Sui rapporti tra autorità giudiziaria ed arbitrato irrituale: cenni di legge applicabile in materia di connessione di cause

Redazione 07/05/20
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di Giovanni Viglino*

* Dottore in giurisprudenza / MIDS LL.M. Candidate 2019/2020

Sommario

I. Estremi del provvedimento e massima

II. Il caso

III. Sui rapporti tra arbitrato rituale e irrituale, con specifico riferimento al contesto normativo applicabile

IV. Segue – il problema dell’applicabilità temporale delle norme post-riforma

V. L’ambito oggettivo di una clausola compromissoria di arbitrato irrituale

VI. Corrispondenza tra chiesto e pronunciato: le conseguenze del principio della domanda nei rapporti tra giudice e arbitro

I. Estremi del provvedimento e massima

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. III civile, ordinanza 31 ottobre 2019, n. 28011 (Armano pres.)

Arbitrato rituale e arbitrato irrituale ex art. 808 quater e 808 ter cod. proc. civ. – Corrispondenza tra chiesto e pronunciato exart. 112 cod. proc. civ. – applicabilità artt. 809-832 cod. proc. civ. all’arbitrato irrituale – Ambito oggettivo clausola compromissoria di arbitrato irrituale – cumulo di domande ed interpretazione – connessione di cause

In presenza di una contestuale proposta davanti al giudice ordinario di più domande connesse, alcune di sua competenza ed altre di competenza arbitrale irrituale, non si verifica alcuna “vis attractiva” di queste ultime verso la giurisdizione ordinaria. Tale soluzione non discende tuttavia dall’applicazione dell’art. 818 ter c.p.c., norma che disciplina i rapporti tra autorità giudiziaria e arbitri (rituali), ma dalla constatazione in termini generali dell’arbitrato irrituale come strumento che esclude la tutela giurisdizionale e con essa qualsiasi analogica applicazione delle norme processuali dettate per l’arbitrato rituale.

II. Il caso

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla qualifica e l’ampiezza da attribuire ad una eccezione di clausola compromissoria per arbitrato irrituale in presenza di un cumulo di domande e, conseguentemente, sull’interpretazione del principio della domanda exart. 112 c.p.c. in arbitrato. L’ordinanza della Cassazione origina da una causa portata all’attenzione della corte d’appello di Milano, dove C.M.C. (“Ricorrente”) chiedeva con atto di citazione notificato ad M.A. e La Pieve Srl. (“Controricorrenti”) la condanna al risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento di determinate obbligazioni nascenti da un contratto d’affitto d’azienda. I Controricorrenti eccepivano clausola d’arbitrato irrituale presente nel contratto d’affitto. I giudici d’appello, non rinvenendo nell’atto di citazione alcuna altra domanda (in particolare, un’eventuale domanda da parte del Ricorrente di liquidazione della sua quota nella società La Pieve), dichiaravano improcedibile la domanda di condanna al risarcimento dei danni perché ricompresa nell’alveo della clausola compromissoria.

Il Ricorrente proponeva ricorso in Cassazione adducendo, inter alia, violazione e falsa applicazione degli articoli 808 ter, 808 quater e 112 c.p.c., relativi rispettivamente all’arbitrato irrituale, all’interpretazione (estensiva) da ammettere in caso di arbitrato rituale e al principio della domanda. A giudizio del Ricorrente, i giudici d’appello errarono gravemente nell’interpretazione della domanda introduttiva del giudizio, la quale conteneva diverse richieste fondate su differenti titoli, molte delle quali non ricomprese nell’ambito della clausola compromissoria.

Con ordinanza, la Suprema Corte accoglieva il ricorso e rinviava alla corte d’appello.

III. Sui rapporti tra arbitrato rituale e irrituale, con specifico riferimento al contesto normativo applicabile

Non è certamente un segreto che in Italia il rapporto tra ordinamento giurisdizionale e arbitrato non sia mai stato dei migliori. Ci sono volute riforme e pronunce contrastanti in giurisprudenza per giungere alla ben nota Cassazione a Sezioni Unite che ha equiparato il lodo arbitrale (rituale) alla sentenza, riconoscendone la stessa efficacia e ricollegandone le stesse conseguenze[1]. Se poi la discussione si sposta su un piano intra-arbitrale, e quindi a quale sia il rapporto tra le due differenti species (rituale ed irrituale) di un unico genus (arbitrato), il dibattito è lontano dall’essere risolto. A tal proposito è utile ripercorrere brevemente lo sviluppo di tale relazione, avendo sempre un occhio anche al parallelo sviluppo del genus arbitrale con riferimento all’ordinamento giuridico. È possibile individuare tre periodi: (i) prima della riforma del 1994[2]; (ii) successivamente alla riforma del 1994 e prima della riforma del 2006; (iii) successivamente alla riforma del 2006[3].

