Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: l’onere della prova è a carico del datore di lavoro (Cass. n. 11775/2012)

Redazione 12/07/12
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

Con distinti ricorsi successivamente riuniti T.N., F.I., Gi.Im. , D.I.A., P.T., M.D.S. e D.M.L. convenivano in giudizio davanti al Tribunale di Napoli la s.n.c. F.lli (omissis), esponendo di avere lavorato alle dipendenze di quest’ultima presso un piccolo supermercato in (omissis) con mansioni di direttore del magazzino lo I. e di addette alla vendita le altre ricorrenti e di avere percepito, lungo tutto l’arco del rapporto di lavoro, una retribuzione non corrispondente alla qualità e alla quantità delle prestazioni lavorative svolte; che, avendo chiesto che fosse posta fine alle costanti irregolarità concernenti il pagamento della retribuzione e gli orati di lavoro, erano state fatte oggetto di un atteggiamento offensivo e intimidatorio per cui, anche a seguito del licenziamento dello I., motivato con l’impossibilità di utilizzare la sua attività lavorativa per effetto di una diversa organizzazione del lavoro del reparto abbigliamento, si erano dapprima assentate dal posto di lavoro per malattia e avevano poi comunicato che si sarebbero astenute dall’esecuzione della prestazione lavorativa ai sensi dell’art. 1460 c.c.; che la società aveva respinto il contenuto di tali comunicazioni e, ritenendo ingiustificato l’abbandono del posto di lavoro, aveva loro intimato il licenziamento per giusta causa; tanto premesso, hanno chiesto l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato per i periodi e con gli orari indicati in ricorso, con il riconoscimento delle qualifiche corrispondenti alle mansioni effettivamente svolte e delle relative differenze retributive, nonché della inefficacia o della illegittimità dei licenziamenti comminati nei loro confronti (ad eccezione della Tr.) con le relative conseguenze ex art. 18 l. n. 300/70 o ex art. 8 l. n. 604/66.
Il Tribunale di Napoli ha accolto la domanda condannando la società al pagamento delle differenze retributive determinate a seguito dell’espletamento di consulenza tecnica contabile e condannandola altresì alla riassunzione dei ricorrenti nel posto di lavoro o, in alternativa, alla corresponsione in loro favore di una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, diversificandone la misura in relazione alle diverse posizioni lavorative. Tale sentenza è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Napoli, che ha rideterminato gli importi dovuti alle ricorrenti a titolo di ferie, permessi e festività, nonché a titolo di trattamento di fine rapporto, confermando nel resto la sentenza impugnata. A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta ritenendo di dover rigettare tutte le deduzioni svolte dalla società in ordine alla legittimità dei licenziamenti, alla natura e alla durata dei diversi rapporti di lavoro ed all’accertamento delle mansioni svolte dai lavoratori, respingendo altresì l’appello incidentale proposto da questi ultimi in ordine alla determinazione delle somme da essi percepite.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società F.lli (omissis) affidandosi a nove motivi di ricorso cui resistono con controricorso i lavoratori.

 

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2118 c.c., 3 l. n. 604/66, 41 Cost., 2727, 2728 e 2729 c.c., nonché vizio di motivazione, in ordine alla statuizione con la quale la Corte territoriale ha ritenuto l’illegittimità del licenziamento dello I. per non avere la società dimostrato l’impossibilità di una sua diversa utilizzazione nell’ambito dell’organizzazione aziendale, nonostante che la stessa società avesse chiesto di provare le circostanze che avevano condotto alla soppressione del posto di lavoro ed alla impossibilità di utilizzare il dipendente in diversa collocazione.
2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 2094, 2222 e 2697 c.c., 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per avere la Corte d’appello ritenuto che il rapporto di lavoro dello I. avesse avuto inizio fin dal 1.8.1990 come rapporto di lavoro subordinato con orario di 28 ore settimanali sulla base di una erronea valutazione delle risultanze della prova testimoniale.
