Servitù carrabile e pedonale: non tutte le opere innovative devono essere considerate illecite ai sensi dell’art. 1067 c.c. (Cass. n. 9102/2013)

Redazione 15/04/13
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Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 19.2.1992 E.D., proprietario di un fabbricato sito in (omissis), agiva in giudizio, innanzi al Tribunale di Napoli, per l’accertamento della servitù di passaggio pedonale e carraio su di una strada privata di proprietà della ************, e per la condanna di detta società ad eliminare le opere eseguite in pregiudizio di tale servitù, oltre al risarcimento del danno. Precisava, al riguardo, di aver già promosso per analoghe violazioni del medesimo diritto altre due cause, con citazioni del 1982 e del 1988, che erano state poi riunite.
La società convenuta resisteva alla domanda negando l’esistenza della servitù, trattandosi semmai di un diritto personale – costituito con l’atto col quale l’attore aveva acquistato l’immobile di sua proprietà – per di più mai esercitato e ad ogni modo prescritto.
Il Tribunale di Nola, cui le due cause erano stato assegnate per competenza sopravvenuta, con sentenze del 21.12.2001 e del 7.3.2002, rese anche nei confronti della E. s.r.l., intervenuta in causa quale acquirente a titolo particolare del fondo dominante, accertata la costituzione di un’unica servitù sulla strada, condannava la società convenuta alla rimessione in pristino dei luoghi. In particolare, con la prima sentenza condannava la società convenuta a non adibire a parcheggio il ramo dello stradone avente accesso da via Roma, sul lato del fabbricato di parte attrice, e con la seconda a ripristinare l’originaria larghezza della strada, nell’un caso come nell’altro oltre ai danni, da liquidarsi in separato giudizio.
Le impugnazioni proposte dalla società ************ erano respinte dalla Corte d’appello di Napoli, con sentenze nn. 965/06 e 1720/06.
La Corte territoriale riteneva senz’altro dimostrata a stregua della complessiva lettura dell’atto pubblico di provenienza, sia l’esistenza e l’attualità della servitù, sia l’assoggettamento ad essa dell’intero stradone, e non soltanto dei suoi due tronconi terminali, come invece sostenuto dalla società appellante. Ed infatti, osservava, comparando tra loro la descrizione contenuta nella premessa dell’atto pubblico, nella quale si parlava di uno stradone che si sviluppava in due rami, con la descrizione contenuta nella clausola contenente la costituzione della servitù, in cui i due rami erano qualificati come due stradoni, non si riscontrava alcuna differenza sostanziale. Non solo, ma se la volontà negoziale fosse stata diversa, nel senso di asservire al passaggio non l’intero stradone, ma soltanto ciascuno dei suoi due rami, considerandoli autonomi e separati l’uno dall’altro, le parti ne avrebbero fatta espressa menzione nell’atto, anche considerata la complessiva chiarezza espositiva riguardante gli altri elementi del contratto. Affermava, inoltre, che non potevano ritenersi consentite opere che riducessero l’estensione della servitù per la sua intera dimensione, cosa che era avvenuta in vario modo, sia mediante la realizzazione di un marciapiede, sia per la presenza di alcuni ostacoli (un cancello scorrevole, la presenza di auto in sosta etc.), che incidevano sulla comoda fruibilità del passaggio e che, sotto altro aspetto, costituivano innovazioni illecite ai sensi dell’art. 1067 c.c. Infine, quanto alla domanda di danni, riteneva che il D., sebbene avesse inizialmente chiesto il risarcimento “con gli interessi”, aveva poi in sede di precisazione delle conclusioni chiesto la liquidazione dei danni in separata sede, richiesta cui la parte convenuta non si era opposta.
Per la cassazione di entrambe le anzi dette sentenze la A. R. s.r.l. propone separati ricorsi, ciascuno dei quali affidato a quattro mezzi d’annullamento.
Sebbene non destinataria della notifica dell’impugnazione, la E. s.r.l. ha proposto in entrambi i casi controricorso.
E.D. , invece, non ha svolto attività difensiva.
Ricorrente e controricorrente hanno depositato memoria. La parte ricorrente ha presentato anche note scritte alle conclusioni del Procuratore generale.

