non effimero che faccia assurgere il soggetto stesso in una posizione soggettiva qualificata e differenziata che risente, in quanto tale, della destinazione urbanistica (contestata) che incide sul godimento e sul valore di mercato delle abitazioni dei ricorrenti (1/9/2000, n° 1235 ).
La tesi viene ribadita nella sentenza 22/2/2002 n184.
C.2 Interesse strumentale
La sentenza 10/3/2000, n° 389, esaminando eccezioni di inammissibilità del ricorso e respingendole afferma l’esistenza di interesse, anche soltanto strumentale, in una complicata vicenda che vedeva l’atto di adozione della variante soddisfare le aspettative edificatorie poi invece messe in dubbio dall’atto di approvazione della Provincia, talché, diceva la difesa di questa, annullando l’atto finale viene annullata anche l’adozione iniziale.
Il TAR ha ritenuto – per noi giustamente – che l’interesse al ricorso andava individuato nella rimessa in discussione della vicenda caratterizzata peraltro da profilo di incompetenza dell’Organo Provinciale (Giunta e non Consiglio) che aveva proceduto all’approvazione peggiorativa rispetto all’adozione; il che non comportava la necessaria integrale rinnovazione del procedimento di adozione del P.R.G.
La sentenza 389/2000 è molto importante e di essa si dirà ancora nei successivi capitoli.
D) Interesse e legittimazione delle Associazioni (caso Codacons).
Si citano le sentenze:
22/2/2002, n° 184;29/8/2003, n° 980.
Le fattispecie in cui le decisioni sono state rese sono complesse: il Codacons aveva impugnato atti di procedure di accordi di programma rispettivamente in variante allo strumento urbanistico vigente (piano di fabbricazione) – sentenza n° 184/02 – e per consentire la costruzione di una serie di opere pubbliche – sentenza n° 980/03.
Le sentenze richiamano la L. 8/7/1986, n° 349 e la giurisprudenza del Consiglio di Stato (V, 278/98; IV, 1155/98; VI, 3878/01) che riconosce legittimazione alle associazioni ambientalistiche per la tutela di interesse ambientale, escludendola invece per i casi che rivelino connotazioni esclusivamente urbanistiche, dirette cioè all’utilizzazione del territorio senza incidenza su quanto possa ritenersi dotato di riflessi ambientali.
Per quanto attiene al Codacons il TAR Marche gli riconosce la finalità di tutelare gli interessi di consumatori e utenti, nonché l’interesse diffuso alla salvaguardia dei valori ambientali “pur in mancanza di specifiche indicazioni da parte del legislatore statale e regionale” e salvo il potere del Giudice di accertare caso per caso la sussistenza della legittimazione della singola associazione ancorché non riconosciuta ed accreditata.
Il ragionamento del TAR è condivisibile, per quanto riguarda la prima sentenza, nella parte in cui, a sostegno inossidabile della sua tesi, richiama precise disposizioni vincolistiche imposte dalle N.T.A. del P.P.A.R. (in particolare art. 39) che sono nella fattispecie ritenute come violate; di qui il rilievo puntuale e per tabulas del profilo ambientale.
Meno condivisibili, o comunque non completamente condivisibili, sono invece le considerazioni, recate in entrambe le sentenze che portano i Giudici a ritenere sussistente per altra via la legittimazione e l’interesse.
Precisiamo: l’affermazione del TAR per la quale “per il D.P.R. 27/7/1977, n° 616, la protezione dell’ambiente non è del tutto avulsa dalla definizione d’urbanistica alla quale è assegnato il ruolo di disciplina dell’uso del territorio, comprensiva di tutti gli aspetti nonché il ruolo di protezione dell’ambiente”, va approfondita ed analizzata sulla base del dato normativo portato dal diritto positivo: unico elemento che può interessare il giudizio.
Come verrà più ampiamente illustrato nell’apposito capitolo dedicato ai rapporti urbanistica-ambiente, non vi sono dubbi che:
l’ordinamento attribuisce a ben distinte strutture la cura degli interessi in materia urbanistica ed in materia ambientale, paesistica, di protezione delle bellezze naturali;
tale distinzione sussiste anche nei casi in cui l’elaborazione giurisprudenziale ha riconosciuto agli Organi dello Stato ed alle Regioni poteri concorrenti sulla stessa materia, prevedendo sistemi di interrelazione non sempre coerenti (tipico è stato il caso della concorrenza Stato-Regione nella predisposizione degli elenchi dei beni da vincolare);
comunque anche la teoria della concorrenza presuppone ben distinti poteri, e quindi ben distinte autorità, che talora possono convergere sulla stessa materia senza però che possa dirsi che si confondano o che si identifichino materie e competenze;
gioverà anche ricordare che la tutela dell’ambiente è materia di legislazione esclusiva dello stato, mentre il “governo del territorio” è materia di legislazione concorrente della Regione (2° comma lettera S e 3° comma dell’art. 117 Costituzione come novellato).
Il che è ulteriore riprova che l’ordinamento, fin dalle sue massime espressioni, è per la distinzione strutturale delle materie.
Chi abbia tempo e voglia di interessarsi della storia infinita di cui alla sentenza delle SS.UU. n° 500/99, notissima per aver “spietrificato” la giurisprudenza (sentenza emessa in materia di lottizzazione resa impossibile dalla sopravvenuta variante al P.R.G., divenuta poi possibile a seguito dell’annullamento di essa variante per difetto di motivazione e poi ridiventata impossibile da nuova variante ritenuta legittima dal Consiglio di Stato), si accorgerà che uno dei tanti insegnamenti che emergono da essa e dalla successiva Cass. I, 10/1/2003, n° 157, è che i profili paesistici (nel caso di specie difficoltà di ottenere il nulla-osta ambientale) non attengono allo ius aedificandi.
Riprova autorevole della separazione strutturale fra urbanistica quale esercizio di poteri conformativi della proprietà fino a proclamarne vincoli espropriativi ed inducenti indennizzo, perché costitutivi di posizioni, ed ambiente (o bellezze naturali, paesaggistiche e simili) quale esercizio di poteri che prescindono completamente dall’elemento proprietario tanto che si risolvono in vincoli di natura semplicemente accertativa delle qualità del bene, come tali non comportanti indennizzo.
Il richiamo all’art. 34 D.Lgs. n° 80/1998, come novellato dall’art. 7 della Legge n° 205/2000 non consente di identificare urbanistica-paesaggio-ambiente nella loro realtà effettuale e giuridica, in quanto la portata, e quindi la dimensione della disposizione in esame, sono recate nella stessa definizione legislativa che appunto assimila, ai soli effetti processuali (“ai fini della presente legge l’urbanistica comprende tutte le forme dell’uso del territorio” recita l’art. 34 D.Lgs. n° 80/1998 novellato), tutte le incidenze sul territorio di diversi poteri che sono e restano però distinti quanto a natura, presupposti, riferimento ad organi ed enti di competenze diversi.
Deriva da ciò che se è vero che il legislatore ha voluto ricondurre nell’unica sede della giurisdizione esclusiva tutte le controversie che attengono all’uso del territorio, non può trarsi da ciò la conclusione che l’urbanistica, l’ambiente, il paesaggio, le bellezze naturali hanno cessato di essere ognuna se stessa per riconfluire in un unicum indistinto che non trova riscontro nel dato normativo sostanziale che, sia pure de iure condito, è quello che è.
Il mito della panurbanistica, pur teorizzato da più parti, non sembra oggi recepito in un ordinamento portato più a scandire che ad unificare e quando unifica, delinea immediatamente i confini dell’unificazione (come fa il già cennato art. 7 della L. 205/2000).
Se quindi è positiva la tripartizione che la sentenza n° 184/02 fa dell’ambiente (“ambiente” oggetto di tutela conservativa, “ambiente” oggetto di norme a protezione di fattori aggressivi; “ambiente” oggetto di disciplina urbanistica), non può concludersi, in tesi giuridica, che ove l’ordinamento riconosca ad associazioni legittimazione processuale per la salvaguardia di valori ambientali (e così è nella legge e nella giurisprudenza citata dalle stesse sentenze del TAR), la legittimazione – che si noti bene, è tipica e specifica tanto che c’è stato bisogno di una legge ad hoc per riconoscerla e disciplinarla anche nei suoi presupposti – si estenda anche alla tutela di interessi urbanistici, sulla base di concezioni che, sia pure entusiasmanti, sono e restano metagiuridiche.
Per concludere sul punto, altro è la riconduzione dell’uso del territorio, in tutte le diverse forme nelle quali può manifestarsi, sotto l’unica giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, altro è la legittimazione ad accendere processi relativamente ad uno o all’altro dei canali ricondotti nell’unico alveo giurisdizionale.
L’accezione estensiva di urbanistica recata ai soli fini processuali nelle norme in esame, non comporta estensione né fungibilità della legittimazione che è e resta la posizione del soggetto cui l’ordinamento riconosce l’azione.
A non diversa conclusione conduce l’esegesi dell’art. 80 D.P.R. 616/77 testualmente citato dal TAR nelle sentenze in esame.
La disposizione in questione fa parte di un sistema normativo globale, scaturito dai lavori della notissima Commissione Giannini che si era preoccupata di attuare, dopo gli inconvenienti seguiti alla nascita delle Regioni ed alle incompletezze delle deleghe di cui al D.P.R. da n° 11 a n° 11 del 1972, un trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni il più completo possibile.
L’art. 80 D.P.R. 616/77 va letto appunto, come peraltro ha chiarito anche la giurisprudenza costituzionale, in questa ottica e rileva ai dichiarati effetti del trasferimento, che si è voluto effettuare nel modo più interconnesso possibile, senza peraltro identificare o rendere fra di loro fungibili le funzioni che pur venivano confezionate in un unico contenitore, chiamato “urbanistica”, per la spedizione dallo Stato alle Regioni. E che per il nostro ordinamento l’urbanistica ha seguitato ad essere urbanistica e l’ambiente ha seguitato ad essere ambiente non è dato dubitare: basta considerare, fra la miriade di disposizioni che si sono susseguite alla normativa di trasferimento generale del 1977, solo la legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente del 1986 nonché la perdurante consapevolezza del legislatore costituzionale che appunto con la recentissima novella all’art. 117 Costituzione ha riservato l’ambiente alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, mentre ha attribuito alle Regioni potestà concorrente sul governo del territorio che quindi dovrà pur essere qualcosa di diverso dall’ambiente.
Varrà da ultimo ricordare anche Corte Costituzionale 6 – 26/6/2001, n° 206 che, in materia di normativa sullo Sportello Unico delle attività produttive, ha dichiarato illegittima la lettera g) del comma 2° dell’art. 25 D.Lgs. n° 112/98, negando la possibilità – prevista invece dalla norma suddetta – che la Regione dissenziente nella Conferenza dei Servizi, possa essere estromessa da ogni partecipazione alla predisposizione di variante per rendere urbanisticamente possibile l’iniziativa portata allo Sportello Unico.
La sentenza della Corte è chiara nel puntualizzare che la Regione che interviene alla Conferenza dei Servizi come Autorità dotata di poteri urbanistici, non è, né si identifica con l’Amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesistico, territoriale, del patrimonio storico-artistico, talché del tutto diverse, sia sotto il profilo procedimentale che delle competenze ad emettere i provvedimenti finali, sono le conseguenze dei dissensi manifestati nella Conferenza dei Servizi.
2.2.- Competenze
Il problema delle competenze ad emanare atti del procedimento di formazione del piano regolatore, quale atto complesso ed ineguale, e sue varianti, è stato oggetto di vari pronunciamenti del TAR Marche che vengono di seguito succintamente recensiti, distinguendo per esigenze di trattazione sistematica,
la materia del riparto dei poteri sulla materia fra Comune e Provincia che agisce per delega della Regione (L.R. n° 34/92);
la qualificazione giuridica di detti poteri;
la qualificazione della competenza della Provincia sotto la vigenza della L.R. n° 34/92 e della novella introdotta dalla L.R. n° 19/2001;
il conseguente potere di modifica del P.R.G. da parte della Provincia.