Per quanto concerne il primo periodo, l’arbitrato rituale veniva considerato come eccezionale e sostitutivo della giurisdizione statale[4], mentre quello irrituale non comportava particolari problemi dato il carattere esclusivamente negoziale del medesimo[5]. Dall’eccezionalità del carattere dell’arbitrato rituale discendevano due importanti conseguenze: in primo luogo, in caso di dubbi concernenti l’intenzione delle parti sul carattere della clausola compromissoria, era da preferirvi l’interpretazione volta a ricondurre l’incertezza verso l’irritualità[6]. In secondo luogo, la pendenza davanti a giudice e arbitro di questioni connesse comportava l’attrazione di entrambe alla giurisdizione statale[7]. Il secondo periodo ha visto, paradossalmente, un’involuzione dell’accettazione dell’arbitrato come genus rispetto alla giurisdizione statale. Infatti, a seguito della riforma del 1994, la Cassazione cominciò a configurare anche l’arbitrato rituale come qualcosa di puramente negoziale, estraneo a qualsivoglia ambito giurisdizionale[8]. A questo, chiaramente, conseguiva un avvicinamento quasi totale tra le due species dell’arbitrato, tanto da domandarsi se si potesse ancora parlare dell’esistenza di due arbitrati differenti. Il terzo periodo è caratterizzato, tra le altre cose, da tre novità fondamentali: (i) la riforma del 2006 che tipizza per la prima volta l’arbitrato irrituale[9]; (ii) l’introduzione, da parte della medesima riforma, di regole concernenti i rapporti tra autorità giudiziaria e arbitro; (iii) la sopra citata Cassazione a Sezioni Unite che ha equiparato il lodo arbitrale (rituale) a sentenza.

Quanto appena visto, tuttavia, non è ancora servito a chiarire il punto più controverso (e importante) della relazione tra arbitrato irrituale e rituale: la possibilità o meno di applicare le regole processuali dedicate all’arbitrato rituale anche all’arbitrato irrituale, ovviamente fin dove compatibili. Storicamente, nel corso di tutte e tre le fasi appena viste, due opposti orientamenti hanno continuato ad esistere: un primo orientamento che considera le due species arbitrali come totalmente distinte e conseguentemente come inapplicabile qualsiasi disciplina dell’arbitrato rituale a quello irrituale[10]; un secondo orientamento che vuole invece far confluire la disciplina dell’arbitrato rituale a quello irrituale, per quanto compatibile e salva una espressa pattuizione ad hoc da parte dei soggetti contraenti[11].

La legge delega n. 80/2005 prevede espressamente “che le norme in materia di arbitrato trovino sempre applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato, salva la diversa ed espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale, fermi in ogni caso il rispetto del principio del contraddittorio, la sindacabilità in via di azione o di eccezione della decisione per vizi del procedimento e la possibilità di fruire della tutela cautelare”. Parte della dottrina[12] ha sottolineato come l’intenzione del legislatore di voler prevedere una disciplina unitaria dell’arbitrato sia chiara e sia evidenziata sia dalla scelta di far sempre applicare le norme in materia di arbitrato qualunque la denominazione del patto compromissorio; sia dalla possibilità di fruire della tutela cautelare[13]. Ed anche la ratio che probabilmente ha mosso il legislatore è intuibile: le uniche due differenze tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale insistono sull’efficacia esecutiva del lodo e sul regime delle impugnazioni. Tuttavia, per quanto riguarda tutto il resto (a titolo di esempio: contraddittorio, nomina degli arbitri, domanda di arbitrato…), le due species sono esattamente identiche[14]. Vi deve essere un consenso delle parti, l’avvio di un procedimento mediante una domanda d’arbitrato, la costituzione di un collegio arbitrale imparziale e indipendente, il rispetto del contraddittorio. Ne segue che non vi è particolare ragione per non estendere la disciplina processuale dell’arbitrato rituale a quello irrituale, con la chiara esclusione di quelle (limitatissime) norme non compatibili[15].

La tesi opposta vuole insistere sul dato esclusivamente letterale dell’art. 808 ter, il quale statuisce che “[l]e parti possono […] stabilire che, in deroga a quanto disposto dall’articolo 824-bis, la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo.” (Enfasi aggiunta). L’argomentazione che segue è quindi: le parti possono optare per l’arbitrato irrituale, ma tale scelta comporta l’esclusione delle norme applicabili all’arbitrato rituale, queste ultime applicabili se, a contrario, le parti non abbiano derogato alla disciplina prevista dall’articolo 824-bis[16]. Tuttavia, come sottolineato in dottrina[17], tale conclusione è criticabile da un punto di vista logico: considerato il carattere ora eccezionale dell’arbitrato irrituale, le parti che vogliono utilizzare quest’ultimo strumento devono dichiararlo espressamente. Ne segue che come le parti abbiano consapevolmente deciso di derogare alla disciplina altrimenti automaticamente rituale, egualmente le parti hanno il diritto di derogare alla disciplina altrimenti automaticamente applicabile mediante una pattuizione ad hoc. In assenza di quest’ultima, opereranno le norme previste per il rituale nei limiti di quanto compatibile.