Motivi della decisione

1. – Preliminarmente va disposta la riunione delle due impugnazioni, ancorché proposte contro sentenze diverse.
Questa Corte ha avuto modo di osservare che l’istituto della riunione di procedimenti relativi a cause connesse, previsto dall’art. 274 c.p.c., essendo volto a garantire l’economia ed il minor costo del giudizio, oltre alla certezza del diritto, trova applicazione anche in sede di legittimità, sia in relazione a ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi sia, a maggior ragione, in presenza di sentenze pronunciate in grado di appello in un medesimo giudizio, legate l’una all’altra da un rapporto di pregiudizialità e impugnate, ciascuna, con separati ricorsi per cassazione (Cass. nn. 22631/11 e 14607/07).
Nella specie, i diversi giudizi tra le stesse parti, definiti con le sentenze impugnate, hanno ad oggetto la questione relativa all’esistenza della medesima servitù di passaggio e ai distinti, ma del tutto connessi e consequenziali atti che ne ostacolerebbero l’esercizio.
2. – Col primo motivo di entrambi i ricorsi parte ricorrente deduce la carenza e l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata circa fatti controversi e decisivi, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c., e la violazione falsa applicazione degli artt.1362, 1363, 1 e 2 comma, 1371 e 1065, prima parte c.c..
La censura, che riprende alcune parti dell’atto pubblico di costituzione della servitù, mira a sostenere che quest’ultima gravi soltanto sui due tratti terminali dello Guidone, non sull’intero, configurando non un’unica, ma due autonome servitù di passaggio, con esclusione del tratto intermedio dello stradone stesso. Sostiene che l’interpretazione fornita dalla Corte distrettuale si pone in contrasto (i) con le norme d’interpretazione dei contratti, in particolare con la disposizione che impone la ricerca della comune volontà dei contraenti al di là del significato letterale delle espressioni adoperate, (ii) con la norma che impone di interpretare le singole clausole l’una per mezzo delle altre e (iii) con quella per cui nel dubbio deve prevalere l’interpretazione che attui l’equo contemperamento degli interessi delle parti.
Inoltre, il giudice d’appello non ha considerato che la parallela causa possessoria intentata dal D. è stata rigettata dal Tribunale, prima, e dalla stessa Corte d’appello di Napoli, poi, la quale, pertanto, avrebbe dovuto tenere presente l’attuale assetto possessorio nel determinare il contenuto della servitù.
Il motivo mette capo ai seguenti quesiti: “a) dica la Corte ecc.ma se violi o faccia quantomeno falsa applicazione degli artt. 1362 1 comma e 1363 il giudice di merito che in ipotesi come quella di specie ometta di ricercare la comune volontà dei contraenti, privilegiando invece il dato letterale e, in questo, le proibizioni contenute nella parte descrittiva di un contratto, anziché in quella pattizia ed escludendo una ermeneutica compiuta delle varie clausole negoziali”; “b) dica la Corte Suprema se la previsione dell’arti 362, 2 comma, in tema di interpretazione del contratto mediante la successiva esecuzione dello stesso sia derogata dal diverso principio della irriducibilità della estensione della servitù per come portata dal titolo; o se invece i due principi abbiano sfere di applicazione del tutto differenti di guisa che l’esercizio in concreto della servitù ben possa valere come parametro interpretativo della sua estensione secondo il titolo, anche alla luce del possesso come esercitato (art. 1065 c.c.)”; “c) dica il Spremo Collegio se il principio contenuto nell’art. 1371 c.c., secondo il quale – nel caso di atto a titolo oneroso – il negozio giuridico va interpretato realizzandosi l’equo contemperamento degli interessi delle parti, risulti violato laddove – come nel caso di specie – l’atto venga interpretato in malam partem a carico di uno dei contraenti ed a vantaggio di un altro, per giunta senza che siffatto vantaggio risulti rispondente ad esigenze meritevoli di tutela sotto il profilo pratico-economico”.
1.1. – Il motivo è infondato.
1.1.1. – Quanto ai quesiti sub a) e c), si rileva che questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di interpretazione del contratto ed ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va poi verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al rispettivo coordinamento a norma dell’ari 1363 c.c. e con riguardo a tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni parte e parola che la compone, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. nn. 18180/07, 12400/07, 4176/07, 26690/06, 28479/05, 14495/04 e 15150/03).