A) Riparto dei poteri fra Comune e Provincia
Poiché il procedimento di formazione del P.R.G. si riparte in due e ben distinti momenti che hanno, a livello comunale, i due cardini nelle delibere rispettivamente di adozione e di giudizio sulle osservazioni (variamente detta di adozione definitiva, di approvazione e simili) ed, a livello provinciale nella delibera, che può assumere diversi contenuti, che esprime il giudizio sul piano trasmesso dal Comune, si pone il problema della compresenza, sia pure in momenti diversi dello stesso procedimento, di due Enti Locali sullo stesso oggetto costituito dal piano regolatore di quello specifico Comune.
La materia rischia di complicarsi ove si guardino le interferenze fra i compiti che i due Enti sono chiamati a svolgere; interferenze oggettivamente immancabili (alla fine la Provincia deve dire se il P.R.G. proposto dal Comune va bene o meno) e che una lunga elaborazione giurisprudenziale ha tentato di ricondurre in termini di accettabilità concettuale.
La diatriba è comunque accesa ed in essa confluiscono concezioni e tendenze di diversa natura, non solo rigorosamente giuridiche, che attengono alla stessa concezione dello stato (stato apparato, stato comunità) e, nell’ambito di esso, al significato dell’autonomia riconosciuta solennemente agli Enti Locali territoriali.
Con una sintesi ardita e riferita ai poteri in materia urbanistica si può citare Corte Costituzionale 27/7/2000, n° 378 che afferma: “Le leggi Regionali non possono mai comprimere la posizione di autonomia dei Comuni fino a negarla, ma l’autonomia comunale non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclude che il legislatore regionale possa, nell’esercizio della sua competenza, individuare le dimensioni della stessa autonomia, valutando la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti. Con riguardo alla materia urbanistica, ciò deve essere inteso nel senso che “il potere dei Comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le Regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere”, in quanto l’art. 128 Cost. “garantisce (…) l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni”.
Insomma: bisogna vedere caso per caso, legge per legge ed usare molto buon senso.
Il TAR Marche segue sagacemente il principio già sancito da insegnamenti classici (Adunanza Plenaria n° 17/78, 1/83) per i quali la Regione non è Ente di controllo dell’attività prodotta dal Comune, ma non è nemmeno Ente che si limiti a verificare la semplice conformità della proposta del Comune ad elementi denominati tradizionalmente “esterni” al potere pianificatorio del Comune stesso, quali i piani sovraordinati, i vincoli, le tutele ecc.
Troviamo nella sentenza 29/9/2000, n° 1310 il seguente principio: “l’operazione di approvazione dei piani regolatori comunali e delle loro varianti non si risolve in un mero controllo di legittimità dei relativi atti di adozione, ma comporta oltre al riscontro di conformità con le previsioni dei piani e degli strumenti programmatori territoriali sopraordinati, anche una serie di apprezzamenti discrezionali sulla compatibilità delle scelte urbanistiche privilegiate dai Comuni e sulla loro idoneità a perseguire gli obiettivi definiti in serie di programmazione sovracomunale”.
Il TAR ha chiarito questa, peraltro non facile, geografia delle competenze quando è stato interessato per dirimere controversie ingenerate da provvedimenti della Provincia (o, prima che la delega si attivasse, della Regione) censurati come troppo invasivi delle scelte del Comune e comunque travisanti o sconvolgenti le stesse.
E’ infatti evidente che il nodo di maggiore criticità nei rapporti Comune-Provincia, risiede nell’atto finale con il quale la Provincia approva, non approva, prescrive, impone o opera direttamente modifiche sul P.R.G. pervenutogli dal Comune.
Va opportunamente precisato, e lo stesso TAR ne da atto, che quando si parla di modifiche ci si intende riferire a quelle che Provincia e Regione apportano d’imperio, incidendo direttamente sul piano che risulta quindi modificato dall’iniziativa unilaterale dell’Ente territorialmente sovraordinato.
Bisogna permettere una precisazione altrimenti le sentenze non sono comprensibili e tanto meno la sintesi che qui vien fatta.
O si tratta di imposizioni unilaterali direttamente operate dalla Regione e poi, in successione di tempo, dalla Provincia, ed allora il problema è se il Comune si è o meno ribellato.
Se l’ha fatto, il TAR ha deciso (vedasi sentenza n° 126/2000 appresso recensita) delibando il caso e scandendo le linee di confine; se non l’ha fatto, l’imposizione – legittima o no che fosse – con l’adesione del Comune è divenuta norma di P.R.G.
Il che qualifica diversamente i rapporti sostanziali e processuali nei quali si vengono a trovare i Comuni da una parte ed i soggetti interessati dall’altra.
a) Nel caso di prescrizioni invasive non accettate dal Comune, sarà questo a dover ricorrere contro il ritenuto straripamento della Regione o della Provincia, a meno che non voglia lasciare incompiuto il procedimento ed instaurarne un altro.
b) Il caso dei privati si snoda in una serie di ipotesi emergenti dalle sentenze sotto riportate che vedono i privati stessi ricorrere contro le prescrizioni impartite ed accettate chiamando in giudizio Regione o Provincia per l’imposizione ritenuta illegittima, oltre al Comune per l’adesione data ad essa.
Non è stato reperito alcun caso (probabilmente perché l’Amministratore marchigiano è una persona tranquilla che ama mettere comunque punto ed andare a capo) di reazione all’imposizione della Regione-Provincia fuori dello strumento processuale, con decapitazione cioè del procedimento a suo tempo iniziato ed instaurazione di uno nuovo.
Il caso, se si verificherà, sarà sicuramente interessante stante l’intreccio tra interessi oppositivi e pretensivi e stante lo spessore dei poteri che il Giudice Amministrativo vorrà mettere in campo.
Esulano pertanto dal concetto di “modifiche d’ufficio” – ed il TAR ne da puntualmente atto – tutte quelle incisioni sul corpo della pianificazione, veicolate come prescrizioni, condizioni o altro, che sono sollevate dalla Provincia o Regione ma che poi sono accettate dal Consiglio Comunale che non ha quindi inteso far valere diverso atteggiamento (quando lo ha fatto, è il caso della sentenza n° 126/2000, il TAR ha detto la sua che verrà di seguito recensita).
– Sentenza 13/10/2000, n° 1445
Vi si afferma il principio che la Regione nel periodo nel quale ha esercitato ancora, per norma transitoria recata nella legge urbanistica regionale n° 34/92, le competenze urbanistiche, legittimamente espletava i suoi compiti nel rispetto degli adempimenti procedurali previgenti (acquisizione del parere del Comitato Urbanistico Regionale e della IV° Commissione permanente del Consiglio Regionale) all’entrata in vigore della nuova Legge Urbanistica Regionale e legittimamente la Regione suggeriva una soluzione diversa da quella originariamente proposta dal Comune, ma poi accettata dallo stesso Comune “per meglio assicurare la salvaguardia della valenza panoramica ed ambientale della zona, messa in risalto anche dal CUR che aveva evidenziato l’avvenuto eccessivo sfruttamento edilizio della stessa zona”.
In conclusione il TAR ritiene che la scelta sollevata dalla Regione rientra fra le prerogative discrezionali che hanno trovato “motivo in ragioni di tutela paesaggistica” che anche il Comune ha da ultimo condiviso modificando il suo originario divisamento.
Di ciò si è parlato sopra alle pagg. 7 e 8.
– Sentenza 8/2/2002, n° 114 – –
“La Regione Marche ai sensi dell’art. 27, 1° comma, lett. b) L.R. 5/8/2002, n° 34, sostanzialmente attuativo delle ipotesi indicate nelle lett. a), b), c), del 2° comma dell’art. 10 della Legge n° 1150/1942, ben può subordinare l’approvazione dei piani regolatori generali, senza riadozione e ripubblicazione, al recepimento da parte del Comune interessato di modifiche sostanziali se attinenti alle ipotesi di cui alle lettere a), b) e c) del successivo art. 28 ed in particolare all’osservanza dei limiti e dei rapporti di cui ai precedenti artt. 18, 19, 21, cioè al dimensionamento ed alla capacità insediativa teorica, all’individuazione delle zone territoriali omogenee, di dimensionamento ed alla localizzazione degli spazi pubblici”.
In sostanza , dice il TAR, la Regione può apportare modifiche al piano (nel caso deciso attraverso il condizionamento dell’approvazione finale) nei casi previsti dalla L.R. Marche che, per il vero, sono abbastanza larghi (entità ed esattezza del dimensionamento della volumetria complessivamente prevista, compreso quello residenziale, logicità e congruenza degli indici urbanistici ed edilizi anche in relazione alla previsione del regolamento edilizio tipo, tutela dei crinali, incidenza sugli aspetti paesaggistici, correttezza dei calcoli circa la volumetria residenziale).
– Sentenza 25/3/2002, n° 236-
Da atto che stralci e prescrizioni della Regione sono stati accettati dal Comune e quindi non costituiscono tecnicamente “modifiche d’ufficio”, ma respinge la censura del ricorrente per la quale la Regione non poteva dettare “prescrizioni analitiche del tenore di quella oggetto del giudizio”, in quanto il TAR riscontra che fra i limiti ed i rapporti di cui agli articoli 18, 19 e 21 della L.R. 34/92 figurano anche quelli relativi alle altezze.
E poiché nel caso dedotto si era trattato, sinteticamente, di una prescrizione che fissava l’altezza massima dei fabbricati, in una particolare zona di completamento, in 12 metri, il TAR dichiara infondata detta censura riconoscendo quindi alla Regione poteri incidenti anche sul detto dettaglio.
Proseguendo però nella disamina la stessa sentenza ritiene meritevole di accoglimento altra censura che sollevava difetto di motivazione, contraddittorietà, travisamento, salvando così un ricorso che in prima battuta sembrava perduto, formulando il sacrosanto principio che “pur in assenza di una precedente lottizzazione convenzionata” qualora la statuizione del P.R.G. abbia “specifica incidenza, in senso peggiorativo per gli interessati, su una determinata situazione meritevole di particolare considerazione per la singolarità del sacrificio imposto o per la preesistenza di aspettative ingenerate nel privato”, ricorre “la necessità di una circostanziata motivazione sul revirément effettuato, che consenta di verificare la coerenza dell’azione amministrativa nel suo concreto svolgersi, anche in rapporto alle aspettative del privato che – dopo aver confidato in una determinata possibilità di utilizzazione edificatoria della propria area nella prima stesura dello strumento urbanistico – si è visto inopinatamente mutare tale possibilità nella successiva fase di approvazione”.
E’ sicuramente una sentenza coraggiosa (perché sembra portare l’obbligo della motivazione delle scelte urbanistiche oltre i confini canonizzati della giurisprudenza) e condivisibile per il sapiente mix che opera fra accertamenti, rilievi anche tecnici, situazione esistente ed incoerenza di scelta sia pure versata in una situazione di dettaglio.
– Sentenza 9/6/2000, n° 896 –
Trattasi anche qui di prescrizioni della Regione, censurate dal ricorrente come pesanti, ma accettate dal Comune.
La decisione afferma la legittimità dell’atto, con il quale la Regione ha modificato le disposizioni relative alla disciplina edilizia ed urbanistica dell’area del ricorrente riconoscendo alla Regione, sulla base dell’art. 10 della L. 1150/42, la definitiva decisione sulle osservazioni proposte, nonché la possibilità di apportare al piano le modifiche riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio e di complessi storici monumentali, ambientali ed archeologici, vietando solo quelle che “comportino sostanziali innovazioni, tali cioè da mutare le caratteristiche essenziali del piano ed i criteri di impostazione”.
Nel caso di specie la Regione aveva prescritto ed il Comune accettato la modifica della disciplina per il notevolissimo valore panoramico del versante che guarda al mare e per la natura ripida ed acclive dell’area.