[1] Cass. Civ. S.U., 25 ottobre 2013, n. 24153.

[2] L. 5 gennaio 1994, n. 25.

[3] D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, in attuazione della L. delega 14 maggio 2005, n. 80.

[4] Cass. Civ. S.U., 12 ottobre 1983, n. 5922: “i poteri decisori degli arbitri si pongono su un piano sostitutivo di quelli del giudice ordinario”, Giust. Civ. Mass. 1983(9); Cass. Civ. S.U., 19 maggio 1986, n. 3333, così i Supremi Giudici: “le controversie medesime non possono essere portate alla cognizione di arbitri, il cui intervento è consentito solo in via sostitutiva nell’ambito delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria ordinaria.”

[5] Sin dalle primissime origini di tali istituto, che vengono comunemente fatte risalire a Cass. Torino 27 dicembre 1904, vi sono sempre stati pochissimi dubbi sulla natura di tale istituto. Si vedano anche Cass. Civ. S.U., 29 novembre 1986, n. 7087: “[l]’arbitrato irrituale, infatti, comporta il mandato agli arbitri per lo svolgimento di un’attività negoziale in sostituzione delle parti e non l’esercizio di una funzione di natura giurisdizionale”; nella medesima direzione Cass. Civ. S.U., 2 giugno 1988, n. 3767; Cass. Civ. S.U., 9 dicembre 1986, n. 7315: “[i]n seguito alla eccezione di compromesso per arbitrato irrituale siccome agli arbitri in questo caso non è devoluto alcun potere (giurisdizionale) di decidere controversie, ma di definire sul piano dell’autonomia privata la contestazione insorta tra le parti con un negozio giuridico avente gli stessi effetti di un atto dalle medesime direttamente posto in essere nei rapporti tra loro, ne discende che la questione se la contestazione debba in concreto essere definita o meno dagli arbitri irrituali non può identificarsi con una questione di giurisdizione.” In dottrina: ex plurimis, Angelo Buonfrate, Gli arbitrati del codice di procedura civile, 2015, Milano, pagg. 21 e ss.

[6] Ex plurimis, Cass. Civ. Sez. I, 18 novembre 1992, n. 12346: “maggior favore con il quale deve essere riguardata la competenza del giudice ordinario, istituzionalmente preposto alla risoluzione delle controversie, che induce a risolvere l’incertezza nell’interpretazione della clausola e nella conseguente qualificazione dell’arbitrato nel senso che le parti abbiano inteso prevederne l’irritualità.”

[7] In giurisprudenza: Cass. Civ. Sez. II, 21 marzo 1989, n. 1411; Cass. Civ. Sez. I, 23 agosto 1990, n. 8608: “L’accento va posto, cioè sulla naturale prevalenza della giurisdizione statuale su quella arbitrale anche nel caso in cui la domanda principale sia di competenza degli arbitri e solo quella accessoria rientri nella competenza del giudice ordinario; basta, quindi, la concorrenza di domande che almeno in parte esorbitino dalla competenza arbitrale perché sulle liti connesse debba postularsi la competenza dei giudici dello Stato.” Cass. Civ. Sez. I, 22 ottobre 1991, n. 11197. In dottrina: ex plurimis, Federico Ungaretti Dell’Immagine, L’arbitrato irrituale tra negozio e processo: la qualifica della relativa eccezione tra rito e merito, in Riv. Arb. 2014(2), pag. 345.

[8] Doveroso ricordare la famosa e contestatissima pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, la quale ha esplicitamente riconosciuto natura negoziale all’arbitrato rituale. Si veda Cass. Civ. S.U., 3 agosto 2000, n. 527.

[9] Si veda l’art. 808 ter c.p.c.

[10] Si veda ex plurimis Bove, Art. 808-ter, in AA.VV., Riforma del diritto arbitrale, S. Menchini (a cura di), Padova, 2007, a pag. 1156: “la legge processuale non si occupa, se non nei ristretti limiti di quanto dispone l’art. 808-ter, dell’arbitrato libero, che si presenta, quindi, come un procedimento negoziale che si colloca fuori della sfera d’influenza del codice di rito.”

[11] L’unitarietà del fenomeno arbitrale già veniva proposta da Fazzalari, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. proc., 1968, pagg. 459 e ss. In epoca più recente, a titolo di esempio: Francesco Mauceri, Brevi p>, in Giust. Civ., 2011(10), pagg. 503 e ss.; Gabriella Tota, Appunti sul nuovo arbitrato irrituale, in Riv. Arb., 2007(4), pagg. 555 e ss. Recentissimamente, in maniera molto netta, Francesco Campione, Le domande nuove nella dimensione dell’arbitrato, in Riv. Arb. 2019(3), pag. 521: “è da preferire l’impostazione secondo la quale l’arbitrato irrituale, espletando la medesima funzione (decisoria) dell’arbitrato rituale, condivide con quest’ultimo anche la struttura processuale.”