3.- Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con cui la Corte d’appello ha ritenuto che la società non avesse dimostrato di avere indebitamente corrisposto allo I. la quota di retribuzione versata in eccesso rispetto alla retribuzione minima prevista dal contratto collettivo, senza pronunciarsi sull’esistenza del patto di conglobamento dedotto dalla società già con la memoria di costituzione in primo grado.
4.- Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 1362 c.c., 7 l. n. 300/70, 2104 c.c. e 151 c.c.n.l., nonché vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con cui la Corte territoriale ha ritenuto di prendere in considerazione i fatti contestati alle lavoratrici limitandone l’esame ai soli giorni di assenza dal lavoro, anziché inserire i singoli episodi nel contesto di un più articolato e censurabile disegno inteso ad un’opera di sabotaggio dell’attività produttiva.
5.- Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 7 l. n. 300/70, 2119 e 1334 c.c., nonché vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con cui la Corte di merito ha ritenuto che l’assenza dal lavoro, per acquistare rilevanza disciplinare ai sensi di quanto previsto dalla disciplina collettiva, dovesse avere una durata superiore a tre giorni, senza considerare che, nel caso in esame, i lavoratori avevano dichiarato preventivamente di volersi astenere a tempo indeterminato dalla prestazione lavorativa. Per quanto riguarda, inoltre, la posizione di N.T., la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la contestazione dell’addebito avesse riguardo al periodo di assenza fino al 6.7.2001 anziché al periodo fino al 7.7.2001.
6.- Con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 2697 c.c., 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che fosse stata raggiunta la prova dello svolgimento da parte della Im. delle rivendicate mansioni superiori (terzo livello del c.c.n.l. per i dipendenti da aziende commerciali).
7.- Con il settimo motivo si denuncia violazione degli artt. 112, 434 e 437 c.p.c., 2697 e 2729 c.c., nonché vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto “verosimile” che il rapporto di lavoro della D.M. avesse avuto inizio in data 10.5.1995 anziché in data 1.6.1995 (come da formale assunzione).
8.- Con l’ottavo motivo si denuncia violazione degli artt. 2697 c.c., 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con cui la Corte territoriale ha ritenuto che fosse stato provato lo svolgimento da parte della Tr. di una prestazione lavorativa a tempo pieno.
9.- Con l’ultimo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte di merito ha tenuto conto delle somme erogate alle ricorrenti a titolo di ferie, permessi e festività non godute solo per il periodo successivo al 31.5.2001, omettendo di prendere in considerazione gli importi corrisposti nel periodo precedente.
10.- Il primo motivo è infondato. È giurisprudenza costante – cfr. ex plurimis, Cass. n. 14815/2005 – che, ai fini della legittimità del licenziamento per ragioni inerenti all’attività produttiva, sul datore di lavoro incombe l’onere di provare la concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo sussistenti all’epoca della comunicazione del licenziamento, nonché l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito (cfr. anche Cass. n. 21282/2006; Cass. n. 12514/2004). È stato altresì chiarito (Cass. n. 12261/2003, Cass. n. 5301/2000) che il giustificato motivo oggettivo deve essere valutato sulla base degli elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti e non future ed eventuali. Più recentemente, questa Corte ha esteso l’ambito dell’onere probatorio che incombe sul datore di lavoro in subjecta materia, affermando che in caso di licenziamento per giustificato motivo, il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Cass. n. 21579/2008).
11.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che la situazione prospettata dalla società, e cioè la soppressione del posto di lavoro ricoperto dallo I. , quale direttore di una parte dell’attività commerciale (quella relativa alla vendita dei prodotti di abbigliamento), a seguito della nuova affiliazione in franchising di quella parte dell’attività del supermercato, “avrebbe dovuto essere quanto meno coeva alla contestata situazione del venir meno dell’utilità di un tale figura professionale e non essere semplicemente prospettata come potenziale causa di recesso in un futuro prossimo, senza che, nel contempo, fosse fornita alcuna prova della possibilità di repechage dello I. in attività similari, dato che, comunque, da una parte l’attività di franchising continuava, seppur con un gruppo commerciale diverso per il ramo di attività della stessa azienda rappresentato dalla vendita dell’abbigliamento e, dall’altra, il regime commerciale di franchising permaneva, immutato il gruppo commerciale di riferimento per l’altro ramo commerciale di vendita di generi alimentari e casalinghi”.