– Sentenza 3/3/2003, n° 63-
Una variante al P.R.G. aveva modificato la destinazione di un’area da edificabile ad area di arredo urbano e verde di interesse naturalistico; il Comune accoglieva l’osservazione dell’interessato, ma la Provincia respingeva detta osservazione ed accoglieva invece quella presentata da due Consiglieri Comunali approvando quindi definitivamente la variante.
Il TAR ha ritenuto legittimo l’operato della Provincia sia perché non incideva sulle caratteristiche essenziali del piano adottato, sia perché diretta a tutelare l’ambiente stante anche l’inclusione dell’area in un punto panoramico ricompreso nel paesaggio agrario storico di cui all’art. 38 P.P.A.R., oltrechè nella tutela dei crinali.
– Sentenza 27/1/2000, n° 126 –
La decisione merita menzione perché statuisce su variante ex art. 1, 5° comma, L. 1/78 e perché rappresenta un caso in cui un Comune non è stato al gioco della Provincia; si è ribellato cioè a prescrizioni imposte con l’atto di approvazione di variante parziale, concernenti eliminazione di tetto mansardato e riproposizione di falde, sostituzione delle finestre ad arco con finestre di forma rettangolare, colorazione, paramento a mattoni e simili.
Il TAR sulla base di norme a regime (art. 28 L.R. 34/92 e richiami dallo stesso effettuati) ha accolto la contestazione del Comune statuendo che simili prescrizioni “sono del tutto estranee alle ipotesi legislative ed attengono al merito delle scelte progettuali per la realizzazione del complesso costituente il secondo nucleo della residenza sanitaria locale, sebbene la variante al P.R.G. sia stata chiesta ai sensi dell’art. 1, 5° comma, L. 3/1/1978 n° 1, perché l’intervento non era compatibile con le specifiche prescrizioni edificatorie della zona”.
La sentenza 26/1/2001, n° 117 va segnalata per la particolarità del caso trattato (inserimento dei terreni dei ricorrenti nell’ambito di un P.I.P. a seguito di imposizione della Provincia in sede di approvazione del P.R.G.).
Il TAR è stato chiaro e tassativo: “Non è consentito all’Amministrazione preposta all’approvazione dello strumento urbanistico comunale di stabilire le modalità di attuazione delle scelte programmatorie privilegiate dal Comune, essendo il suo controllo limitato alla verifica della compatibilità o meno in termini qualitativi e quantitativi del tipo di destinazione ed utilizzazione impresso al territorio comunale in sede di adozione del P.R.G., con la programmazione urbanistica sovracomunale e con le caratteristiche territoriali economiche e sociali della realtà locale.
Pertanto, una volta avallata da parte dell’Autorità provinciale una determinata zonizzazione urbanistica per quanto concerne le aree di espansione a vocazione produttiva, la scelta delle modalità di attuazione della stessa, a mezzo interventi ad iniziativa privata o pubblica, è rimessa all’esclusiva discrezionalità degli organi comunali.
Per cui, acclarato in atti che i terreni di proprietà dei ricorrenti già avevano una destinazione produttiva nel P.R.G., la loro ricomprensione nell’ambito di un P.I.P. non comportava alcun coinvolgimento dell’Amministrazione provinciale competente all’approvazione del P.R.G., in quanto, come si è avuto modo di precisare, la scelta nelle soluzioni attuative delle previsioni del P.R.G. è rimessa all’esclusiva competenza degli organi comunali, fatto salvo l’eventuale successivo controllo dell’Autorità regionale e provinciale delegata che, tuttavia, nella Regione Marche risulta escluso, stante la previsione dell’art. 4 della legge urbanistica regionale 5 agosto 1992, n° 34, che ha attribuito ai Comuni tutte le funzioni amministrative in materia di adozione ed approvazione degli strumenti urbanistici attuativi, tra i quali vanno ricompresi anche i P.I.P.”.
B) Competenza degli organi della Provincia
Nella Regione Marche la L.R. n° 34/92, art. 3, ha attribuito alle Provincie il potere di approvazione degli strumenti urbanistici generali comunali e relative varianti, senza tuttavia individuare l’organo della Provincia cui spetta tale compito.
E’ così avvenuto che taluni piani regolatori sono stati portati all’esame della Giunta Provinciale suscitando reazioni in sede giurisdizionale che il TAR Marche ha delibato e risolto con molta saggezza.
E’ avvenuto però anche che la Regione con L.R. n° 19/2001 ha individuato nell’organo competente la Giunta Provinciale qualificando peraltro il suo atto come “parere” e non più come provvedimento.
Si passa in rassegna la giurisprudenza del TAR sulla materia, distinguendo le decisioni emanate su giudizi emanati sotto la vigenza dell’originario testo dell’art. 26 L.R. 34/92 da quelle emanate su atti emessi sotto la vigenza della novella introdotta dalla L.R. n° 19/2001.
B.1: Decisione sul testo originario della L.R. n ° 34/92
– Sentenza 10/3/2000, n° 389 –
Prende atto che l’art. 3 della L.R. 5/8/1992, n° 34 si è astenuto nell’individuare l’organo provinciale competente ad esercitare le funzioni in materia urbanistica delegate dalla Regione e rileva che l’omissione è dovuta al rispetto della legge nazionale cui l’ordinamento attribuisce il compito di definire il quadro delle competenze degli Enti Locali; compito espletato dalla Legge Nazionale 8/6/1990 n° 142 che all’art. 32 ricomprende fra i compiti del Consiglio Provinciale quelli aventi ad oggetto i piani urbanistici da intendersi, sottolinea opportunamente la sentenza, non limitatamente alle competenze proprie della Provincia che adotta il piano territoriale di coordinamento, ma esteso ad ogni manifestazione dell’esercizio del potere urbanistico che non può non comprendere anche la verifica ed il controllo della pianificazione di livello comunale.
Interessante e sintomatica di grande sensibilità è la motivazione che porta il TAR a riconoscere la competenza del Consiglio e non della Giunta Provinciale; motivazione che si riporta senza commenti, tanta è la sua chiarezza: “L’operazione di approvazione dei piani regolatori comunali e delle loro varianti non si risolve in un mero controllo di legittimità dei relativi atti di adozione, ma comporta, oltre al riscontro di conformità con le previsioni dei piani e degli strumenti programmatori territoriali sovraordinati, anche una serie di apprezzamenti discrezionali sulla compatibilità delle scelte urbanistiche privilegiate dai Comuni e sulla loro idoneità a perseguire gli obiettivi definiti in sede di programmazione territoriale sovracomunale.
Poiché tale attività di riscontro e controllo può dare luogo anche all’imposizione di specifiche condizioni per assicurare tale finalità e per garantire l’accoglimento di osservazioni presentate durante il procedimento di adozione dello strumento urbanistico da parte dei privati, senza contare la possibilità di restituzione del piano e della variante al Comune per la rielaborazione, ritiene il Collegio che, in mancanza di una contraria disposizione normativa, l’esercizio di tale potere debba essere riservato alla competenza del Consiglio provinciale, attesa la sicura ricomprensione del potere di approvazione degli strumenti urbanistici nella più generale potestà di programmazione urbanistica riservata al suddetto organo elettivo dell’art. 32 della L. n° 142 del 1990, attesa l’accennata possibilità di condizionare le scelte urbanistiche dei Comuni attraverso la suddetta attività di controllo e, quindi, da ciò l’opportunità che, nel silenzio della legge, tale potestà di carattere politico-amministrativo sia esercitata dall’organo elettivo dell’Ente, piuttosto che dalla Giunta provinciale, i cui componenti sono nominati dal Presidente della Provincia”.
– Sentenza 29/9/2000, n° 1310 –
Ribadisce gli stessi concetti
– Sentenza 3/3/2003, n° 63 –
Ribadisce lo stesso insegnamento, perché sebbene emessa nel 2003, giudica su ricorso avverso atti emanati nel 1997 e 1998, cioè sotto la vigenza del testo originario della L.R. n° 34/92.

B.2 Come già cennato con L.R. n° 19 del 16/8/2001 è stato totalmente modificato e sostituito l’art. 26 della L.R. 34/92 con nuova disposizione che sinteticamente prevede:
che la competenza ad esaminare i piani regolatori generali dei Comuni e loro varianti, spetta alla Giunta Provinciale e non (più) al Consiglio Provinciale;
che l’atto che la Giunta Provinciale emette è un parere.
Il TAR delle Marche con sentenza 20/1/2003, n° 6, si è occupato degli effetti della novella in relazione ad una serie di questioni, fra le quali quella che interessa la presente trattazione ed ha esaminato
a) la qualificazione del nuovo atto della Provincia come “parere”;
b) se la diversa qualificazione comportasse il venir meno del potere provvedimentale che il testo originario dell’art. 26 L.R. 34/92 riconosceva all’atto del Consiglio Provinciale di approvazione (condizionata o meno) o di non approvazione;
c) se in conseguenza del risultato dell’analisi di cui alla precedente lettera, la delibera del Consiglio Comunale di esame delle osservazioni assurgesse a dignità processuale più pregnante di quella che rivestiva sotto l’originario testo dell’art. 26, nel senso che la novella facesse assurgere la detta delibera comunale ad atto sostanzialmente conclusivo della procedura e quindi impugnabile.
Il TAR Marche con la sentenza in commento ha statuito che il “parere” attribuito dalla novella alla competenza della Giunta Provinciale è un parere con tutte le conseguenze che da ciò derivano sul piano processuale e che portano a riconoscere posizione conclusiva del procedimento alla delibera del Consiglio Comunale che decide sulle osservazioni.
Chi scrive ha avuto modo di dissentire sul punto che il parere fosse effettivamente un parere, cioè espressione di una mera attività consultiva, e di rilevare che la delibera comunale di decisione sulle osservazioni non acquisisce, a seguito della novella legislativa alcuna autonoma rilevanza, diversa da quella che aveva nel previgente ordinamento (l’approvazione del P.R.G. avviene – così testualmente la novella – con ulteriore delibera comunale dopo l’espressione del “parere” provinciale); che paradossalmente la novella aveva aumentato e non diminuito i poteri della Provincia attribuiti però, incomprensibilmente e con violazione delle più elementari regole della democratica rappresentativa, alla Giunta Provinciale, organo politicamente irresponsabile data la sua origine “regia”, sottraendola all’organo democratico per eccellenza, e quindi rappresentativo: il Consiglio Provinciale.
Per i dettagli si rinvia al nostro commento rinvenibile su www.diritto.it, rubrica: “Osservatorio sulla giurisprudenza del TAR Marche”, sottorubrica: “ Dottrina ( note e commenti)”.
2.-3.-CONTROINTERESSATI
Il TAR segue l’insegnamento tradizionale della inconfigurabilità di controinteressati nella materia della pianificazione urbanistica generale; principio che esclude l’obbligo della notifica del ricorso a terzi.
Con la sentenza n° 1310/2000 già sopra recensita in occasione della disamina dei rapporti fra i poteri in campo urbanistico del Comune e della Provincia, il TAR ha anche affermato: “secondo l’orientamento della giurisprudenza in materia di strumenti urbanistici va esclusa, al momento dell’impugnazione, la configurabilità di interessi qualificati alla loro conservazione e, quindi, di controinteressati in senso formale, nemmeno con riguardo agli eventuali soggetti nominativamente indicati negli atti impugnati”: conformi Adunanza Plenaria 8/5/1996, n° 2; Sez. IV, 12/11/1996, n° 1024.
2.-4.-DESTINAZIONI URBANISTICHE
2.-4.-1.-Valgono i principi a regime e le competenze sopra passati in rassegna. Si sono scelte alcune sentenze che hanno delibato la questione su fattispecie del tutto particolari.
– Sentenza 21/1/2001, n° 117 –
Il Comune aveva deliberato l’individuazione nell’ambito delle zone a destinazione produttiva del P.R.G., di alcune aree da ricomprendere in apposito P.I.P.