[12] A titolo di esempio, Maria Giulia Canella, Arbitrato irrituale e tutela cautelare in un recente provvedimento e dopo la l. 14 maggio 2005, n. 80 , in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2005(3), pagg. 1013 e ss.; Dell’Immagine, op. cit. a pag. 351: “la ricostruzione unitaria del fenomeno arbitrale appare sistematicamente più lineare e porta a qualificare i due tipi di arbitrato come mezzi di risoluzione della controversia regolati nella legge processuale”; Bruno Sassani, L’arbitrato a modalità irrituale, in Riv. Arb., 2007(1), pag. 28: “[e]vidente è l’adesione della fattispecie legale dell’arbitrato irrituale ad un modello unitario e generale di arbitrato alle cui manifestazioni presiedono comuni principi.”

[13] Il rapporto tra tutela cautelare e arbitrato irrituale è sempre stato molto controverso, soprattutto prima della riforma. Tuttavia, già prima della tipizzazione dell’arbitrato irrituale, c’era chi argomentava a favore della tutela cautelare in arbitrato irrituale. Si veda Guido Canale, Tutela cautelare e arbitrato irrituale, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1997(4), pagg. 941 e ss. L’esplicito riferimento alla tutela cautelare nella legge delega ha permesso a molti in dottrina di argomentare a favore della estensione della normativa rituale all’arbitrato irrituale. A titolo di esempio, si vedano Dell’Immagine, op. cit., a pag. 350; Tota, op. cit. a pag. 566.

[14] Si veda l’analisi di Tota, op. cit., pagg. 555 e ss. sulla compatibilità della quasi totalità delle norme rituali all’arbitrato irrituale.

[15] Interessante sottolineare, senza pretesa di esaustività, che se si dovesse ammettere che effettivamente la disciplina possa essere estesa, si aprirebbe addirittura la porta per una diversa qualificazione dell’eccezione di clausola compromissoria d’arbitrato irrituale; un’eccezione che non sarebbe più di merito, ma necessariamente di rito. Prima della riforma, infatti, la giurisprudenza era pressoché conforme nel qualificare l’eccezione come eccezione di merito. A titolo di esempio, Cass. Civ. Sez. I, 30 dicembre 2003, n. 19865; Cass. Civ. Sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2524. Post riforma, soprattutto in dottrina, sempre più voci stanno promuovendo la qualifica di eccezione di rito all’eccezione di clausola compromissoria irrituale. Tota, op. cit., non ha dubbi sull’ascrivibilità dell’eccezione come eccezione di rito. A pag. 566: “Alla diversa qualificazione dell’eccezione di arbitrato libero come difesa di merito potrebbe allora pervenirsi unicamente ammettendo – in adesione alla richiamata teoria del negozio per relationem – che la sottoscrizione di una convenzione d’arbitrato implichi l’integrale dismissione delle pretese delle parti, le quali rinuncerebbero con tale accordo alle rispettive posizioni di diritto sostanziale (ossia alla res litigiosa) per obbligarsi ad accettare e, quindi, a considerare come diretta manifestazione della propria volontà, la regolamentazione negoziale che sarà fissata dagli arbitri. Ma […] non è questa la realtà del fenomeno arbitrale irrituale, il quale postula la proposizione di una domanda di tutela di posizioni giuridiche soggettive non dissimile da quella proponibile innanzi agli organi dello Stato e, dunque, idonea a inibire l’intervento dell’autorità giudiziaria – che, se adita, dovrà ricusare l’esame del merito mediante sentenza processuale – fin tanto che il lodo non sia stato emanato.” Nella stessa direzione Paolo Biavati, Commento all’art. 808-ter c.p.c. , in Commentario, Carpi (a cura di), Bologna, 2007; contra Bove, op. cit.

[16] La giurisprudenza sembra avere pochi dubbi sull’escludere il regime processuale rituale all’arbitrato irrituale: Cass. Civ. Sez. VI, 5 dicembre 2012 n. 21869; Cass. Civ. Sez. VI, 17 gennaio 2013, n. 1158; Cass. Civ. Sez. VI, 6 novembre 2013, n. 25029. Anche in dottrina c’è chi interpreta “altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo” come un’intenzione del legislatore di escludere la disciplina all’arbitrato irrituale: Giovanni Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, pag. 36; Biavati,op. cit.