Nella specie, la Corte territoriale rettamente ha assegnato carattere prioritario all’interpretazione letterale del titolo, ed è pervenuta ad un approdo interpretativo che, immune da elementi di criticità nell’iter logico che lo sostiene, si sottrae al sindacato di questa Corte. Le censure svolte al riguardo si esauriscono, infatti, in una mera disapprovazione del risultato cui è pervenuta la sentenza impugnata perché difforme dalle aspettative della stessa parte, e tradiscono, come tali, il tentativo di provocare una nuova valutazione di merito, inammissibile dato il limite interno del giudizio di legittimità.
1.1.2. – Il quesito sub b) è, invece, incongruo sotto il profilo della logica giuridica, perché istituisce, con un interrogativo di tipo retorico, una relazione dialettica impropria (e non desumibile dalla sentenza impugnata) fra l’interpretazione extraletterale del contratto secondo il comportamento complessivo delle parti e l’esercizio della servitù conforme al titolo. Una cosa, infatti, è la comune intenzione delle parti desumibile dal loro comportamento complessivo anche posteriore al contratto, altra è l’attività di esercizio della servitù per opera del solo titolare del fondo dominante, sicché la prima non può essere dimostrata attraverso il rimando alla seconda.
2. – Il secondo motivo di entrambi i ricorsi deduce la violazione degli artt. 1027, 1028 e 1065, seconda parte c.c. nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c..
Poiché l’atto pubblico del 1955 costituente il titolo delle servitù non ne precisa l’estensione, il contrasto tra le parti si sarebbe dovuto dirimere alla luce della regola di cui all’art. 1065 c.c., secondo la quale nel dubbio circa l’estensione e le modalità di esercizio, la servitù deve ritenersi costituita in guisa da soddisfare il bisogno del fondo dominante col minor aggravio del fondo servente. Tale regola è stata disattesa dalla Corte territoriale, che non ha verificato quale utilità o maggiore comodità potesse trame il fondo di proprietà D. , dovendosi escludere una servitù imposta sull’intero stradone per consentire il passaggio da un estremo all’altro, e non soltanto per l’accesso al fondo dominante. Oltre a ciò, la sentenza impugnata ha del tutto omesso di esaminare e valutare lo stato dei luoghi anche con riferimento all’utilitas del fondo dominante.
Segue il quesito: “dica il S.C. se, qualora si versi in assenza di indicazioni precise desumibili dal titolo o dalla situazione di possesso circa l’esercizio della servitù, risulti violata la norma dell’art. 1065 c.c. ove il giudice del merito non abbia proceduto ad (o addirittura nemmeno si sia posto l’esigenza di) un’interpretazione che ritenga la (nella specie: 1e) servitù tale da soddisfare il bisogno del fondo dominante col minore aggravio del fondo servente, né abbia considerato, anche alla stregua del locus servitutis, la rilevanza dell’utilitas in senso obiettivo e non come mero vantaggio personale del titolare del fondo dominante”.
3. – Il terzo motivo di entrambi i ricorsi denuncia la violazione dell’art. 1067, comma 2, c.c., nonché il difetto di motivazione e l’omesso esame di fatti decisivi, in relazione all’art.360, nn. 3 e 5 c.p.c..
Posto che le opere vietate al proprietario del fondo servente dall’art. 1067, comma 2 c.c. sono solo quelle che si riflettono, alterandolo, sul contenuto essenziale della servitù, la sentenza impugnata, sostiene parte ricorrente, va censurata in quanto ha disposto delle condanne ripristinatorie prive di razionale giustificazione, senza motivazione adeguata e senza considerare dati e circostanze acquisite al processo, quali le risultanze della c.t.u. in ordine alla larghezza dello stradone e alle dimensioni del marciapiedi.
Segue il quesito: “dica la Corte se il rafforzamento di un marciapiede su viale sottoposto a servitù di passaggio pedonale e carrabile integri l’utilitas di una siffatta servitù, senza costituire violazione dell’art. 1067, comma 2 c.c.”.