Alla reazione dei proprietari il TAR ha risposto:
a) circa la necessità della comunicazione di avvio del procedimento
Non è necessaria alcuna comunicazione di avvio del procedimento, atteso il carattere meramente interlocutorio e non provvedimentale dell’atto ed atteso che comunque la procedura di P.I.P. garantisce la più ampia possibilità e conoscenza;
b) circa la regolarità della notifica
Che la nullità (sollevata dai ricorrenti) della notifica della suddetta delibera, anche ove esistesse, non incide sulla legittimità dell’atto ma solo sulla sua conoscenza, influendo quindi soltanto sulla decorrenza del termine di impugnativa;
c) circa i poteri del Comune
Il Comune ha piena facoltà di scegliere come attuare le destinazioni di zona impresse dal P.R.G., senza peraltro che la Provincia (come già sopra riportato nell’apposito capitolo), possa mettere in forse le scelte del Comune o formulare prescrizioni o imporre soluzioni;
d) circa la motivazione
Il Comune deve però sapientemente esprimere le ragioni che consigliano di procedere con lo strumento del P.I.P., che comporta sacrifici ai privati proprietari; ragione che possono ben individuarsi nelle “crescenti richieste di imprenditori locali”, nell’inadeguatezza delle aree con destinazione produttiva utilizzabili nell’immediato, nella mancanza di piani attuativi di iniziativa privata.
2.-4.-2.-ZONA AGRICOLA
Utilizzo per uso diverso da quello agricolo – esclusione
– sentenza 8/2/2002, n° 118 –
Il commento si limita ai profili urbanistici (quelli edilizi – diniego di concessione edilizia – verranno trattati in altra parte) che discendono dalle N.T.A. del P.R.G. che disponevano (art. 19) che “le zone agricole individuate ai sensi del D.M. 2/4/1968, n° 1444, sono riservate ai fabbricati ed ai manufatti destinati all’esercizio delle attività agricole, recuperabili alla produzione agricola, destinate ad attività direttamente connesse con le produzioni agricole”.
La controversia è sorta su un manufatto agricolo condonato che si intendeva destinare ad utilizzo residenziale; intento che il TAR non ha condiviso rilevando che, alla stregua delle N.T.A. prese in considerazione, i manufatti condonati debbono mantenere l’uso condonato e che utilizzi diversi sono possibili solo se mantengono la loro connessione con l’attività agricola.

-EDIFICI RURALI: SIGNIFICATO DI CONSOLIDAMENTO ED ADEGUAMENTO ANTISISMICO
– Sentenza 7/3/2002, n° 213-
Anche qui si prescinde dal profilo edilizio (diniego concessione edilizia) e si sintetizza il profilo urbanistico consistente nel cambio di destinazione d’uso di edificio colonico in casa di civile abitazione.
Anche in questo caso vengono in evidenza le N.T.A. del P.R.G. dettate in adeguamento al P.P.A.R., che per gli edifici rurali pesantemente danneggiati esistenti in aree dei versanti collinari di valore panoramico ambientale, prevedono particolari tecniche ed opere di recupero.
Questo lo stralcio significativo: “Secondo il Collegio, il comportamento degli Uffici Comunali si pone in contrasto con le norme cui hanno ritenuto di dare applicazione le quali, al contrario di quanto affermato dalla Commissione Edilizia e dal Dirigente che ha formalizzato il diniego di concessione, non escludono in assoluto la possibilità che, in sede di ristrutturazione degli edifici rurali con vincolo di adeguamento tipologico, si possa fare ricorso anche a tecniche di consolidamento e adeguamento sismico di tipo moderno, quale risulta la struttura in cemento armato progettata dal ricorrente da inserire armonicamente all’interno del complesso murario perimetrale esistente.
Giova al riguardo considerare che l’edificio oggetto dell’intervento costruttivo risulta classificato come rurale storico fortemente alterato (B2) e secondo quanto accertato nell’apposita scheda n° 8 F – 137 di indagine sul patrimonio rurale compiuta dal Comune e prodotta in atti, è stato valutato privo di particolare interesse architettonico e risulta disabitato perché reso inagibile dagli eventi sismici del 1972 ed in stato di abbandono, come attestato nella relazione tecnica allegata al progetto.
A fronte di quanto riferito è di tutta evidenza che il consolidamento e l’adeguamento sismico dell’immobile imposto obbligatoriamente dall’art. 93 delle N.T.A., appare prioritario per il recupero della sua funzione abitativa, come peraltro ribadito dallo stesso art. 34 delle N.T.A. del P.R.G. che, per quanto riguarda gli interventi di ristrutturazione ricompresi nella categoria CPI13, subordina l’utilizzo di tecniche di consolidamento di tipo moderno alla salvaguardia dei contesti architettonici da realizzare anche con opportune opere di tamponamento delle eventuali strutture in cemento armato con materiali idonei”.
2.-4.-3.-AREE PRODUTTIVE
– Sentenza 3/3/2003, n° 41-
“E’ illegittima la delibera comunale di risoluzione di una convenzione di trasferimento della proprietà di aree edificabili, comprese nell’ambito del P.I.P., per mancato rispetto di termini di inizio e compimento di lavori edilizi dalla data di rilascio della concessione, qualora fatti sopravvenuti, non dipendenti dalla volontà del contraente privato, ma dipendenti da fatto del Comune – factum principis – abbiano impedito o comunque ritardato il rispetto dei predetti termini da intendersi automaticamente prorogati”.
2.-5.-DISPARITA’ DI TRATTAMENTO
Inconfigurabilità – ragioni
– Sentenza 3/3/2003, n° 63 –
“Per costante indirizzo giurisprudenziale (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 novembre 2001, n° 5721) la valutazione dell’idoneità delle aree a soddisfare specifici interessi urbanistici, con riferimento alle possibili destinazioni, costituisce esercizio di un potere di scelta, rispetto al quale non è ipotizzabile l’identità di situazioni soggettive ed oggettive che costituisce il presupposto indispensabile per poter configurare, tra i vari soggetti interessati, il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento od ingiustizia manifesta”.
La sentenza riecheggia l’acuta osservazione di Paolo Stella Richter “I principi del diritto urbanistico” Ed. 2002, per la quale il diritto urbanistico è per sua natura “discriminatorio”, nel senso che necessariamente tratta le situazioni proprietarie in maniera funzionalmente connessa con le esigenze di assetto che viene impresso al territorio.
2.-6.-MOTIVAZIONE DELLE SCELTE URBANISTICHE NECESSITA’ O NON NECESSITA’ – DIVERSITA’ DI FATTISPECIE
Già sopra sotto altra rubrica, si è esposto l’atteggiamento del TAR in tema di motivazione dei e nei vari segmenti in cui si articola il procedimento di P.R.G.
Il TAR, salva la sentenza n° 236/02 di cui sopra si è già detto per altri profili, segue l’insegnamento tradizionale che vuole la non necessità della motivazione puntuale per le scelte di pianificazione generale, bastando le linee che emergono dalla relazione al piano stesso.
Fanno ovviamente eccezione le modifiche di destinazione che cadono su situazioni che hanno incardinato precise posizioni in capo ai privati (il cosiddetto ius novorum), per la cui rimozione è necessaria una motivazione che dia conto sia dell’avvenuta comparazione degli interessi, sia della considerazione del sacrificio imposto ai privati ed al loro affidamento, sia della evidente prevalenza dell’interesse pubblico ad un diverso assetto.
Ovviamente permangono delle zone di confine che non è sempre facile includere nella categoria inducente la necessità di una motivazione puntuale, analitica e incentrata su elementi di oggettiva attualità, o nell’altra categoria di più leggera o inesistente motivazione.
Si riportano due sentenze espressive di diverse fattispecie e quindi di diversa statuizione sul punto.
– Sentenza 25/3/2002, n° 236 –
Già riportata sopra sub “competenze A) Riparto di poteri fra Comune e Provincia”; sancisce l’obbligo della motivazione: “pur in assenza di precedente lottizzazione convenzionata, per la specifica incidenza in senso peggiorativo su situazione meritevole di particolare considerazione per singolarità del sacrificio imposto o per la preesistenza di aspettative”.
– Sentenza 17/3/2003, n° 97i –
Afferma invece il principio che lo stralcio di lottizzazione scaduta, non ingenera obbligo di motivazione in capo all’Amministrazione; il proprietario non è titolare di alcun interesse legittimo ma solo di una generica aspettativa.
La sentenza va letta in relazione alla concreta fattispecie decisa (lottizzazione convenzionata nel 1976, prorogata al 1998 inserita in P.P.A.) con proroga quindi di ulteriori cinque anni senza che fosse richiesto significativo numero di concessioni edilizie, peraltro non eseguite.
3.-PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DEL P.R.G.
3.-1.-Problematiche circa la normativa antisismica
Si riportano le decisioni sui momenti di maggior rilievo.
– Sentenza 17/3/2003, n° 97 –
Conformità sismica – necessità – momento temporale
Passa in rassegna la legislazione sulla materia (L. 2/2/1974, n° 64, art. 13; art. 20 L. 10/12/1981 n° 741; L.R. 5/8/1992, n° 34 – legge urbanistica regionale – e precedente L.R. 8/3/1990, n° 13 per l’edificazione in zone agricole) affermando che pur ove si volesse ritenere persistente l’operatività dell’art. 13 della L. 64/74, l’obbligo dell’acquisizione del parere non può precedere l’adozione dello strumento urbanistico perché ciò imporrebbe all’Ente Locale “l’obbligo di richiedere un parere ancor prima di aver improntato lo schema progettuale del piano che intende adottare”.
La conclusione del TAR è del tutto condivisibile: “L’art. 26, ai commi 1° e 2° della L.R. n° 34 del 1992, fa seguire ad una prima delibera “l’adozione del piano”: il suo deposito, la sua pubblicazione, la formulazione d’osservazioni, l’adozione definitiva del piano “con le eventuali modifiche conseguenti all’accoglimento delle osservazioni”.
Il parere dell’ufficio regionale (ormai sostitutivo di quello del non più esistente ufficio del Genio Civile), sugli aspetti del piano che attengono ad una maggior sicurezza cui deve essere assoggettata l’attività edilizia nelle zone sismiche, si colloca nello spazio temporale che intercorre tra l’adozione della prima delibera (quando già è stato elaborato un progetto urbanistico-edilizio e sono state formulate le N.T.A.) e della seconda”.
Sentenza 7/3/2002-
Merita di essere segnalata per la particolarità della fattispecie esaminata (tecniche di adeguamento sismico di tipo moderno), che sulla base delle N.T.A. portate da P.R.G. in adeguamento al P.P.A.R. ha puntualizzato, in relazione agli interventi edilizi ammissibili su edifici agricoli insistenti su aree dei versanti collinari di valore panoramico-ambientale, la piena legittimità del progetto di consolidamento sismico attraverso l’inserimento di uno scheletro portante a gabbia in cemento armato con conseguente abolizione delle murature interne di spina e la trasformazione di quelle perimetrali dalla funzione portante a quella di confinamento.
Si riporta stralcio significativo della decisione: “Secondo il Collegio, il comportamento degli Uffici comunali si pone in contrasto con le norme cui hanno ritenuto di dare applicazione le quali, al contrario di quanto affermato dalla Commissione edilizia e dal Dirigente che ha formalizzato il diniego di concessione, non escludono in assoluto la possibilità che, in sede ristrutturazione degli edifici rurali con vincolo di adeguamento tipologico, si possa fare ricorso anche a tecniche di consolidamento e adeguamento sismico di tipo moderno, quale risulta la struttura in cemento armato progettata dal ricorrente da inserire armonicamente all’interno del complesso murario perimetrale esistente.
Giova al riguardo considerare che l’edificio oggetto dell’intervento costruttivo risulta classificato come rurale storico fortemente alterato (B2) e secondo quanto accertato nell’apposita scheda n° 8F-137 di indagine sul patrimonio rurale compiuta dal Comune e prodotta in atti, è stato valutato privo di particolare interesse architettonico e risulta disabitato perché reso inagibile dagli eventi sismici del 1972 ed in stato di abbandono, come attestato nella relazione tecnica allegata al progetto.
