Legittima difesa (Cass. pen., n. 41879/2013)

Redazione 10/10/13
Scarica PDF Stampa

Fatto e diritto

Con sentenza emessa il 17.6.2011 il tribunale di Messina in composizione monocratica, in qualità di giudice di appello, confermava la sentenza con cui il giudice di pace di Messina, in data 16.3.2010 aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia L.G. , in relazione al reato di cui all’art. 582, c.p., commesso in danno di G.A. , oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato, in favore della costituita parte civile G.A..

Avverso la sentenza di secondo grado, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per Cassazione il L. , articolando tre motivi di impugnazione.

Con il primo il ricorrente lamenta i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 52 o 59, c.p., o, in subordine, all’art. 55, c.p.

Ad avviso del ricorrente, infatti, premesso che il tribunale ha riconosciuto la colpevolezza del coimputato G.A. , accusato di avere arrecato al L.M. , padre del L.G. , lesioni personali, avendolo colpito con un calcio nell’apparato genitale, la condotta di quest’ultimo va scriminata ai sensi degli artt. 52 e 59, c.p., essendo egli intervenuto, aggredendo a sua volta il G. , nella giustificata convinzione di dovere salvare il padre dall’attacco sferratogli dal G. , ponendo in essere una reazione assolutamente proporzionata all’aggressione subita dal genitore. Contesta, inoltre, il ricorrente quanto affermato dal tribunale in ordine alla circostanza che, nel momento in cui si verificò la reazione del L.G., l’aggressione del G. si era già conclusa, grazie all’intervento di tal P. , che si era interposto tra il padre del ricorrente ed il G. .

Infatti, sottolinea l’imputato, nonostante l’intervento del P. , il G. è comunque riuscito a colpire la sua vittima con un calcio ai testicoli, facendole battere il capo sul marciapiede, per cui quando il L.G. , uscito dall’esercizio commerciale dove si era recato per effettuare degli acquisti, aveva avuto percezione di quanto accaduto, scorgendo il corpo del padre riverso in terra ed il G. incombente su di lui, l’aggressione non si era affatto conclusa ed, anzi, il G. , se lasciato indisturbato, avrebbe verosimilmente continuato ad infierire sulla sua vittima, poiché il sessantenne P. , da solo, non era in grado di contenerlo. Né può assumere rilievo, ad avviso del ricorrente, la circostanza, valorizzata dal tribunale, della mancanza di giustificazioni da parte del suddetto L.G. , posto che la contumacia dell’imputato ed il suo conseguente silenzio non costituiscono elementi dai quali poter desumere la colpevolezza dello stesso. Su tali presupposti, dunque, il ricorrente fonda la sua richiesta di annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza, ricorrendo nel caso in esame le cause di giustificazione di cui agli artt. 52 o 59, c.p., ovvero, in subordine, di annullamento con rinvio per nuova determinazione della pena in senso più favorevole all’imputato, previo il riconoscimento della fattispecie di eccesso colposo in legittima difesa, di cui all’art. 55, c.p..

Con il secondo motivo l’imputato lamenta i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 581 e 582, c.p., non risultando dimostrato che, in conseguenza dei colpi ricevuti, il G. sia stato affetto da una malattia, in quanto, da un lato la certificazione medica prodotta al riguardo dalla parte civile è stata rilasciata dal medico di famiglia del G. non nell’immediatezza dei fatti, a riprova dell’esigua rilevanza del danno subito, dall’altro lo stesso G. nella sua deposizione innanzi al giudice di pace ha affermato di non aver riportato apprezzabili conseguenze dall’aggressione.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti comuni di cui all’art. 62, n. 1, n. 2 e n.5, c.p., apparendo evidente la sussistenza dei motivi di particolare valore morale o sociale, avendo agito il L. non per ‘vendetta’, come ipotizzato dal tribunale, ma per difendere il padre, o, quanto meno, nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui, rappresentato dall’aggressione del G. nei confronti del padre.

Tanto premesso, il ricorso del L. appare fondato solo in relazione al mancato riconoscimento in favore dell’imputato della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 2), c.p., dovendosi rigettare nel resto.

Ed invero, infondato deve ritenersi il primo motivo di impugnazione.

Le questioni rappresentate con tale motivo erano state già proposte al giudice di secondo grado, il quale, con motivazione approfondita ed immune da vizi, le aveva disattese, escludendo, innanzitutto, che il L.G. abbia agito in stato di legittima difesa, ‘perché, come opportunamente osservato dal giudice di primo grado, quando l’imputato è intervenuto la colluttazione era stata già sedata’.