Col medesimo motivo parte ricorrente contesta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui la società ************ non può utilizzare il viale quale area di parcheggio pertinente al fabbricato, poiché la soc. convenuta aveva sempre dedotto che le auto non erano sue ma di terzi, i quali, pertanto, avrebbero dow.+c rispondere della lesione della servitù e avrebbero dovuto essere destinatali di un’azione confessoria ex art. 1079 c.c. La Corte napoletana, pertanto, ha finito con il considerare legittimata passiva all’acro confessoria l’attuale ricorrente, senza avvedersi che tale azione ha natura reale e che deve essere “esperita contro chi tra gli omnes abbia violato l’obbligo di pati gravante su tutti i consociati in favore del titolare di un diritto reale” (così, testualmente, si legge a pag. 29 del ricorso).
In margine, sottopone a questa Corte l’ulteriore quesito: “dica il S.C. se sia correttamente proposta l’azione confessoria servitutis intesa ad ottenere la cessazione di attività di turbativa nei confronti del proprietario del fondo servente, qualora tali turbative siano poste in essere da soggetti da lui diversi; o se invece tale azione – nonché l’azione risarcitoria correlata alle turbative – debba essere esercitata, ai sensi dell’art. 1079 c.c., nei confronti dell’autore delle turbative medesime”.
3-bis. – Nei soli limiti e nei termini che seguono, i predetti due motivi, da trattare congiuntamente, sono fondati e vanno accolti quanto alla sentenza n. 965/06, mentre impongono soltanto la correzione della sentenza n. 1720/06.
3-bis.1. – Ai sensi dell’art. 1067, cpv. c.c. il proprietario del fondo servente non può compiere alcuna cosa che tenda a diminuire l’esercizio della servitù o a renderlo più incomodo.
L’assunto per cui non ogni innovazione rispetto alla quale sia astrattamente sensibile la servitù debba ritenersi per ciò solo vietata, trova ampio riscontro nella giurisprudenza di questa Corte in tema di servitù di passaggio, con riferimento all’indirizzo che ritiene consentita l’apposizione sul fondo servente di cancelli e simili, del cui meccanismo di apertura sia reso partecipe il proprietario del fondo dominante, ove ciò comporti per quest’ultimo disagi minimi e trascurabili (cfr. per tutte e da ultimo, Cass. n. 14179/11).
Quanto, invece, alle innovazioni che diminuiscano l’ampiezza stessa del locus servitutis, in un precedente ormai remoto (Cass. n. 1930/78) si è ritenuto che la riduzione dello spazio disponibile per l’esercizio di una servitù di passaggio pedonale e la modificazione del relativo tracciato originario non costituiscono fatti di spoglio del possesso della servitù quando, in concreto, non causano una diminuzione delle utilità che costituiscono il contenuto di quel diritto, non impediscono la soddisfazione di alcuna di quelle esigenze del fondo dominante che esso è destinato ad appagare e non incidono sulle modalità del suo esercizio rendendolo più difficile (in quel caso fu ritenuta ispirata a esatti principi di diritto la decisione del giudice del merito il quale aveva escluso che la riduzione – da metri 4,50 a metri 1,50 – della ampiezza dello spazio destinato a passaggio pedonale e la modificazione – da rettilineo ad angolare – del tracciato del relativo percorso costituissero spoglio del possesso della servitù, non rendendone più incomodo l’esercizio, attese le condizioni disagevoli dell’originario passaggio).
In altre e meno risalenti sentenze si afferma, poi, che le opere vietate dal proprietario del fondo servente dall’art. 1067, comma secondo c.c. sono soltanto quelle che si riflettono, alterandole, sul contenuto essenziale dell’altrui diritto di servitù qual è determinato dal titolo, sì da incidere sull’andatura e sull’estensione dell’utilitas oggetto di quello stesso diritto. La norma non tutela quindi l’utilitas che di fatto il proprietario del fondo dominante ritenga di trarre dalla servitù, ma quella assicurata nel suo contenuto essenziale dal titolo. Conseguentemente, in tema di servitù di passaggio, non comporta diminuzione dell’esercizio della servitù l’esecuzione di opere che pur riducendo la larghezza dello spazio di fatto disponibile a tal fine, la conservino tuttavia in quelle dimensioni che non comportino una riduzione o una maggiore scomodità dell’esercizio delle servitù (Cass. nn. 10990/98, 7360/92 e 4585/93).