A fronte di quanto riferito è di tutta evidenza che il consolidamento e l’adeguamento sismico dell’immobile imposto obbligatoriamente dall’art. 93 delle N.T.A., appare prioritario per il recupero della sua funzione abitativa, come peraltro ribadito dallo stesso art. 34 delle N.T.A. del P.R.G. che, per quanto riguarda gli interventi di ristrutturazione ricompresi nella categoria CPI13, subordina l’utilizzo di tecniche di consolidamento di tipo moderno alla salvaguardia dei contesti architettonici da realizzare anche con opportune opere di tamponamento delle eventuali strutture in cemento armato con materiali idonei”.
3.-2.-OSSERVAZIONI DI PRIVATI
3.-2.-1.- Sentenza 29/9/2000, n° 1310-
La Provincia nella sua attività di riscontro può dettare condizioni per assicurare il rispetto degli indirizzi definiti dalla programmazione sovracomunale e per garantire l’accoglimento di osservazioni presentate durante il procedimento di adozione dello strumento urbanistico.
Sulle puntualizzazioni critiche in ordine al potere della Provincia di riesaminare e decidere sulle osservazioni, si rinvia al successivo capitolo “Ripubblicazione del P.R.G. a seguito di accoglimento di osservazioni”.
3.-2.-2.-OSSERVAZIONI TARDIVE
– Sentenza 6/11/2002, n° 63-
“A pag. 5 della deliberazione d’approvazione con proposta di modifiche (n° 141 del 1997) al punto 3), il Consiglio Provinciale ha notato come vi siano state diverse osservazioni “tardive”, alcune delle quali sono state oggetto di verifica dell’Autorità comunale, tra le quali quelle, respinte dalla medesima autorità, presentate da due Consiglieri comunali il 2 maggio 1995 (dopo la scadenza del termine del 24 aprile 1995).
Diverso è stato il giudizio pronunciato dalla Provincia che le ha accolte.
Dato che non è normativamente fissato un termine perentorio, l’accoglimento di osservazioni “tardive” è possibile, non costituendo un mezzo di gravame, inoltre, è doverosa (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. II, 24 marzo 1999, n° 336) vieppiù nell’ipotesi, che qui ricorre, che le stesse contraddicono altra osservazione tempestivamente presentata (quella del ricorrente) e si conformano ai criteri valutativi ed agli orientamenti generali espressi in più atti del procedimento”.
PARERE SOPRINTENDENZA: NON NECESSITA’
3.-3.- Sentenza 21/4/2000 n° 677 –
E’ una decisione importante e della quale non esistono precedenti.
Si riporta ampio stralcio che per la sua chiarezza non richiede aggiunte e commenti.
La prima censura (infondata) muove dalla condizione apposta, con decisione 6 giugno 1996 n° 960313, dalla Commissione di Controllo sugli atti della Regione Marche che, nell’apporre il visto sulla delibera n° 1407 del 1996, ha invitato la Regione ad acquisire il parere (pur richiesto) della Soprintendenza ai Beni Ambientali.
Il ricorrente non indica tra gli atti impugnati, né fa oggetto di censure, la decisione della Commissione di Controllo, ma rileva come la delibera regionale n° 1407 del 1996, impugnata, sia stata emanata in mancanza del predetto parere.
L’acquisizione postuma non potrebbe sanare il vizio del procedimento (l’organo deliberante prima di emettere l’atto avrebbe dovuto conoscere e valutare il prescritto parere).
In forza del D.P.R. 15 gennaio 1972, n° 8 e dell’art. 82 del D.P.R. 24 luglio 1977, n° 616, modificato dal D.L. 27 giugno 1985, n° 312, come convertito dalla legge 8 agosto 1985, n° 431, le funzioni amministrative degli organi periferici e centrali dello Stato in materia ambientale e paesistica sono state trasferite alle Regioni.
Ancor prima l’art. 2 della L. 1° giugno 1971, n° 291, nel sostituire il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici ad ogni altro parere di amministrazione attiva e corpi consultivi agli effetti dell’approvazione dei piani regolatori generali, aveva abrogato l’art. 45, primo comma, della L. 17 agosto 1942, n° 1150, ai sensi del quale erano invece fatte salve, fra le altre, le competenze del Ministero della Pubblica Istruzione (cui spettava la tutela delle bellezze naturali di cui alla L. 29 giugno 1939, n° 1497).
Già al passaggio delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni era venuta meno la necessità dell’acquisizione di un parere finalizzato alla specifica tutela paesaggistica del corso del sub-procedimento d’approvazione di uno strumento urbanistico.
Nella Regione Marche la L.R. Marche 5 agosto 1992, n° 34 (che reca la disciplina dell’ “articolazione delle funzioni amministrative in materia urbanistica, paesaggistica e di assetto del territorio tra Regione, Provincie e Comuni”) non contempla l’intervento di organi consultivi statali nel procedimento d’adozione e d’approvazione dei piani regolatori generali o delle loro varianti.
Pur nel rispetto di disposizioni (art. 16, comma 3, L. 17 agosto 1942, n° 1150) di leggi quadro statali, l’art. 37 della L.R. Marche n° 34 del 1992, nell’ipotesi d’approvazione di piani particolareggiati (“nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 29 giugno 1939, n° 1497”), non richiede il parere della Soprintendenza ai Beni Ambientali ed Architettonici ma un’istruttoria più elaborata e complessa.
L’art. 8 della L.R. Marche n° 34 del 1992 prevede l’adozione di un P.P.A.R. cui è stata demandata, tra l’altro, l’individuazione delle “fondamentali tipologie territoriali per la conservazione dei caratteri essenziali del paesaggio marchigiano, con particolare riguardo alle zone montane, collinari, costiere, fluviali e agricole, nonché agli agglomerati storici” e delle “zone di particolare interesse paesistico-ambientale, includendovi il complesso degli ambiti territoriali sottoposti al regime di tutela di cui alla legge 29 giugno 1939, n° 1497”.
Vi è di più.
L’art. 62 della L.R. Marche n° 34 del 1992 ha fatto salva l’obbligatorietà dei pareri di cui alla legge 1° giugno 1929 n° 1089, ma ha sancito che “nessun altro parere in materia di tutela ambientale e paesistica è richiesto agli organi e uffici periferici del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali; le disposizioni legislative, regolamentari o procedimentali eventualmente difformi cessano di avere applicazione nel territorio della Regione Marche”.
Infine, l’art. 54 della L.R. Marche n° 34 del 1992 ha regolamentato l’istituzione di un Comitato Regionale per il Territorio, organo consultivo della Giunta Regionale, alcuni dei cui componenti devono essere esperti in materia di ambiente naturale e di beni culturali.
Con delibera 3 novembre 1989 n° 197 la Regione Marche ha adottato il piano paesistico-ambientale e con la variante impugnata il Comune di Osimo ha inteso adeguare il proprio piano regolatore generale alle prescrizioni del piano regionale; il sub-procedimento d’approvazione del piano (ex art. 28 L.R. Marche n° 34 del 1992) è anche finalizzato a verificare il rispetto dei vincoli e delle prescrizioni imposte dal P.P.A.R. a tutela del paesaggio e dell’ambiente.
Il Comitato Regionale per il territorio, organo consultivo, ha espresso ben tre pareri, due nel 1995 ed uno nel 1996, in ordine al contenuto della variante di cui è causa.
3.-4.-RIPUBBLICAZIONE DEL P.R.G. A SEGUITO DI OSSERVAZIONI: MOLTEPLICI PROBLEMATICHE CONNESSE
– Sentenza 8/2/2002 –
Reca l’affermazione che le osservazioni accolte dal Consiglio Comunale non provocano l’obbligo della ripubblicazione, pur se comportano incisive variazioni nello strumento urbanistico, “in quanto le soluzioni così assunte dal Comune ……… non potevano ugualmente ritenersi definitive, ma debbono essere considerate sempre come proposte per le successive decisioni della Regione, proprio perché alla stessa sono demandate le conclusive determinazioni ai sensi appunto dell’art. 10 L. 1150/42 e dell’art. 27, L.R. n° 34/92; infatti la Giunta Regionale ha riesaminato e deciso le osservazioni pervenute”.
La statuizione, prescindendo dal contesto nel quale è stata pronunciata, sembra non reggere ad una analisi critica che evidenzia l’improbabilità di un potere generale di riconsiderazione della Regione (poi Provincia) delle determinazioni che il Comune ha assunto sulle osservazioni e la collegata improbabilità del prosieguo di un iter di un procedimento con contorni sostanzialmente diversi da quelli oggetto di partecipazione scaturita dall’adozione.
Sul primo profilo
L’art. 10, 2°, L.U. non dà alla Regione il potere generale di riesaminare comunque le osservazioni dei privati, altrimenti il P.R.G. lo fa la Regione, o per delega la Provincia, e non il Comune.
La norma in esame, collocata nella parte relativa ai poteri di modifica dell’ente territorialmente sovraordinato, distingue tre ipotesi
a) modifiche, sentito il Comune, che non comportino innovazioni sostanziali, per esse intendendosi quelle idonee a mutare le caratteristiche essenziali del piano;
b) modifiche conseguenti all’accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate con deliberazione del Consiglio Comunale;
c) modifiche indispensabili per assicurare il rispetto dei quattro classici elementi travalicanti i poteri comunali e sintetizzantisi:
nelle previsioni del P.T.C.;
nella razionale sistemazione degli impianti di interesse statale;
nella tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali, archeologici;
nell’osservanza degli standards inderogabili.
La L.R. n° 34/92 all’art. 28, comma 1°, lett. b, attribuisce (anzi attribuiva, perché oggi la L.R. 19/01 ha cambiato le regole) alla Provincia il potere di apportare modifiche ed integrazioni quali l’accoglimento delle osservazioni presentate durante il “procedimento di adozione e che abbiano ottenuto il parere favorevole del Comune ma non siano state recepite negli elaborati o nelle norme di attuazione del piano”.
Dal contesto normativo non deriva quindi che la Provincia sia abilitata comunque a rivedere le osservazioni ed a decidere definitivamente sulle stesse; ciò, secondo chi scrive, è corretto perché:
mantiene distinte le competenze sul “merito” delle scelte urbanistiche che sono nella disponibilità del Comune;
utilizza però opportunamente anche l’istituto delle osservazioni in modo funzionale all’esercizio dei poteri riconosciuti alla Provincia, altrimenti ci sarebbe il reingresso per la finestra di quella confusa contestualità di poteri sullo stesso oggetto, che l’ordinamento ha voluto far restare fuori della porta e che la giurisprudenza si è affannata a distinguere.
In buona e conclusiva sostanza, l’osservazione può servire ad introdurre legittime modifiche al P.R.G. quando esse siano state accettate dal Comune, ma, come sovente avviene, non siano state recepite negli elaborati o nelle norme di attuazione del piano, ovvero quando esse sono causa dell’accertamento, da parte della Provincia, di quegli scostamenti che detto Ente ha potere di rilevare e correggere d’ufficio.
Oltre questi ambiti non sembra che la Provincia possa andare.
Come sopra cennato la L.R. 16/8/2001, n° 19, ha modificato l’art. 26 della L.R. n° 34/92 ed ha abrogato l’art. 28 (sopra commentato) oltre agli artt. 27 e 29 della stessa L.R. 34/92, talchè attualmente la materia delle osservazioni e del loro esame segue le linee ordinarie che non sembra che attribuiscano all’Ente Regione o Provincia il potere generale di esame e decisione sulle stesse.
Sul secondo profilo
Pur a voler ritenere che la Provincia abbia potere di riesaminare e decidere definitivamente su tutte indistintamente le osservazioni, appare chiaro secondo un indirizzo di creazione giurisprudenziale (non risultano disposizioni specifiche che prevedevano l’istituto della ripubblicazione), che il significato reale della partecipazione al procedimento reclama una simmetria con l’oggetto della partecipazione stessa.