12.- Le contrarie affermazioni della ricorrente, secondo cui la Corte territoriale, nel respingere il motivo di gravame formulato sul punto dalla società appellante, avrebbe omesso di fornire qualsiasi motivazione circa le ragioni del diniego dell’ammissione della prova testimoniale richiesta dalla stessa appellante in ordine alle circostanze che avevano condotto alla soppressione del posto di lavoro ed alla impossibilità di utilizzare il dipendente in diversa collocazione, non tengono conto del rilievo che ha correttamente dato il giudice di appello alla necessità che il giustificato motivo oggettivo debba essere valutato sulla base degli elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso ed alla conseguente irrilevanza di richieste istruttorie che non siano concretamente mirate a far luce sullo specifico punto, e si risolvono, sostanzialmente, nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come sopra accennato, alla necessità che la motivazione del recesso trovi fondamento in circostanze realmente esistenti al momento della sua comunicazione, e non in circostanze di cui sia prospettata l’esistenza in un futuro sia pure prossimo.
13.- Anche il secondo motivo è infondato. Questa Corte ha più volte ribadito che, ai fini della distinzione del rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo, costituisce requisito fondamentale il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo. In sede di legittimità è censurabile solo la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – incensurabile in tale sede, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice di merito ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (cfr. ex plurimis, Cass. 2728/2010, Cass. 23455/2009, Cass. 9256/2009, Cass. 14664/2001).
14.- Nella specie, il giudice di appello ha accertato l’esistenza tra lo I. e la società F.lli (omissis) di un rapporto di lavoro subordinato a tempo parziale svoltosi fin dal 1990 con le stesse caratteristiche di quello poi formalizzato tra le parti a far data dal 1993, rilevando che dalle deposizioni dei testi escussi in primo grado, sinteticamente riportate alle pagg. 11-12 della sentenza impugnata, era emerso che lo I. aveva lavorato alle dipendenze della società svolgendo, fin dal 1.8.1990, sempre le stesse mansioni per circa tre giorni alla settimana, con un orario di lavoro non inferiore alle 28 ore settimanali.
15.- Si tratta di una valutazione di fatto, devoluta al giudice del merito, non censurabile in cassazione in quanto comunque assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria, che non viene scalfita dalle contrarie argomentazioni svolte dalla ricorrente in ordine alla valutazione delle risultanze della prova testimoniale ed al giudizio sull’attendibilità o meno di alcuni testi; dovendo ribadirsi, al riguardo, che, come è stato più volte affermato da questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti. Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., ricorre, dunque, soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorché il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009. Cass. n. 17477/2007, Cass. n. 15489/2007, Cass. n. 7065/2007, Cass. n. 1754/2007, Cass. n. 14972/2006, Cass. n. 17145/2006, Cass. n. 12362/2006, Cass. n. 24589/2005, Cass. n. 16087/2003, Cass. n. 7058/2003, Cass. n. 5434/2003, Cass. n. 13045/97, Cass. n. 3205/95).
16.- Nelle citate sentenze questa Corte ha già avuto modo di precisare che, in tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. ex plurimis, Cass. n. 16499/2009 cit.). E, per quanto riguarda specificamente la valutazione della prova testimoniale, ha affermato che la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 42/2009 cit., cui adde Cass. n. 21412/2006, Cass. n. 4347/99, Cass. n. 3498/94).
17.- Né, per concludere sul punto, può trascurarsi che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle risultanze sulle quali il convincimento del giudice è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (cfr. ex plurimis Cass. n. 14034/2005), circostanza questa che, considerato il percorso motivazionale della sentenza impugnata, non è dato riscontrare nella fattispecie in esame.