Interpretazione letterale e localizzazione della norma dell’art. 1067 c.c. nel capo dedicato all’esercizio delle servitù inducono a dare continuità al suddetto indirizzo, e ad affermare che il proprietario del fondo servente può porre in essere le innovazioni che siano attuate in maniera tale da conservare inalterata sia l’utilitas della servitù, nell’accezione più lata consentita dal titolo costitutivo, sia la sua comodità d’uso. Pertanto, in materia di servitù di passaggio, la riduzione della larghezza della strada costituisce un’innovazione vietata non di per sé, ma solo in quanto idonea a menomare le possibilità di transito ovvero a ridurne la comodità di esercizio, avendo riguardo esclusivamente a quanto consentito dal titolo e non al vantaggio che di fatto il proprietario del fondo dominante ritenga di trarre dalla servitù stessa.
3-bis.1.1. – Nella sentenza n. 965/06 la Corte partenopea, accertata e giudicata rilevante, a causa della realizzazione di un marciapiede, la riduzione della larghezza della strada (m. 9,20 – 10,45), rispetto a quanto stabilito nel contratto costitutivo della servitù (m. 10,50), ha tratto senz’altro la conseguenza che ne sarebbe stato pregiudicato il comodo esercizio, e che “comunque, sotto un diverso aspetto” l’innovazione sarebbe illecita a norma dell’art. 1067 c.c. Tale soluzione, discendendo da un sostanziale automatismo per cui è lesiva della servitù l’innovazione che rispetto a quanto previsto nel titolo riduca la superficie della strada deputata al transito veicolare, contrasta con la corretta interpretazione della norma citata. Inoltre, la correlata valutazione di rilevanza della riduzione stessa, che lascia al passaggio dei mezzi un’ampiezza utile compresa fra m. 9,20 – 10,45, appare, nella sua pari assolutezza, incongrua sotto il profilo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., ove si consideri che secondo il D.M. 14.10.1968, che disciplina il contenuto dei progetti definitivi di strada, la larghezza di ogni corsia (per tale intendendo lo spazio destinato a ricevere una sola fila di veicoli che transitano in un’unica direzione di marcia) può variare tra i 2.75 m. e i 3.75 m. Valori che, stando alla fattispecie concreta così come ricostruita ed esposta nella sentenza impugnata, sarebbero più che esauditi per qualsivoglia esigenza di transito veicolare.
3-bis.1.2. – Diverso il discorso per quanto concerne la sentenza n. 1720/06. Le medesime considerazioni di diritto ivi svolte (seppure incerte nell’apparente ritenere che le opere in questione sarebbero “comunque, sotto un diverso aspetto” innovazioni illecite ex art. 1067, cpv. c.c., mentre proprio e solo di questo si tratta), conducono, però, la Corte territoriale ad affermare che “nella specie il c.t.u. ha riscontrato che la vicinanza della rampa al passo carrabile di pertinenza del D. rende molto difficile la manovra di ingresso in esso, atteso il raggio di sterzata di un autocarro e quindi il restringimento sopra indicato rappresenta oggettivamente una diminuzione o riduzione della servitù legittimamente costituita. Analogo discorso è a farsi in ordine alla recinzione della parte finale del ramo dello stradone con accesso da via Roma ed al parcheggio di auto sul lato di esso, a confine con il fabbricato del D. , giacché appare evidente, anche alla luce delle risultanze della c.t.u., che anche esse costituiscano violazione ex art. 1067 c.c., tendendo a ridurre, o comunque, a rendere meno agevole l’esercizio della servitù”.
In tal caso l’accertamento dei giudici d’appello non si limita a riscontrare la riduzione del locus servitutis, ma con motivazione congrua e logica coglie aspetti di effettivo e concreto pregiudizio all’esercizio della servitù di passo, secondo una valutazione di merito insindacabile in questa sede di legittimità.