Per cui ove l’oggetto sia modificato dall’accoglimento delle osservazioni non nel dettaglio, ma nei tratti caratteristici, ed il procedimento possa comunque andare avanti, non si può dire che quell’oggetto di quel particolare P.R.G. giunto al traguardo sia partecipato.
Con tutto ciò che consegue.
Quindi il problema non è di sapere chi decide in via definitiva; il problema è di conoscere se quel che arriva alla decisione definitiva, sia stato adeguatamente “istruito”, per così dire, secondo i canoni di un corretto procedimento.
4.-VARIANTI AL P.R.G.
4.-1.-Valgono i principi a regime sui presupposti, forme, disciplina. Si citano due sentenze che hanno deciso su fattispecie particolari.
– Sentenza 1/9/2000, n° 1235-
E’ emessa su variante che trasformava aree già destinate a verde in lotto edificabile per edilizia abitativa privata.
Il TAR ha ammesso l’interesse e la legittimazione dei “vicini” al ricorso (se ne è cennato sopra nell’apposito capitolo), riconoscendo giustamente loro una qualificata e differenziata posizione soggettiva pregiudicata, anche sotto il profilo economico, dalla diversa destinazione urbanistica.
Vale riportare l’incisiva motivazione che ha portato i Giudici all’accoglimento: “Nel merito, il ricorso deve essere accolto, essendo fondata la censura di eccesso di potere per sviamento dedotta con il primo motivo, in relazione alla circostanza che la variante da verde pubblico attrezzato ad edilizia residenziale dell’area limitrofa alla proprietà dei ricorrenti non è stata adottata per un fine di interesse generale. Il Collegio considera che lo sviamento di potere sussiste anche per falsità della causa, che si verifica allorché l’amministrazione persegue un fine diverso da quello per il quale il potere esercitato è stato conferito, tenendo per ferma la circostanza che le norme vigenti attribuiscono ai Comuni il potere di adottare gli atti di pianificazione solo per disciplinare l’assetto urbanistico ed edilizio del territorio comunale. All’incontro, nelle premesse della deliberazione del Consiglio comunale di Jesi 13/9/1988 n° 776; intervenuta nel procedimento di adozione della variante, la determinazione amministrativa qui avversata è motivata dal Sindaco con le seguenti considerazioni, espresse a verbale per controdedurre alla osservazione presentata dagli attuali ricorrenti (osservazione n° 127 respinta per le identiche valutazioni di cui alla osservazione n° 123). E’ un lotto una tantum che serve al Comune per fare una permuta e sistemare una propria pendenza … è un lotto che ci serve per la permuta con la ditta Morresi che è stata espropriata sempre nello stesso comprensorio e quindi dobbiamo dare una risposta ad un operatore economico. Da tanto risulta evidente che la variazione della destinazione dell’area in parola non è stata adottata per la realizzazione di una specifica esigenza urbanistica, ma per facilitare l’esercizio di un potere amministrativo del tutto diverso ed estraneo alla pianificazione territoriale”.
– Sentenza 13/10/2000-
Inserimento di quote di edilizia residenziale in aree dismesse: legittimità-ratio.
Sentenza importante anche perché resa su fattispecie complessa (decide su tre ricorsi) che esprimeva forti elementi di contraddittorietà enunciati dal ricorrente, ma che non hanno retto all’attenta analisi del TAR.
In estrema sintesi, il TAR ha ritenuto legittimo l’inserimento, con apposita variante, di quote di edilizia residenziale in aree produttive dismesse destinate al riuso per le quali in precedenza erano previsti soltanto insediamenti terziari; inserimento che secondo i ricorrenti si poneva in contrasto con le limitazioni poste dalla Regione all’incremento di insediamenti residenziali in zona (Collemarino di Ancona) perché ritenuta di particolare interesse paesaggistico-panoramico.
Questo il passo della sentenza che reca la motivazione: “Nel caso che occupa, invece, l’inserimento di nuova cubatura residenziale è stata prevista non attraverso la valorizzazione urbanistica di terreni inedificati ma mediante la ridistribuzione di cubature preesistenti nell’ambito di aree ed insediamenti produttivi dismessi, nel cui contesto erano già previsti interventi edilizi residenziali e produttivi (ex area Sidercomit) e di tipo terziario e turistico (ex area Fiat).
Pertanto, ad avviso del Collegio, il parziale inserimento, nell’ambito degli interventi di riuso di tali aree produttive, di limitate quote di edilizia residenziale, con lo scopo di una migliore integrazione degli immobili a destinazione di servizi terziari e turistici con il contesto urbano esistente, non contribuisce ad alterare le originarie previsioni terziarie delle suddette aree produttive dismesse, né contraddicono l’indirizzo espresso dalla Autorità regionale di limitare gli insediamenti residenziali nella zona di Collemarino che, come si è avuto modo di evidenziare, sembra finalizzato ad evitare lo sfruttamento edilizio di terreni inedificati, piuttosto che a precludere la ridistribuzione di cubature nell’ambito di aree già edificate”.
4.-2.-VARIANTE TRAMITE ACCORDO DI PROGRAMMA.
Sentenza 22/2/2002, n. 184-i
Variante tramite accordo di programma – fattispecie – utilizzo deviante dello strumento – alterazione contenuto funzionale e finalistico.
L’impugnativa era diretta contro l’adozione di variante parziale al dichiarato fine di consentire il recupero di un’area ben definita (ex Consorzio Agrario di Corridonia) avvalendosi del procedimento di accordo di programma ex art. 34 D.Lgs. 267/2000; il tutto era diretto al rilascio di concessione edilizia in capo a soggetto determinato (e non – sottolinea il TAR – a favore di pluralità indistinta di soggetti).
Il TAR ha censurato l’operazione di variante condotta, è necessario sottolinearlo, da Comune che aveva ancora il piano di fabbricazione e che solo di recente aveva adottato un P.R.G. in adeguamento al P.P.A.R.
Queste le interessanti e per molti versi originali considerazioni del TAR: “Il ricorso ad un accordo di programma, così come articolato per realizzare una struttura commerciale nell’area dell’ex Consorzio agrario, è stato fatto oggetto di più censure, più d’una delle quali fondate. A monte, è assorbente la fornita di fondamento censura di deviante utilizzo dell’accordo di programma, non in quanto illegittimamente non rispettate le disposizioni di cui all’art. 34 del D.Lgs. n° 267 del 2000, che ne regolano le diverse fasi, ma perché attraverso tale strumento di semplificazione (ma non d’eliminazione di ogni logica successione temporale e connessione di procedimenti ed atti) l’Amministrazione ha inteso adottare ed approvare un piano attuativo plano-volumetrico, obbligatoriamente previsto dalle N.T.A. del piano regolatore in itinere per le aree delle “Zone D” (produttive con prevalenza di attività terziarie) entro una delle quali insiste un immobile di proprietà della società controinteressata. E’ stata anticipata la definizione di un piano particolareggiato, esecutivo di una porzione di un P.R.G. non ancora approvato e del quale strumento (da ricondurre nella nozione di atto complesso, alla cui formazione concorrono congiuntamente sia l’atto d’adozione da parte del Comune che il successivo deliberato d’approvazione della Regione) avrebbe dovuto essere effetto e mezzo di realizzazione (ove giuridicamente compiuto).
Ciò ha costretto l’Amministrazione:
– ad apportare una modifica al vigente programma di fabbricazione, recependo soltanto in parte le specifiche previsioni del P.R.G. in itinere;
– ad apportare una variazione alle N.T.A. del P.R.G. in itinere;
– ad artificiosamente anticipare (di fatto), mediante l’emanazione del decreto 21/1/2001 n° 3/2001, la complessa ed articolata fase approvativa del P.R.G. in itinere (strumento programmatorio, una parte del quale risulta approvata in corso d’adempimento delle normativamente procedimentalizzate e complesse operazioni istruttorie e di garanzia partecipativa). I provvedimenti posti in essere ed impugnati contravvengono, dunque, al principio di legalità in quanto, pur attraverso l’utilizzo di schemi tipici che convergono nell’accordo di programma, è stato alterato il loro contenuto funzionale e finalistico. E’ quanto rileva la parte ricorrente nell’osservare che, nella specie, l’accordo di programma viene a configurarsi come espediente per aggirare la procedura d’approvazione di un P.R.G. in itinere”.
– Sentenza 17/3/2003, n° 102-
Accordo di programma: natura e funzione – rapporti con pianificazione attuativa
Si riporta ampio stralcio della decisione che delinea con chiarezza la natura ed il procedimento dell’accordo, oltre ai suoi rapporti con la pianificazione attuativa; profilo scottante, stanti le annose polemiche insorte sulle finalità e limiti del P.R.G., del quale non risultano precedenti specifici e che viene qui trattato con ponderato equilibrio arricchendo le tematiche che si intrecciano sull’accordo di programma: “Nessuna limitazione ha stabilito l’art. 34, V comma, del D.Lgs. n° 267/2000 alla natura del variante urbanistica effettuata a seguito di accordo di programma, cioè non è stato affatto stabilita la sua inapplicabilità se la variazione interessa un piano regolatore generale o la sua normativa tecnica, né pone limiti numerici minimi dei soggetti coinvolti dall’accordo: del resto, proprio perché l’oggetto dell’accordo deve essere ben definito, quando si tratta di variare la disciplina urbanistica ed edilizia di carattere generale di una ben individuata parte del territorio comunale per attuarvi un’opera altrettanto ben definita nei suoi elementi essenziali, non solo questa variazione è possibile, ma adempie pienamente alle finalità di semplificazione procedurale che l’art. 34 del D.Lgs. ha inteso perseguire allorché lo ha previsto. Per inciso, nel caso specifico, neppure sono state disattese le esigenze di pubblicità previste dal procedimento ordinario di variante al P.R.G., dal momento che è stata consentita la possibilità di presentare le osservazioni e quelle pervenute (nessuna riguardante l’area dell’ex campo boario) sono state esaminate e decise. L’intervenuta variante neppure può ritenersi, sia pure implicitamente, esclusa dalla L.R. n° 34/1992: infatti, il relativo art. 3, I comma, lett. a), tanto consente anche direttamente e tramite un piano “attuativo” e l’oggetto del contestato accordo di programma è “sostanzialmente” anche un piano attuativo, dal momento che disciplina puntualmente la dimensione e la localizzazione delle costruzioni, l’ubicazione del verde e dei parcheggi, cioè definisce in modo particolareggiato l’utilizzo dell’intera area interessata, a prescindere dalle definizioni di “piano di inquadramento urbanistico e di riqualificazione” di “planivolumetrico” e di “progetto-norma”, di volta in volta utilizzate, peraltro affatto contraddittori, dal momento che il primo intende esplicitare a finalità generale, il secondo la concreta localizzazione delle costruzioni e delle opere ed il terzo esplicita la contestuale finalità di modifica della norma tecnica del piano regolatore generale”.

5.-STRUMENTI ATTUATIVI
Non è stata reperita, nel periodo considerato (2000-2003), grande produzione sulla materia della pianificazione attuativa; si segnalano però le sentenze che seguono per l’originalità delle soluzioni data a fattispecie non usualmente ricorrenti.
5.-1.-Lottizzazione d’ufficio; azione costitutiva P.A. contro privati
– Ordinanza collegiale 8/2/2002, n° 105-
– Sentenza 6/8/2003 n° 939-: giurisdizione su inottemperanza obblighi, azione costitutiva ex art. 2932 c.c. davanti al Giudice Amministrativo: ammissibilità.
Il giudizio è stato acceso da un Comune (Colbordolo) su caso di lottizzazione d’ufficio in zona destinata ad attrezzature urbane con richiesta di accertamento dell’obbligo delle Società intimate già sottoscrittrici della convenzione, di cedere al Comune le opere di urbanizzazione primaria e le aree destinate ad uso pubblico realizzate ed approntate da esse Società.