[17] Dell’Immagine, op. cit. a pag. 350: “[è] perfettamente argomentabile, del resto, l’esatto contrario, ovvero che la locuzione legislativa significa che, in mancanza di una disciplina ad hoc, si applicano “sempre”, in quanto compatibili, le disposizioni dettate per l’arbitrato rituale.” In maniera ancora più diretta, Tota, op. cit., pag. 558: “Insomma, l’alternativa posta dalla norma in esame attiene esclusivamente alla modalità arbitrale prescelta (che, in assenza di apposita previsione derogatoria dell’art. 824-bis c.p.c., sarà in ogni caso quella rituale), e non anche alla disciplina applicabile al procedimento, che resta invece quella degli artt. 806 ss. c.p.c. ogni qualvolta all’opzione per l’arbitrato libero non si affianchi la diversa e ulteriore manifestazione della volontà di derogare altresì alle restanti disposizioni del codice di rito.”

IV. Segue – il problema dell’applicabilità temporale delle norme post-riforma

Problema distinto è l’applicabilità temporale delle norme post-riforma. Il Decreto Legislativo 40/2006, all’art. 27, espressamente prevede un diverso regime temporale di applicabilità delle norme riformate: (i) le disposizioni del capo I (i.e. artt. 806-808 quinquies c.p.c.) si applicano “alle convenzioni di arbitrato stipulate dopo la data di entrata in vigore del presente decreto”[18]; viceversa, (ii) le restanti norme (artt. 809-832 c.p.c.) si applicano “ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”[19]. Tale differenziazione risulta importante per quanto concerne la pronuncia in commento, considerato che la clausola compromissoria contenuta nel contratto d’affitto d’azienda fu stipulata anteriormente all’entrata in vigore del Decreto Legislativo[20]. La corte d’appello non si è preoccupata di sottolineare l’inapplicabilità delle norme del capo I e ha proceduto ad un’analisi della clausola compromissoria basandosi sull’art. 808 quater, il quale prevede che “[n]el dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”.

La Suprema Corte, viceversa, si è (giustamente) preoccupata di far notare l’inapplicabilità delle norme di cui sopra e conseguentemente di rigettare come criterio interpretativo sia quanto previsto dall’art. 808 quater, sia quanto previsto dall’art. 808 ter[21], di fatto quindi escludendo anche una interpretazione restrittiva della clausola come richiesto dal Ricorrente. Se fino a questo punto quanto sottolineato dalla Corte va esente da critiche, è il passaggio successivo operato dai Supremi Giudici che merita di essere letto attentamente per un eventuale diverso approccio al tema (per quanto concerne la scelta della Cassazione della non-estensione della disciplina di cui agli artt. 809-832 c.p.c., si vedano le argomentazioni supra, para. III).

[18] Art. 27, terzo comma.

[19] Art. 27, quarto comma.

[20] Precisamente, il 25 febbraio 2005.

[21] Nel linguaggio della Corte: “Pertanto, errata deve ritenersi la statuizione della Corte d’appello, che ritiene di applicare direttamente alla convenzione, stipulata anteriormente al 2006, il criterio legale interpretativo dell’oggetto della clausola compromissoria, dettato dall’art. 808 quater c.p.c., secondo cui ‘nel dubbio’ la convenzione deve intendersi estesa ‘a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce’. Altrettanto errato deve ritenersi, per lo stesso motivo, l’argomento svolto dal ricorrente, nel primo motivo, secondo cui la interpretazione restrittiva del contenuto della clausola compromissoria dovrebbe desumersi dall’art. 808 ter c.p.c., trattandosi di norma anch’essa inapplicabile alla fattispecie per le medesime ragioni sopra esposte.”

V. L’ambito oggettivo di una clausola compromissoria di arbitrato irrituale

L’ambito oggettivo di una clausola compromissoria (che sia di arbitrato rituale o irrituale) è da sempre tema molto dibattuto e discusso[22]. Non è questa la sede per approfondire l’argomento, tuttavia qualche importante cenno va fatto. La riforma del 2006, introducendo l’art. 808 quater e quindi favorendo normativamente un’interpretazione estensiva dell’ambito di una clausola compromissoria, ha evidentemente recepito le diverse autorevoli voci dottrinali che da lungo tempo insistevano su una maggiore flessibilità[23]. L’inapplicabilità temporale dell’art. 808 quater ha fornito tuttavia ai Giudici il pretesto per ritornare all’orientamento precedente la riforma. Al raggiungimento di tale risultato ha certamente contribuito la corte d’appello nel non pronunciarsi su diverse e ulteriori richieste formulate nell’atto di citazione (di cui si discuterà al successivo paragrafo, VI), errore che ha permesso ai Supremi Giudici di sottolineare come qualsiasi questione concernente illeciti extracontrattuali, precontrattuali oppure illeciti contrattuali ma nascenti da contratto autonomo, seppur collegato e tra le stesse parti, non possa essere fatta ricomprendere nell’ambito della clausola compromissoria.