18.- Neppure il terzo motivo può trovare accoglimento. La ricorrente lamenta l’omessa pronuncia o il vizio di motivazione o comunque una erronea interpretazione da parte del giudice di merito in ordine all’eccezione formulata dalla società circa l’esistenza di un patto di conglobamento, che sarebbe stato stipulato tra lo I. e la società medesima, in forza del quale la retribuzione corrisposta di fatto al lavoratore si doveva intendere comprensiva “di ogni eventuale indennità accessoria a maturare nel corso del rapporto, sia a titolo di eventuali ferie e/o festività non godute, sia per eventuali prestazioni straordinarie o aggiuntive, sia per 13^ mensilità o per qualsivoglia altra, comprese quelle per assegni familiari e finali”.
19.- Tali doglianze, tuttavia, non possono trovare ingresso in questa sede in quanto la decisione impugnata, pur se non sorretta sul punto da una motivazione adeguata, è conforme al diritto, sicché è sufficiente integrarne la motivazione, ex art. 384, ultimo comma, c.p.c.
20.- Questa Corte ha, infatti, ripetutamente affermato il principio secondo il quale non è valido il patto di conglobamento di tutte le voci retributive in una somma complessiva da erogarsi mensilmente, senza che sia enunciato l’importo da erogare per ciascuna voce retributiva, in quanto il patto di conglobamento nella retribuzione ordinaria dei corrispettivi ulteriormente dovuto al prestatore di lavoro subordinato per legge o per contratto (quali, la tredicesima mensilità, il compenso per le ferie, il compenso per le festività) può essere ammesso solo se dal patto stesso risultino gli specifici titoli cui è riferibile il compenso complessivo, perché solo in tal caso si può superare la presunzione che il compenso stabilito è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria e si rende possibile il controllo giudiziale circa l’effettivo riconoscimento al lavoratore dei diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto (cfr. ex plurimis Cass. n. 8255/2010, Cass. n. 8097/2002).
21.- Nella specie, dalle stesse deduzioni e richieste istruttorie formulate dalla odierna ricorrente risulta che il patto di conglobamento avrebbe avuto genericamente e indistintamente ad oggetto tutte le voci retributive eccedenti i minimi salariali, sicché non si riscontrano le condizioni di validità richieste, secondo il principio sopra espresso, ai fini della validità del patto, con la conseguenza che la statuizione con la quale la Corte territoriale ha respinto l’eccezione formulata dalla società deve ritenersi conforme al diritto e deve essere confermata, sia pure integrandone la motivazione nel senso sopra indicato.
22.- Il quarto e il quinto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per riguardare problematiche strettamente connesse tra loro, devono ritenersi infondati. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che il principio di immutabilità della contestazione dell’addebito non preclude solo le modificazioni dei fatti contestati che non si configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella contestata, ma che, riguardando circostanze prive di valore identificativo della stessa fattispecie, consentano comunque la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa apprestati a seguito della contestazione dell’addebito (Cass. n. 9167/2003). E ne ha conseguentemente dedotto che se il licenziamento non può avvenire per fatti diversi da quelli contestati, a maggior ragione quando essi sono posti a giustificazione del recesso, la valutazione della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento non può avvenire su fatti diversi da essi, anche se quei fatti siano emersi nel corso del giudizio e presentino degli aspetti comuni con quelli contestati (Cass. n. 428/2005).
23.- Nella specie, la sentenza impugnata si è correttamente attenuta ai principi sopra indicati e non è quindi assoggettabile alle censure che le vengono mosse in questa sede di legittimità. Ha osservato, al riguardo, il giudice di appello che non poteva essere condivisa la tesi della datrice di lavoro, secondo cui i provvedimenti risolutori intimati alle lavoratrici dovevano essere ricondotti in un “più ampio quadro teso a simulare, da parte dei dipendenti, un comportamento inadempiente della parte datoriale, invece insussistente, e a dissimulare loro concorrenti comportamenti delittuosi, concretizzatisi nella concomitante e perdurante astensione da ogni prestazione dopo un lunghissimo periodo di assenza per malattia, finalizzata a fermare l’attività produttiva ed il cambio di Franchisor”, e ciò in quanto la valutazione della legittimità dei licenziamenti doveva essere limitata, “stante il principio dell’immutabilità della contestazione, all’accertamento dei fatti oggetto di specifica contestazione, così come posti a base degli stessi provvedimenti risolutori, fatti tra i quali non rientrano i summenzionati episodi di tentato sabotaggio riferiti dall’appellante impresa”.