Nel momento in cui il ricorrente era uscito dall’esercizio commerciale, vedendo il padre per terra, infatti, ‘era presente sul luogo il P. , che aveva già bloccato il G. , mettendosi in mezzo’, intervenendo dopo che quest’ultimo aveva colpito il L.M. ai testicoli, evento al quale, a differenza dell’altro teste G.G. , il P. non aveva assistito. Il tribunale, inoltre, evidenziava l’impossibilità di configurare l’eccesso colposo di cui all’art. 55, c.p., ‘che sottintende i presupposti della scriminante ed il superamento dei limiti a questa collegati’, non sussistendo, nella specie’, ‘la inadeguatezza della reazione difensiva, essendo già cessata, con l’intervento del P. , la necessità difensiva’.

Infine il giudice di secondo grado sottolineava come dall’istruttoria svolta in primo grado non erano emersi elementi che consentano di affermare la sussistenza della legittima difesa putativa, non avendo l’imputato dichiarato di avere aggredito il G. ritenendo che quest’ultimo stesse attaccando il padre, e, quindi, di avere agito nella convinzione di dovere salvare il genitore (cfr. pp. 3-5 dell’impugnata sentenza).

Il percorso argomentativo seguito dal giudice di secondo grado appare assolutamente condivisibile, in quanto il venir meno dell’attualità del pericolo, determinato dall’intervento del P. , che aveva arrestato l’azione del G. in danno del padre del ricorrente, non consente di affermare l’esistenza della legittima difesa, reale o putativa, ovvero l’eccesso colposo di cui all’art. 55, c.p., conformemente all’approdo interpretativo cui è giunta da tempo la prevalente giurisprudenza di legittimità, condivisa dal collegio.

Come è noto, infatti, in tema di legittima difesa uno dei requisiti indispensabili è l’attualità del pericolo da cui deriva la necessità della difesa.

L’esimente, pertanto, è esclusa di fronte ad un pericolo futuro o immaginario, essendo rilevante soltanto il pericolo attuale, consistente in una concreta minaccia già in corso di attuazione nel momento della reazione ovvero in una minaccia od offesa imminenti, tali da far sorgere nel soggetto reagente la percezione di una situazione di pericolo incombente, con conseguente necessità di difesa, ovvero la ragionevole opinione di trovarsi in siffatta situazione di necessità di difesa, protraendosi l’attualità del pericolo sino a quando l’azione dell’aggressore diretta alla lesione del bene, o ragionevolmente ritenuta tale, non si esaurisca (cfr. Cass., Sez. 1, 28.1.1991, n. 3494, *****, rv. 187110; Cass., sez. 1, 24.11.1984, n. 4194, Bari Vavalle, rv. 168982). Né va trascurato che per poter ritenere legittima la reazione di fronte alla imminenza del pericolo, è indispensabile sussista la necessità di difendersi, che si ha quando il soggetto si trova nell’alternativa tra reagire e subire, nel senso che non può sottrarsi al pericolo senza offendere l’aggressore (cfr. Cass., Cassazione penale, sez. 1, 21/04/1994, ***********). Presupponendo, pertanto, la legittima difesa il pericolo attuale di una offesa ingiusta e consistendo in una reazione la cui efficacia scriminante implica l’inevitabilità dei pericolo attuale, la necessità di difesa, e la proporzione tra questa e l’offesa, non è giustificabile il fatto commesso quando l’azione offensiva si è esaurita (cfr. Cass., sez. 1, 15/04/1999, n. 9695, *******). Al tempo stesso, la legittima difesa putativa postula i medesimi elementi di fatto di quella reale, dalla quale differisce per l’erronea supposizione dell’esistenza di tali elementi, fondata su una situazione tale da far sorgere nell’agente la convinzione di trovarsi di fronte al pericolo attuale di una offesa ingiusta, senza alcun rilievo di stati d’animo meramente soggettivi, mentre l’eccesso colposo ha luogo, in presenza degli altri elementi della legittima difesa, per la incongruità della reazione posta in essere per eccesso, purché esso derivi da un errore di valutazione e non da una scelta consapevole e volontaria (cfr. Cass., sez. 1, 15/04/1999, n. 9695, *******).