Il TAR ha dapprima emesso ordinanza collegiale n° 105/2002 di adempimenti istruttori, poi ha emesso sentenza con la quale ha accolto in parte il ricorso.
La sentenza merita qualche notazione anche perché emessa in tema di lottizzazione d’ufficio che è notoriamente terreno non troppo percorso dalle Amministrazioni e quindi scarsamente arato dalla giurisprudenza.
Anzi, più precisamente, si è trattato di tipo misto di lottizzazione d’ufficio; tipo cioè che vede prima l’iniziativa del Comune alla quale però, prima della conclusione, aderiscono i proprietari delle aree che sottoscrivono quindi la convenzione, assumendo obblighi quali quelli del compimento di opere e/o di cessione di aree, che poi per diversi motivi (che qui non è il caso di analizzare) non vengono ottemperati.
Il TAR così si esprime:
– sulla qualificazione giuridica dello strumento: è lottizzazione e non intervento ex art. 13 L. 10/1977 come sostenevano le Società evocate, che ha dato luogo a convenzione;
– la convenzione ha natura di accordo sostitutivo e comunque integrativo del provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 11 L. 241/90;
– la cognizione giurisdizionale (esclusiva) spetta dunque al TAR “investito del potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai soggetti privati coinvolti nell’accordo con la Pubblica Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa Amministrazione nei confronti dei privati che hanno aderito all’accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa convenzione e non adempiuti spontaneamente” (SS.UU. 1262/2000 e n° 1763/2002);
– prescindendo dai vari dettagli pur interessanti della ricca sentenza, qui si riportano due passi importanti il primo dei quali (sub a e b) non totalmente condivisibile in via di principio (stanti i ben noti e remoti criteri elaborati da giurisprudenza e dottrina sulla materia (comunque complessa) dell’adempimento di obblighi pecuniari o di realizzazione di opere da parte del lottizzante sovrabbondanti in relazione all’effettivo edificato), ma attendibile e coerente con la specifica fattispecie ivi dedotta.
a) “Le opere di urbanizzazione primaria previste nel progetto di lottizzazione convenzionata debbono essere trasferite gratuitamente al Comune da parte degli attuali proprietari, in adempimento degli obblighi dai medesimi direttamente assunti e facenti carico anche ai loro danti causa, con la stipula del suddetto atto convenzionale. Al riguardo, ritiene il Collegio che il dovere di operare tale passaggio di proprietà, in favore del Comune, delle aree interessate in adempimento della avvenuta realizzazione delle suddette opere di urbanizzazione primaria, prescinde dall’avvenuto integrale sfruttamento edificatorio dei terreni ricompresi nell’ambito della lottizzazione, in quanto la loro esecuzione, indipendentemente dalla costruzione degli edifici, ha comportato la spontanea e puntuale osservanza di un obbligo imposto dalla convenzione di lottizzazione, con il conseguente asservimento all’uso pubblico delle relative aree le quali, per tale motivo, non possono rimanere nella disponibilità dei privati, ma vanno trasferite gratuitamente al Comune, nel rispetto di quanto espressamente previsto dall’art. 8 della convenzione di lottizzazione”.
b) “Per quanto riguarda, invece, gli oneri di urbanizzazione secondario, con la convenzione di lottizzazione era stato stabilito che alle relative incombenze i proprietari dei terreni lottizzati avrebbero provveduto mediante il pagamento delle quote contributive dovute, in occasione del ritiro delle singole concessioni edilizie, mentre a carico dei proprietari dell’area di mq 3161 destinata alla realizzazione del centro civico da parte del Comune, era stato stabilito l’obbligo del suo trasferimento gratuito all’Amministrazione entro 60 giorni dalla stipula della convocazione di lottizzazione (vedi artt. 6 e 8 della convenzione)”.
c) “Ciò premesso, ritiene dunque il Collegio che, in base a quanto stabilito dalla riferita convenzione di lottizzazione, la cessione dell’area destinata alla costruzione del centro civico, non esonerava i relativi proprietari del pagamento degli oneri di urbanizzazione secondaria in occasione del ritiro delle concessioni edilizie riguardanti altri terreni edificabili di loro proprietà, per cui tutto induce a ritenere che tale obbligo di cessione del terreno destinato alla realizzazione di un’opera di urbanizzazione secondaria, quale può essere qualificato l’accennato centro civico-direzionale, costituiva una ulteriore obbligazione aggiuntiva liberamente assunta dai proprietari di tali terreni, danti causa della controinteressata società Edilbrum, al di fuori di qualsiasi limite temporale correlato all’attività edificatoria, visto che il passaggio di proprietà andava perfezionato entro 60 giorni dalla stipula della convenzione di lottizzazione. Pertanto, la circostanza che da parte degli attuali proprietari di tale area destinata alla costruzione del centro civico, non si sia dato luogo allo sfruttamento edificatorio degli altri terreni nella loro disponibilità, come consentito dal piano di lottizzazione nei termini di efficacia dello stesso, non può essere addotto a giustificazione del mancato adempimento degli obblighi di cui il Comune invoca il rispetto, dal momento che, come si è avuto modo di chiarire, tale obbligo non risulta in rapporto di sinallagmaticità diretto con l’effettiva edificazione autorizzata dal piano di lottizzazione, tanto è vero che era svincolata sul piano temporale con il momento della concreta realizzazione dello sfruttamento edificatorio dei terreni lottizzati, coincide con il momento del rilascio delle singole concessioni edilizie. Tal obbligo di cessione gratuita dell’area suddetta doveva infatti avvenire subito dopo la stipula della convenzione e, quindi, prescindeva dal momento della edificazione da parte dei privati lottizzanti che, in astratto, sarebbe anche potuto non avvenire; peraltro, a ben vedere, se il Comune si fosse diligentemente attivato in pendenza dell’efficacia della convenzione di lottizzazione per ottenere l’immediata cessione dell’area suddetta, il successivo mancato sfruttamento edificatorio delle aree del comparto da parte dei proprietari non avrebbe potuto giammai dare luogo alla riappropriazione dell’area destinata alla costruzione del centro civico-direzionale, a conferma che la relativa obbligazione era svincolata dall’effettiva edificazione da parte dei privati lottizzanti che, invece, era in grado di condizionare l’adempimento degli altri oneri correlati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria ed al pagamento degli oneri di urbanizzazione secondaria”.
d) “In riferimento a quanto richiesto dalla parte ricorrente, il Collegio si vede limitato ad accertare soltanto l’obbligo delle parti intimate all’adempimento delle suddette obbligazioni di facere imposte dalla convenzione di lottizzazione, essendo preclusa all’organo giudicante la pronuncia di una sentenza costitutiva ex art. 2932 Cod. Civ. che produca gli effetti di un contratto non concluso, non essendo stata la stessa richiesta con il ricorso, ma comunque ritenuta ammissibile, a fronte dell’inadempimento da parte del privato degli obblighi di cessione di aree al Comune in applicazione di una convenzione di lottizzazione, attesa la riconosciuta giurisdizione esclusiva di cui è investito il Giudice Amministrativo nella materia”.
5.-2.-LOTTIZZAZIONE IN ZONA ATTIVITA’ PRODUTTIVE
– Sentenza 8/2/2002, n° 112 –
Va segnalata per la sicurezza con la quale ha districato una fattispecie complicata: un Comune (Osimo) aveva soprasseduto all’attuazione di un P.I.P. e, prima che esso scadesse, aveva approvato un piano di lottizzazione di tipo produttivo sullo stesso, convenzionandolo con impresa con atto che instaurava un rapporto complesso anche sul versante del dare-avere.
Il TAR ha statuito:
che l’approvazione della lottizzazione ha comportato di per sé la revoca del P.I.P.;
che pertanto non era necessaria apposita procedura di revoca;
che sussistevano le ragioni per l’eliminazione del P.I.P. ante tempus;
che non era necessaria l’approvazione di un nuovo P.I.P.;
che non occorreva alcuna variante al P.R.G. in quanto l’operazione non comportava alcun mutamento di destinazione urbanistica;
che le aree soggette a P.I.P., eliminato il vincolo, riacquistavano l’originaria destinazione a zona produttiva.
5.-3.-PIANI DI EDILIZIA ECONOMICO POPOLARE
– sentenza 17/3/2003, n° 103 –
P.E.E.P. – progettazione – selezione- aspiranti – scopi – graduatoria – necessità –esclusione – ragioni –
“L’individuazione del progettista del P.E.E.P. è avvenuta sulla base di una valutazione comparativa di una pluralità di aspiranti, finalizzata non tanto alla formulazione di una graduatoria degli stessi, quanto piuttosto all’identificazione del gruppo professionale più accreditato in termini di esperienze pregresse. Pertanto, nessuna violazione del quadro normativo di riferimento può essere imputata al Comune resistente che, indipendentemente dalla possibilità riconosciuta dall’art. 17, 12° comma, della Legge 11 febbraio 1994, n° 109, di procedere all’affidamento dell’incarico di progettazione suddetta a progettisti di sua esclusiva fiducia, tenuto conto che il valore economico dell’incarico risultava inferiore a 40.000 ECU, si è invece fatto carico di dare corso ad una regolare selezione ad evidenza pubblica, mediante la pubblicizzazione dell’iniziativa e la regolamentazione del procedimento di scelta del contraente in apposito bando di gara, attraverso l’individuazione di parametri di valutazione dei curricula professionali dei progettisti concorrenti, rapportati alle diverse esperienze professionali degli stessi nel campo dei diversificati settori della pianificazione urbanistica”.
5.-4.-PIANI DI RECUPERO DEL PATRIMONIO EDILIZIO ESISTENTE
Sentenza 17/3/2003, n° 98/03–
Art. 27 e 28 L. 457/78 – Recupero edilizio e recupero urbanistico – destinazione – utilizzabilità dello strumento –
La decisione è importante perché ripropone, risolvendolo nel contesto della specifica fattispecie (che vedeva lo speciale strumento del piano di recupero del patrimonio edilizio esistente utilizzato in comparto nel quale l’intera zona interessata al recupero era quasi completamente inedificata), il problema dell’utilizzo di quello specifico strumento.
E’ noto che la giurisprudenza dei TAR e del Consiglio di Stato è su posizioni più limitative, se non impeditive.