24.- La ricorrente sostiene che, così decidendo, la Corte d’appello avrebbe male interpretato il contenuto effettivo della lettera di contestazione degli addebiti, violando i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1363 e segg. c.c., ed in particolare non tenendo conto del collegamento, risultante dal testo della lettera, tra la contestazione delle assenze dal lavoro e quella di “un più articolato, dannoso e censurabile disegno”, nel quale doveva iscriversi la condotta delle lavoratrici. Anche tale censura non può tuttavia trovare ingresso in questa sede poiché la società ricorrente si è limitata, in realtà, esclusivamente a contrapporre una diversa interpretazione dell’atto di contestazione degli addebiti a quella operata dal giudice di merito, che risulta adeguatamente e logicamente motivata sia in ordine alla irrilevanza del generico riferimento a fatti che erano e sono restati estranei all’oggetto della contestazione disciplinare (costituendone, al più un “antefatto”) sia in ordine alla necessità di tener conto, ai fini della legittimità dei licenziamenti, dei soli “fatti oggetto di specifica contestazione, così come posti a base degli stessi provvedimenti risolutori”, e cioè delle assenze dal lavoro contestate a ciascuna delle lavoratrici.
25.- Dalla delimitazione dell’oggetto della contestazione ad una ipotesi giustificatrice del recesso espressamente prevista dalla normativa collettiva (assenza dal lavoro) la Corte territoriale ha poi correttamente ricavato la necessità, nella stessa ipotesi, della previa affissione del codice disciplinare (in linea con quanto più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte: cfr. ex plurimis Cass. n. 27104/2006, Cass. n. 19306/2004) e della necessità di tenere conto, ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione, del principio secondo cui deve escludersi che il datore di lavoro possa irrogare un licenziamento per giusta causa qualora questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (Cass. n. 19053/2005, Cass. n. 16260/2004).
26.- Per quanto riguarda il licenziamento di T.N., la società ricorrente sostiene che, al contrario di quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la contestazione disciplinare dovrebbe intendersi riferita non al giorno 6.7.2001, nel quale la T. si trovava ancora in malattia, ma al successivo giorno 7.7.2001, quando cioè la malattia era già cessata. Tale deduzione deve ritenersi irrilevante, giacché, in ogni caso, non sarebbe stato superato il termine di tre giorni di assenza ingiustificata previsto dal contratto collettivo quale ipotesi giustificatrice del licenziamento, sicché troverebbe comunque applicazione il principio richiamato al punto precedente, e applicato dalla Corte territoriale per il licenziamento delle altre lavoratrici, secondo cui il datore di lavoro, anche in questo caso, non avrebbe potuto intimare legittimamente il licenziamento per giusta causa.
27.- Le censure svolte con il sesto motivo sono inammissibili. Come è stato già sopra evidenziato, la valutazione delle risultanze della prova testimoniale e il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri – come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione – non sono deducibili in sede di legittimità, se non nei limiti della mancanza, insufficienza o contraddittorietà della motivazione, involgendo apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento né a confutare tutte le deduzioni avverse (Cass. n. 42/2009, Cass. n. 21412/2006, Cass. n. 4347/99, Cass. n. 3498/94). Qualora, poi, il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove testimoniali, ha l’onere non solo di trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare i punti ritenuti decisivi, risolvendosi, altrimenti, il dedotto vizio di motivazione in una inammissibile richiesta di riesame del contenuto delle deposizioni testimoniali e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione è mancata ovvero è stata insufficiente o illogica (Cass. n. 6023/2009).