3-bis.2. – Infine, del tutto destituito di fondamento è l’assunto per cui data la natura reale della proposta actio confessoria servitutis, legittimati passivi sarebbero i terzi che di fatto pongano in essere condotte lesive della servitù e non il titolare del fondo servente. Al contrario, l’azione confessoria servitus – sia essa diretta al mero accertamento della servitù, che all’accertamento ed alla cessazione degli impedimenti e delle turbative – deve essere esperita contro chi, trovandosi in rapporto attuale (di natura reale) con il fondo servente, contesti l’esistenza della servitù, con o senza turbative (Cass. n. 6245/94).
4. – Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 278 c.p.c. e la carenza motivazionale, ai sensi dell’art.360, nn. 3 e 5 c.p.c..
La condanna della società ************ al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio viola, sostiene il ricorrente, l’art. 278 c.p.c., che non consente la Scissione del giudizio sull’an e sul quantum debeatur allorché il convenuto vi si opponga.
Premesso di essersi opposto a tale scissione già con la comparsa di risposta di primo grado in data 30.9.1982, parte ricorrente contesta come priva di supporto argomentativo l’affermazione della Corte territoriale secondo cui sarebbe indubbio che il fatto costituisca un evento potenzialmente generatore di danno, avendo compromesso le aspettative di piena utilizzazione della servitù.
Segue il quesito: “se sia consentita la condanna generica al risarcimento del danno da liquidare in separata sede, chiesta dalla parte istante, ove risulti che il convenuto si sia opposto alla scissione dell’an dal quantum, chiedendo a sua volta la liquidazione dei suddetti danni, ove sussistenti, nello stesso giudizio proposto soltanto per l’accertamento dell’an; e se sia consentita la condanna generica ove la parte istante non abbia indicato, almeno nel genus, danni risarcibili e da liquidare in separato giudizio, né proposto le prove utili alla loro quantificazione”.
4.1. – L’accoglimento del secondo e del terzo motivo limitatamente alla sentenza n. 965/06 comporta l’assorbimento del correlato quarto motivo.
4.2. – Quanto alla sentenza n. 1720/06, la censura è in parte inammissibile e in parte infondata.
4.2.1. – Inammissibile perché priva del requisito di autosufficienza. Posto, infatti, che in detta sentenza si precisa che l’attore, chiesti inizialmente “i danni con gli interessi”, aveva poi in sede di precisazione delle conclusioni domandato che la relativa liquidazione fosse riservata ad altra sede, non è sufficiente richiamare quanto dedotto nella comparsa di risposta di primo grado, poiché la parte odierna ricorrente avrebbe dovuto specificare se e come successivamente a tale richiesta abbia manifestato la propria opposizione alla scissione della pronuncia sull’an rispetto a quella sul quantum debeatur.
4.2.2. – Infondata nel resto perché la pronuncia di condanna generica al risarcimento presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo del danno, rimanendo l’accertamento della concreta esistenza dello stesso riservato alla successiva fase, con la conseguenza che al giudice della liquidazione è consentito di negare la sussistenza del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudicato formatosi sull’an (fra le tante, Cass. nn. 15335/12,21428/07,16123/06, 6257/02 e S.U. 8545/93).
5. – La sentenza n. 965/06 va cassata nei limiti anzi detti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, che nel decidere la controversia si atterrà al seguente principio di diritto: “in tema di innovazioni ai sensi dell’art. 1067, cpv. c.c., il proprietario del fondo servente può porre in essere le innovazioni che siano attuate in maniera tale da conservare inalterata sia l’utilitas della servitù, nell’accezione più lata consentita dal titolo costitutivo, sia la sua comodità d’uso. Pertanto, in materia di servitù di passaggio, la riduzione della larghezza della strada costituisce un’innovazione vietata non di per sé, ma solo in quanto idonea a menomare le possibilità di transito ovvero a ridurne la comodità di esercizio, avendo riguardo esclusivamente a quanto consentite dal titolo e non al vantaggio che di fatto il proprietario del fondo dominante ritenga di trarre dalla servitù”.
6. – Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 385, terzo comma c.p.c..

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso avverso la sentenza n. 965/06, respinto il primo ed assorbito il quarto, rigetta il ricorso contro la sentenza n. 1720/06, cassa la sentenza n. 965/06 in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.

Redazione