Tuttavia, sulla scia di autorevolissime voci dottrinali[24], un’altra lettura interpretativa può essere fornita. In una situazione dove le parti contraenti abbiano scelto la via arbitrale (rituale o irrituale) per risolvere le controversie che dovessero nascere da un contratto, si deve intendere, in assenza di precisazione a tal riguardo, che le stesse parti abbiano inteso conferire all’autorità arbitrale anche tutte quelle controversie che, pur non avendo come causa petendi una violazione contrattuale, abbiano un titolo che si rifà, che si riconduce, che sia collegato al medesimo contratto e coinvolga le medesime parti. Nel caso di specie, non dovrebbe quindi ostare alla competenza arbitrale l'(ulteriore) azione di condanna proposta dal Ricorrente avente oggetto la restituzione di una somma data a mutuo e pattuita originariamente in un contratto di finanziamento diverso dal contratto d’affitto d’azienda.

Quanto scritto non vuole stare a significare che ogni qual volta vi siano contratti collegati tra le medesime parti vi debba essere competenza arbitrale a decidere ogni controversia. Ciò che si vuole criticare, come ampiamente evidenziato da medesima dottrina, è l’approccio che vede la necessaria esclusione di qualsiasi potere di un arbitro di decidere una controversia in quelle situazioni dove non è immediatamente chiaro cosa le parti avessero voluto.

Tuttavia, come si accennava in precedenza, quanto appena visto in tema di ambito oggettivo della clausola compromissoria è soltanto una parte del punto in realtà centrale della pronuncia in commento: la violazione del principio della domanda exart. 112 c.p.c. da parte della corte d’appello di Milano, violazione di cui si discuterà ora.

[22] Il tema, complesso, esula dalla presente trattazione. Per chi volesse cominciare ad approcciare l’argomento, si rimanda a Andrea Carlevaris, Ambito oggettivo dell’accordo compromissorio e arbitrabilità delle controversie non contrattuali, in Riv. Arb., 2010(4), pagg. 611 e ss.; Alessio Filippo di Girolamo, La potestas iudicandi degli arbitri in materia non contrattuale (anche, ma non solo, con riferimento all’azione del compratore ex art. 1669 c.c.), in Riv. Arb., 2019(1), pagg. 31 e ss.; Alessandro Motto, In tema di clausola compromissoria: forma, oggetto, rilevanza del comportamento delle parti, in Riv. Arb., 2006(1), pag. 88; Vito Amendolagine, Criteri interpretativi della clausola arbitrale e favor arbitrati, in Riv. Arb., 2019(1), pagg. 115 e ss. In ambito societario, Chiara Spaccapelo, Brevi p>, in Riv. Arb., 2014(1), pagg. 115 e ss.; Laura Salvaneschi, Ancora sull’arbitrabilità delle impugnative di delibere assembleari e sulla «competenza» a deciderle, in Riv. Arb., 2013(4), pagg. 916 e ss.

[23] Ex plurimis, Laura Salvaneschi, Arbitrato, in Commentario al Codice di Procedura Civile, 2014, Bologna, pagg. 192 e ss.; Elena Zucconi Galli Fonseca, in Arbitrato, Carpi (a cura di), 2007, Bologna, pagg. 148 e ss.

[24] Autori citati supra nota 23.

VI. Corrispondenza tra chiesto e pronunciato: le conseguenze del principio della domanda nei rapporti tra giudice e arbitro

Come è noto, l’art. 112 c.p.c. prevede che “[i]l giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”. Spetta alle parti, nell’atto di citazione, di precisare il thema decidendum e spetta al giudice di decidere su quanto presentato dalle parti. Nel caso di specie, il Ricorrente lamenta in Cassazione errata interpretazione della domanda da parte della corte d’appello, non avendo quest’ultima individuato le diverse e ulteriori richieste formulate nell’atto di citazione (i.e. pretese riguardanti illeciti extracontrattuali, illeciti contrattuali ma derivanti da diverso contratto, pretesa di liquidazione della quota sociale) e di conseguenza di aver erroneamente dichiarato improcedibile la domanda perché compresa nell’ambito della clausola compromissoria, quando in realtà molte delle pretese formulate non vi potevano essere ricondotte.

Un’eventuale censura dell’interpretazione della domanda in sede di legittimità, come specificato dalla Suprema Corte, deve “evidenziare un vizio consistente nella alterazione del senso letterale o del contenuto sostanziale dell’atto”[25]. Nella pronuncia in commento nulla si può dire della decisione dei Supremi Giudici per quanto concerne la violazione da parte della corte d’appello. Quello che preme sottolineare sono le conseguenze. In altre parole: ammesso che vi sia stata una violazione del principio della domanda, e quindi ammesso che vi siano più domande connesse, alcune di competenza arbitrale ed altre di competenza giudiziale, questo cosa comporta?