Lo stralcio che si riporta da conto del ragionamento – condivisibile nello specifico e peculiare caso – fatto dal TAR, degli elementi che lo sostengono, delle garanzie di osservanza di standards con le quali il TAR stesso “blinda”, per così dire, la propria statuizione: “Destituita di fondamento va infatti valutata la dedotta censura di violazione degli artt. 27 e 28 della Legge 5 agosto 1978, n° 457, poiché, al contrario di quanto sostenuto dai ricorrenti, le norme invocate consentono che, nell’ambito delle zone di recupero del patrimonio edilizio esistenti, siano ricomprese oltre ad edifici particolarmente degradati, anche aree inedificate e costruzioni non fatiscenti. Infatti, secondo quanto previsto dal Legislatore, la delimitazione delle zone del territorio comunale da assoggettare a piani di recupero è finalizzata a dettare una disciplina tecnica di dettaglio per facilitare non solo l’esecuzione di interventi di conservazione, risanamento e ricostruzione del patrimonio edilizio esistente degradato, ma anche per migliorare e razionalizzare l’assetto urbanistico complessivo di tali zone o comparti edificatori, con la possibilità, quindi, di ricomprendere nelle stesse, anche eventuali aree inedificate, in vista di un loro sfruttamento edilizio. I piani di recupero, infatti, possono avere ad oggetto non solo un recupero edilizio (nell’ambito del quale sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria o di restauro e ristrutturazione edilizia), bensì anche un recupero urbanistico (che ha ad oggetto la ridefinizione del tessuto urbanistico di un’area o di un complesso di aree, anche con riferimento agli spazi ed alle opere pubbliche esistenti), assumendo in tal caso il piano di recupero una più specifica funzione programmatoria, intervenendo a ridisegnare l’assetto urbanistico esistente nelle zone soggette a recupero, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, con la modificazione dei lotti, degli isolati e delle vie di comunicazione, il che non esclude la possibilità di consentire anche lo sfruttamento di aree inedificate ricomprese nelle zone soggette a recupero urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. IV, 28 maggio 1988, n° 468 – 28 febbraio 1992, n° 223; TAR Basilicata 29 settembre 1983, n° 355; TAR Umbria, 13 dicembre 1989, n° 823). E’ evidente che, in tal caso, l’utilizzo dei lotti inedificati ricompresi nelle zone di recupero deve avvenire, comunque, nel rispetto urbanistico delle prescrizioni dello strumento urbanistico generale e nell’osservanza della disciplina urbanistica ed edilizia di dettaglio contenuta nel piano di recupero qualora le aree inedificate sono assoggettate a tale speciale strumento attuativo dall’art. 28 della citata legge n° 457 del 1978. Ovviamente, resta inteso che la verifica degli standards imposta come obbligatoria in sede di formazione di qualsiasi strumento urbanistico generale e dall’art. 41/quinques, 8° comma, della legge 17 agosto 1942 n° 1150, deve essere compiuta anche nell’ipotesi di formazione di un piano di recupero edilizio ed urbanistico, in quanto detto piano è equiparato ad un piano particolareggiato dall’art. 28, 4° comma della legge n° 457 del 1978. Ciò premesso, priva di pregio va quindi ritenuta la censura di parte ricorrente, poiché, come si è avuto modo di precisare, la ricomprensione nel piano di recupero di cui si controverte del lotto inedificato di proprietà della società controinteressata non è di per sé illegittima, attesa la possibilità riconosciuta dalla legge di prevedere, in sede di recupero edilizio ed urbanistico, anche lo sfruttamento edificatorio di aree libere, a condizione della rispondenza di tale strumento urbanistico attuativo agli standards di cui al D.M. 1°/4/1968, per quanto concerne gli eventuali incrementi volumetrici consentiti in sede di pianificazione di recupero”.
5.-5.- PROGRAMMA INTEGRATO D’INTERVENTO
– Sentenza 11/4/2003, n° 241-
Programma integrato di intervento – nozione – art. 16 L. n° 179/92 – norme regionali di dettaglio – mancanza – conseguenze – attuazione dei lavori inseriti nel programma triennale
La sentenza viene qui riportata solo per la parte che interessa i profili urbanistici, pur recando altri interessanti spunti relativi alle problematiche della progettazione, della par-condicio da far valere nell’ambito della relativa procedura di selezione, della impossibilità di introdurre in essa elementi spuri quale quello della fissazione di un termine finale all’offerta.
E’ nota la devastante azione che la sentenza della Corte Costituzionale 7-19/10/1992, n° 393 ha esercito sul testo dell’art. 16 della L. 17/2/1992, n° 179, con il quale il Legislatore Nazionale aveva cercato di disciplinare un intervento, quale quello del piano integrato, che manifestava evidenti segni di novità sia sotto il profilo dei soggetti che concorrono a formarlo, sia sotto quelli dell’efficacia anche sostitutiva della concessione edilizia, del rapporto con il P.P.A., dei finanziamenti cui i programmi integrati potevano attingere.
E’ noto anche che dopo tanta dirompenza provocata dai ricorsi che le Regioni avevano proposto alla Corte Costituzionale per invasione di campo da parte del Parlamento, non risulta che – tranne eccezioni richiamate nella stessa sentenza: L.R. Campania 3/96 e Legge Emilia Romagna n° 6/95 – le Regioni stesse siano intervenute a ricucire dignitosamente gli sconquassi; la Regione Marche non ha fatto nulla.
Il TAR ha preso atto di ciò, ha individuato la normativa da prendere in riferimento ed ha stilato una sentenza che, vertendo sulle macerie di un istituto, si è sforzata di fornire un’immagine del defunto la più accettabile possibile: “Il Comune intimato afferma di aver dato applicazione all’art. 16, comma 1, della L. 17 febbraio 1992, n° 179, norma che ha introdotto la previsione di un nuovo strumento di programmazione urbanistica, denominato “programma integrato d’intervento”, orientato alla riqualificazione dei tessuti urbanistico edilizi ed ambientali e caratterizzato dall’assolvimento di una “… pluralità di funzioni”, con la “… integrazione di diverse tipologie di intervento” e con dimensioni tali “… da incidere sulla riorganizzazione urbana …” attraverso il “… possibile concorso di più operatori e risorse finanziarie pubblici e privati”, con conseguente previsione della presentazione dei programmi anche da parte di “soggetti privati”, oltre che pubblici, “singolarmente o riuniti in consorzio o associati fra di loro” (art. 16, comma 2). I programmi integrati d’intervento, essendo strumenti speciali di pianificazione, non mirano unicamente al risanamento o al recupero di contesti urbanistico edilizi e/o all’ampliamento dell’offerta d’edilizia residenziale, ma sono finalizzati alla riqualificazione delle aree urbane, avendo presente l’aspetto ambientale e ponendo in essere un insieme coordinato d’interventi e risorse (pubblici e privati) incidenti anche sulle opere urbanizzative e la dotazione degli standard, che possono riguardare zone “… in tutto o in parte edificate …” o anche zone “… da destinare … a nuova edificazione” (art. 16, comma 2). In mancanza di una Legge Regionale (vedasi la Legge della Regione Campania 19 febbraio 1996, n° 3, della Regione Emilia Romagna 30 giugno 1995, n° 6 ed altre) che dia un contenuto all’istituto astrattamente previsto, definendo le diverse funzioni (pianificatorie, finanziare, di gestione) e conformando le procedure, il procedimento ed i sub-procedimenti, l’art. 16 della L. n° 179 del 1992 rimane una norma di principio. In assenza di una disciplina esecutiva, nella Regione Marche lo strumento del programma integrato può essere utilizzato solo facendo ricorso agli istituti presenti nell’ordinamento regionale e statale. Per quanto riguarda l’aspetto urbanistico ed edilizio occorre riferirsi alla disciplina regionale che concerne gli ambiti territoriali assoggettati ai piani attuativi ed alla disciplina urbanistica comunale (piani regolatori, regolamenti edilizi comunali). E’ naturalmente possibile il ricorso ad una Conferenza di Servizi o ad un accordo programma ex art. 27 della L. n° 142 del 1990 (previsto nell’avviso pubblico 28 giugno 2001) ove il piano esecutivo non sia conforme alle previsioni del piano regolatore e necessiti la presenza nel procedimento di più soggetti pubblici. Per l’attuazione di lavori pubblici o di pubblica utilità inseriti nella programmazione triennale (nel caso che ricorre, richiamato nelle premesse dell’avviso pubblico) l’Amministrazione può avvalersi di “promotori” soggetti privati che devono prospettare una progettazione preliminare accompagnata da uno studio di fattibilità, un piano economico-finanziario, asseverato da un istituto di credito, una bozza di convenzione (art. 37/bis della L. 11 febbraio 1994, n° 109, nel testo risultante prima delle modifiche introdotte dall’art. 7 L. 1° agosto 2002, n° 166).
La previsione di una procedura di comparazione (art. 37/ter L. n° 109 del 1994), ove presenti più progetti riferiti ad una medesima opera pubblica, con lo scopo di individuare quello che più adeguatamente risponda al “pubblico interesse”, inducono a ritenere ammissibile l’indizione di un preventivo avviso pubblico (successivamente introdotto dall’art. 7, comma 1, punto 2, della L. n° 166 del 2002), finalizzato a sollecitare i soggetti privati a presentare elaborati da sottoporre al vaglio di una Commissione e, successivamente, effettuata la scelta, ad indire una gara “al fine d’aggiudicare, mediante procedura negoziata, la relativa concessione di cui all’art. 19, co. (art. 37/quater, comma 1°, L. n° 109 del 1994).
6.-GLI INTERVENTI DI TRASFORMAZIONE URBANA: PROBLEMATICHE DELLE SOCIETA’ MISTE
Sebbene emanata fuori del periodo canonico di questa trattazione, giova ricordare la sentenza 11/6/1999 n. che ha deciso un caso interessante nel quale un Comune marchigiano con una semplice delibera consiliare aveva ricompreso un’area di proprietà di un consorzio agrario in un progetto di trasformazione urbana ai sensi dell’art. 17, comma 59, della L. 15/5/1997, n. 127.
E’ noto che il suddetto articolo è stato poi abrogato ed interamente sostituito dall’art. 120 D.Lgs. 18/8/2000, n. 267, che però non pare aver tolto interesse al decisum.
La sentenza è lucida nell’inquadrare la fattispecie fra le ipotesi nelle quali il soggetto pubblico non esercita solo compiti di assetto del territorio con l’adozione di piani, ma si occupa anche della loro attuazione e/o esercita ingerenza e controllo sulla fase attuativa svolta dai privati (le ipotesi richiamate in sentenza sono i piani regolatori delle aree industriali la cui attuazione è attribuita a consorzi appositamente costituiti, i piani di recupero ex art. 28, L. 457/78, i piani per l’edilizia residenziale pubblica nei quali appunto è previsto l’intervento diretto dei Comuni o di soggetti con essi convenzionati).
In tutti questi casi, afferma la sentenza, vengono in rilievo l’approntamento di strumenti urbanistici esecutivi con procedure accelerate e forme di reperimento di finanziamenti per l’attività edilizia.
In questo quadro si pone la possibilità di costituire società miste nei cui confronti il TAR si esprime compiutamente nei termini che sotto si riportano, trattando i profili:
del tempo in cui debbono essere costituite le società miste;
della pregiudiziale necessità dell’esistenza di strumento urbanistico generale e di strumento urbanistico.
“Se la costituzione della società debba precedere, come opina il ricorrente, o seguire l’adozione della deliberazione con la quale il Comune individua le aree di intervento e se la società debba essere costituita per uno o per più interventi che nel tempo si rendano necessari, non sono problemi che il Legislatore sembra essersi posto.
All’Ente locale appare demandata la scelta degli obiettivi, delle modalità e dei tempi della propria azione.
Il raggiungimento delle finalità della norma non è, infatti, impedito dalla circostanza che la società sorga prima o dopo la individuazione delle aree.
Altra è la questione su cui porre l’attenzione.
L’operazione di trasformazione urbana richiede l’esistenza di uno strumento urbanistico generale e di uno strumento urbanistico ad esso attuativo, entrambi approvati.
Il piano esecutivo è necessario perché il piano regolatore generale contiene, per lo più, previsioni di larga massima ed una zonizzazione la cui definizione (soprattutto di quelle riservate all’espansione dell’aggregato urbano) è normalmente rinviata ai piani particolareggiati e, quale loro alternativa, ai piani di lottizzazione.
La delibera con la quale il Consiglio comunale individua le aree interessate dall’intervento di trasformazione urbana non ha natura, né funzione di piano esecutivo e non è un nuovo strumento urbanistico.
Sua immediata funzione appare più essere quella di dare inizio alla procedura d’esproprio.
A monte, le operazioni di recupero o di riqualificazione di zone urbanisticamente compromesse, o di nuova urbanizzazione, sulle quali gli Enti scelgono di intervenire, presuppongono un progetto unitario ed organico che deve trovare una sua collocazione nello strumento di pianificazione generale (ove lo stesso contenga precise destinazioni) od in quello ad esso esecutivo.
In tali ipotesi la delibera di individuazione delle aree e di specificazione dell’intervento può essere adottata prima o nelle more di costituzione della Società.
Viceversa, se un progetto unitario manca o se lo stesso non ha a riferimento strumenti urbanistici adeguati, nell’ambito del contratto di servizio all’Ente locale, il progetto di intervento ed il progetto di piano esecutivo possono essere predisposti dalla società (se già costituita, secondo una scansione che come sopra detto non appare obbligata), ma vanno deliberati ed approvati dall’Ente locale tenuto a seguire il normale iter”.

Redazione

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