Il suicidio assistito e le possibili evoluzioni giurisprudenziali

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IL SUICIDIO ASSISTITO E LE POSSIBILI EVOLUZIONI GIURISPRUDENZIALI

“Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”.

Ecco l’articolo 580 del codice penale italiano. La ratio della norma è chiara. La vita è un bene indisponibile. Chi viola l’interesse pubblico costituito dalla vita stessa di coloro che vivono sul suo territorio è punito. La vita delle persone ha una valenza intrinseca in quanto tale, indipendentemente dalla visione materialista di chi individua il senso del vivere e il valore stesso della vita nella produttività ovvero nel godimento dei beni materiali di cui è possibile disporre durante la stessa.

In questo assetto normativo si incardina la recente disposizione sulle D.A.T., disposizioni anticipate di trattamento, le quali rendono di fatto “disponibile” la vita per coloro che decidono di disporne – decidendo della propria morte – in determinate circostanze. Non volendoci ora soffermare sulla possibile questione di costituzionalità con riferimento a tale norma, da porre con riferimento al sommo bene della vita e in particolare circa la sua disponibilità, la cui soluzione potrebbe non essere chiara e certa, ci soffermiamo sull’evoluzione giurisprudenziale che la questione ivi indicata potrebbe avere.

Alla luce del quadro giuridico ora presentato, si ponga l’attenzione sul recente e famoso caso di “Dj Fabo”, il quale sta ancora portando avanti i suoi “frutti”. L’esponente politico Marco Cappato, pacificamente reo nei fatti – a suo stesso dire – di aver aiutato il suicida ad andare a porre fine alla sua vita, è ancora sotto processo.  In data 14/02/2018 la Corte di Assise di Milano ha preso una decisione con riferimento a tale vicenda. Le possibili soluzioni erano tre.

Assoluzione – argomentando come in realtà egli non abbia posto materialmente in essere condotte che hanno reso possibile il suicidio di Fabiano Antoniani; assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”, la quale sarebbe una creazione giurisprudenziale i cui effetti sarebbero di difficile previsione, poiché il giudicante si conferirebbe il potere di definire cosa è e cosa non è vita e quando, quindi, è possibile aiutare a porre fine a essa senza con questo essere perseguiti penalmente. Condanna – alla luce della normativa vigente, qualora lo ritengano responsabile dei fatti per il quale pende l’accusa. Sospensione del giudizio e rimessione degli atti alla Corte Costituzionale alla luce di una questione di costituzionalità.

La Corte ha optato per questa ultima ipotesi, i cui risvolti sono ora da analizzare, anche riferimento alle concrete possibili soluzioni del caso. La Corte potrebbe ritenere inammissibile la questione perché dalla soluzione semplice o manifesta – in questo caso perché la norma non è incostituzionale. Potrebbe rigettare nel merito la decisione, perché infondata. Ancora, la Corte potrebbe dichiarare incostituzionale la norma – rimettendo però al legislatore il compito di legiferare in materia e colmare quello che sarebbe de facto un “vuoto giuridico” venutosi a creare agli effetti della decisione della Corte. Infine, potrebbe giungere a una pronuncia additiva. In caso di pronuncia additiva semplice renderebbe incostituzionale la norma nella parte in cui “non prevede che non sia punibile chi” assiste al fine del suicidio persone in determinate condizioni di vita. Questa sarebbe una creazione giurisprudenziale davvero significativa, poiché la Corte porrebbe un limite allo stesso concetto di vita, ovvero al confine della intangibilità e della indisponibilità della stessa, aprendo uno scenario dalle infinite sfaccettature che potrebbe portare, passo dopo passo, a rendere legale per via giurisprudenziale la stessa eutanasia. Ci si chiede se sia augurabile una decisione del genere in uno stato che si dice di “civil law”, dove la legge dovrebbe essere il faro guida della giurisprudenza e non viceversa. Si segnala, infine, la diversa possibile soluzione della sentenza additiva di principio, con il quale la Corte Costituzionale potrebbe determinare come incostituzionale la norma nella parte in cui “non prevede che non…”, indicando poi il principio generale a cui fare riferimento per completare tale disposizione, senza essere lei stessa la “creatrice” del frammento di norma aggiunto. Lo sviluppo della vicenda è tuttora in essere; avremo modo di osservare come e se la giurisprudenza inciderà sull’evoluzione della disciplina del suicidio assistito.

Matteo Di Benedetto

Dott. Di Benedetto Matteo

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