La tematica della connessione di cause pendenti davanti a giudice ed arbitro è sempre stata molto controversa[26]. Prima della riforma del 1994, la giurisprudenza era unanime nell’affermare che la pendenza davanti a giudice e arbitro (in sede rituale) di questioni connesse comportasse l’attrazione di entrambe alla giurisdizione statale[27]. Questo non valeva (anche post riforma 1994) per l’arbitrato irrituale, sulla (quantomeno coerente) scia che quest’ultimo integrasse un qualcosa di totalmente estraneo alla giurisdizione statale[28]. La riforma del 1994, e soprattutto quella del 2006 (che ha tipizzato l’arbitrato irrituale), hanno radicalmente cambiato piano di gioco. L’art. 819 ter c.p.c., come novellato, ora prevede che “[l]a competenza degli arbitri non è esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al giudice, né dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice. La sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una convenzione d’arbitrato, è impugnabile a norma degli articoli 42 e 43″. (Enfasi aggiunta). I rapporti tra giudice e arbitro sono, in seguito a tale novella, ora configurati in termini di competenza e non di giurisdizione, con la cruciale conseguenza dell’applicabilità dell’impugnazione per regolamento di competenza[29]. Quanto appena scritto vale per l’arbitrato rituale. Ma ecco che, nuovamente, entra in gioco il dibattito sopra esposto circa il rapporto tra irrituale e rituale: è applicabile l’articolo 819 ter c.p.c. all’arbitrato irrituale?[30]

Parte della dottrina e della giurisprudenza rimangono ancorati all’inapplicabilità dell’art. 819 ter c.p.c. sulla scia di quanto visto sopra. Di conseguenza, se da un lato la soluzione della contemporanea pendenza non è esclusa come non lo era prima della riforma, da altro lato questo comporta l’inapplicabilità dell’impugnazione per regolamento di competenza della decisione sulla validità della clausola compromissoria irrituale[31].

Tuttavia, se si condivide la posizione di chi promuove l’uniformità del regime processuale arbitrale, nei limiti della compatibilità delle norme con le due differenti species arbitrali e nei limiti eventualmente previsti dalle parti, la situazione cambia. L’articolo 819 ter c.p.c., infatti, non presenta problemi di incompatibilità con l’arbitrato irrituale e una sua applicazione a quest’ultima species arbitrale comporterebbe, in primo luogo, un importante passo verso la conferma dell’unitarietà dell’arbitrato, inteso come genus derogatorio della giurisdizione statale; e, in secondo luogo, una maggiore prevedibilità e chiarezza nei rapporti tra processo ordinario e processo arbitrale, preferendo un rapporto bilaterale a uno trilaterale (giudice ordinario – arbitro rituale – arbitro irrituale ), che altro non porterebbe se non confusione e incertezza.

[25] Così i Supremi Giudici nella pronuncia qui in commento, che si rifanno a Cass. Civ. Sez. L., 5 febbraio 2004, n. 2148.

[26] Interessante osservare lo sviluppo giurisprudenziale di questa tematica. Inizialmente, anche una mera connessione impropria comportava la devoluzione al giudice ordinario della cause connesse. Si veda a tal proposito la massima di Cass. Civ. Sez. I, 4 aprile 1979, n. 1943: “[i]l vincolo di connessione fra più domande o fra più controversie, alcune di competenza arbitrale ed altre di competenza del giudice ordinario, comporta che la competenza di quest’ultimo assorbe ed esclude la competenza arbitrale, ancorché si verta solo in ipotesi di connessione cosiddetta impropria, per la presenza, nelle diverse cause, di una o più questioni identiche, dalla cui soluzione dipenda, totalmente o parzialmente, la decisione”, in Giust. Civ. Mass. 1979 (4). Successivamente, i Supremi Giudici, nella pronuncia Cass. Civ. Sez. I, 12 novembre 1998, n. 11436, statuivano quanto segue: “[l]’art. 819 bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 11 della legge 5 gennaio 1994 n. 25, dispone che la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente dinanzi al giudice e l’art. 27, primo comma, della citata legge dispone, a sua volta, che l’art. 819 bis cod. proc. civ. si applica ai procedimenti arbitrali in corso, salvo che non sia intervenuta pronunzia di incompetenza per motivi di connessione tra la controversia deferita agli arbitri ed una causa pendente davanti al giudice.” Infine, in tempi recenti, post riforma del 2006, si veda Cass. Civ. Sez. I, 15 febbraio 2013, n. 3826: “in tema di arbitrato, il primo periodo dell’art. 819 – ter c.p.c., comma 1, nel prevedere che la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice ordinario, implica, in riferimento all’ipotesi in cui sia stata proposta una pluralità di domande, da un lato che la sussistenza della competenza arbitrale deve essere verificata con specifico riguardo a ciascuna di esse, non potendosi devolvere agli arbitri – o al giudice ordinario – l’intera controversia in virtù del mero vincolo di connessione, dall’altro che l’eccezione d’incompetenza dev’essere sollevata con specifico riferimento alla domanda o alle domande per le quali è prospettabile la dedotta incompetenza.”

[27] Si veda supra, nota 7.