28.- Nella specie, il giudizio sull’attendibilità dei testi è stato motivato dal giudice del merito mediante esame specifico delle diverse deposizioni prese in considerazione, in relazione al contenuto delle dichiarazioni sui fatti risultati a conoscenza di ciascuno dei testi ed alle deduzioni svolte dalla società nel corpo degli scritti difensivi, sicché risulta adempiuto il dovere di dare adeguatamente conto delle ragioni della decisione, dovere che, come detto, non impone al giudice di discutere ogni singolo elemento o di confutare ogni contraria deduzione difensiva, che deve ritenersi disattesa per implicito. Né la ricorrente ha riprodotto integralmente il testo delle deposizioni testimoniali rese dai testi ritenuti meno attendibili in relazione alla vicenda in esame e, soprattutto, adempiuto all’onere di specificare i punti ritenuti decisivi, risolvendosi così la denuncia del vizio di motivazione in una inammissibile richiesta al giudice di legittimità perché esamini il contenuto delle dichiarazioni dei testimoni e verifichi l’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione è mancata o è stata insufficiente o illogica.
29.- Il settimo motivo è infondato. Questa Corte ha ripetutamente affermato – cfr. ex plurimis Cass. n. 6786/2002, Cass. n. 11336/98 – che il principio dell’interpretazione del dispositivo della sentenza mediante la motivazione, benché applicabile anche nel rito del lavoro, non può valere, tuttavia, a sanare contrasti irriducibili fra motivazione e dispositivo, come quello che si determina allorché la motivazione contenga statuizioni incompatibili con quelle del dispositivo, atteso che in tal caso deve darsi prevalenza al dispositivo, il quale, acquistando pubblicità con la lettura fattane in udienza, cristallizza la statuizione emanata nella concreta fattispecie, con la conseguenza che le incompatibili enunciazioni contenute nella motivazione non sono idonee a costituire giudicato. Correttamente, dunque, il giudice di appello ha ritenuto che la statuizione contenuta nel dispositivo dovesse avere la prevalenza sulle contrarie affermazioni fatte dal primo giudice nella motivazione della sentenza e, decidendo nel merito, non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dall’art. 354 c.p.c., ha poi respinto la censura formulata dalla società appellante e confermato la statuizione di cui al dispositivo della sentenza impugnata, ritenendo, con una valutazione di fatto, adeguatamente motivata, che, alla luce delle risultanze istruttorie – ed in particolare degli elementi desumibili dalle deposizioni di alcuni testi, la cui posizione lavorativa pure non era stata regolarizzata dalla società fin dall’inizio del rapporto di lavoro, così come, del resto, era stato accertato anche per lo I. – dovesse considerarsi come verosimile che il rapporto di lavoro della D.M. avesse, di fatto, avuto inizio venti giorni prima della formale assunzione, così come sostenuto dalla lavoratrice.
30.- Va rilevato, al riguardo, che la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità. Infatti, è sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità (cfr. ex plurimis Cass. n. 12802/2006, Cass. n. 9782/99, Cass. n. 9961/96), così come riscontrabile nel caso in esame.
31.- Considerazioni analoghe a quelle già svolte sub 27) e 28), anche sotto il profilo della ritenuta violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, inducono a ritenere inammissibili le censure svolte dalla società ricorrente con l’ottavo motivo.
32.- È infine inammissibile l’ultimo motivo, con il quale si lamenta che la Corte di merito, nel decidere sulle domande relative alle spettanze dovute ai lavoratori per ferie, permessi e festività non godute, non avrebbe tenuto conto di tutte le somme erogate ai lavoratori per gli stessi titoli, non avendo la ricorrente riportato integralmente nel ricorso – o quanto meno nella parte significativa – il contenuto dei documenti (relazione di consulenza tecnica e prospetti paga) di cui lamenta l’omesso o inadeguato esame da parte del giudice di merito.
33.- Il ricorso va, dunque, rigettato con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate. 34.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 6.000,00 per onorari, oltre i.v.a., c.p.a. e spese generali.

Redazione