[28] Cass. Civ. Sez. I, 18 gennaio 1990, n. 231: “[q]uanto alla sostenuta attrazione del giudizio arbitrale nella competenza del tribunale di Bergamo […], la censura è, nel caso in esame, priva di rilevanza, poiché la questione cui accenna la ricorrente postula che si tratti di due procedimenti giurisdizionali, l’uno principale e l’altro accessorio, e che quindi la pronunzia arbitrale sia chiesta nell’ambito di un arbitrato rituale, che presenta, appunto, quel connotato di giurisdizione di cui, come è noto, è privo l’arbitrato irrituale”; Cass. Civ. Sez. I, 12 aprile 2005, n. 7551: “[a]llorquando, invece, le parti abbiano convenuto una deroga alla giurisdizione del giudice ordinario preferendo una definizione negoziale delle controversie tra loro insorgenti nell’esecuzione di un determinato contratto la questione esorbita dalla disciplina della competenza e non vi è materia per una sua estensione analogica non essendo ipotizzabile alcuna connessione tra un giudizio ordinario e un negozio giuridico”.

[29] Cass. Civ. Sez. I, 15 febbraio 2013, n. 3826, cit. supra nota 26. App. Roma, sez. lav., 12 febbraio 2019, n. 4199: “[q]uanto all’asserito difetto di giurisdizione del tribunale in ragione della clausola compromissoria, la Corte ritiene che l’eccezione riproposta in questa sede sia inammissibile in quanto il provvedimento col quale il tribunale ha deciso sulla competenza in favore del giudice ordinario poteva essere impugnato esclusivamente col regolamento di competenza […]. Le Sezioni Unite con sent. n. 24153/2013 hanno stabilito il principio secondo cui l’attività degli arbitri rituali ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza.” E di conseguenza, l’importanza cruciale della novella del 2006: “l’impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali è soggetta alle forme processuali vigenti al momento in cui essa sia proposta, con la conseguenza che la sentenza va impugnata con l’appello e con il regolamento di competenza, a seconda che il giudizio sia proposto prima o dopo il 2 marzo 2006, data di entrata in vigore della menzionata disposizione”.

[30] Per una trattazione esaustiva del tema si rimanda a Rita Tuccillo, Riflessioni sulla litispendenza nell’arbitrato irrituale, in Riv. Arb., 2014(2), pagg. 389 e ss.

[31] La giurisprudenza è ancorata all’inapplicabilità delle norme “rituali” all’arbitrato irrituale, anche per quanto concerne l’art. 819 ter c.p.c. In Cass. Civ. Sez. VI, 6 novembre 2013, n. 25029, infatti, molto chiari e diretti i Supremi Giudici nel ritenere che “in tema di arbitrato, la decisione del giudice ordinario, che affermi o neghi l’esistenza o la validità di un arbitrato irrituale, e che, dunque, nel primo caso non pronunci sulla controversia dichiarando che deve avere luogo l’arbitrato irrituale e nel secondo dichiari, invece, che la decisione del giudice ordinario può avere luogo, non è suscettibile di impugnazione con il regolamento di competenza, in quanto la pattuizione dell’arbitrato irrituale determina l’inapplicabilità di tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l’art. 819 ter cod. proc. civ.” In dottrina, viceversa, il tema è molto dibattuto. Secondo Bove “la distinzione tra arbitrato rituale ed arbitrato libero è totale anche sul piano della disciplina giuridica nel suo complesso, non solo per la presunta differenza di efficacia dei rispettivi lodi”, Mauro Bove, Art. 808 ter, in La nuova disciplina dell’arbitrato, S. Menchini (a cura di), Padova, 2010, pag. 73. Contra, Sassani, op. cit., pag. 31: “[l]a domanda di arbitrato è pertanto domanda di tutela di posizioni soggettive interferente con l’esercizio della tutela dinanzi agli organi della giurisdizione, sicché alla tutela dello stesso diritto non può provvedere l’autorità giudiziaria che, se sollecitata, deve rifiutarne l’erogazione: l’eccezione di arbitrato irrituale è idonea a impedire la trattazione e a dar luogo a sentenza di rigetto in punto di rito.” Ed in nota, l’Autore procede a dire che “[q]uanto al regime applicabile all’eccezione di patto compromissorio irrituale non v’è alcuna ragione di non applicare l’art. 819-ter c. 1.” Nella stessa direzione, Tota, op. cit. pag. 560: “eventuali perplessità in ordine all’art. 819-ter, comma 1 – nella parte in cui ammette l’impugnabilità ex artt. 42 e 43 c.p.c. della ‘sentenza con cui il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una convenzione d’arbitrato’ – sono agevolmente superabili sul riflesso che la nozione di ‘competenza’ ivi accolta dal legislatore è sufficientemente ampia e atecnica da potersi riferire senza soverchie difficoltà a qualsiasi rapporto giudice-arbitro (non rilevando, cioè, l’appartenenza dell’arbitrato all’una o all’altra species).”

Redazione

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