Non sussistono, quindi, né la esimente della legittima difesa, reale o putativa, né l’eccesso colposo in stato di legittima difesa allorquando tra l’aggressione subita e la realizzazione attuata sia trascorso un apprezzabile intervallo temporale, per cui, nei confronti dell’aggredito sia venuta a cessare ogni situazione di pericolo attuale (cfr. Cass., sez. 1, 25/06/1980, *****). Orbene, come si è detto, nel caso in esame, secondo la non specificamente contestata ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito, il pericolo attuale di un’offesa al bene della incolumità fisica del L.M. , padre del L.G. , nel momento in cui quest’ultimo aggredì il G. , colpendolo, era già venuto meno, avendo il suddetto G. , in conseguenza dell’intervento del P. , esaurito la potenzialità offensiva della sua azione nei confronti del padre del ricorrente (che giaceva in terra dopo essere stato raggiunto da un calcio nell’apparato genitale) e ben potendo, d’altro canto, il L.G. sottrarre il padre ad una ipotetica ripresa dell’azione aggressiva del G. , allontanandosi con lui dal luogo dello scontro, senza, cioè, che vi fosse la necessità, per sottrarsi a tale pericolo, di offendere a sua volta l’aggressore.

Erra, dunque, il ricorrente nel sostenere che l’intervento del P. non è servito a fermare l’aggressione del G. , riuscendo quest’ultimo a colpire la sua vittima ai testicoli, in quanto, come si è visto, il P. , in realtà, intervenne solo in un momento successivo, quando il L.M. , a causa del colpo ricevuto, giaceva in terra, ed appare una semplice supposizione, non suffragata da alcun elemento oggettivo ritenere, come fa l’imputato, che ‘verosimilmente’ il G. avrebbe ‘continuato ad infierire sulla sua vittima’, per l’incapacità fisica del P. di contenerlo.

Infondato appare anche il secondo motivo di ricorso. Sulla base della documentazione sanitaria costituita dal referto del medico curante acquisito in atti (la cui genuinità il ricorrente non contesta), in conseguenza dei colpi ricevuti al G.A. sono state diagnosticate ‘escoriazioni al 5 dito mano destra, iperemia congiuntiva OD, edema mascellare a sx”, giudicate guaribili in giorni sette.

Ciò appare sufficiente ad integrare il delitto di cui all’art. 582, c.p. e non quello meno grave di percosse, poiché in tema di lesioni personali, costituisce ‘malattia’ qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, che richiede un processo di reintegrazione, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto la suddetta fase di alterazione, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con decisione condivisa dal collegio, in tema di escoriazioni (cfr. Cass., sez. 5, 29/09/2010, n. 43763, A., rv. 248778).

Passando ad affrontare il tema delle circostanze attenuanti non riconosciute, va innanzitutto rilevato che il ricorrente non insiste sulla censura relativa mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 5, c.p., cui ha fatto un mero accenno nel ricorso, concludendo per l’annullamento con rinvio allo scopo di ottenere dal giudice di secondo grado il riconoscimento solo delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62, n. 1 e n. 2, c.p..

Tanto premesso, quanto al diniego del riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1, c.p., la motivazione del giudice di secondo grado appare logicamente coerente, perché fondata su di un giudizio di disvalore della condotta del L. , che, evidenzia il tribunale, sganciata dalla necessità di difendere il padre, si configura come una semplice ritorsione, una forma di vendetta, in quanto tale incompatibile con quei valori comunemente ed attualmente apprezzati dalla coscienza collettiva su cui si fonda l’attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale (cfr. Cass., sez. 1, 17/11/2010, n. 43954, A.; Cass., sez. 5, 24/10/2007, n. 46306, LE.).

Fondata, invece, deve ritenersi la censura relativa al mancato riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione, di cui all’art. 62, n. 2, c.p., che il tribunale nega, in quanto, essendo stata dimostrato che i rapporti tra le parti erano tesi da tempo, ‘difetta lo stato d’ira incontenibile che può avere portato L.G. ad aggredire il G. ‘. Tale affermazione non appare condivisibile.

La configurazione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 2, c.p, infatti, richiede il concorso di tre elementi: il primo, soggettivo, consiste nello stato d’ira, cioè in una situazione caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile che determina la perdita dei poteri di autocontrollo, generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi. Il secondo, oggettivo, è costituito dal fatto ingiusto altrui (che induce io stato d’ira) per il quale si intende non solo un comportamento antigiuridico in senso stretto, bensì anche l’inosservanza di norme sociali o di costume, ossia di quelle che regolano l’ordinaria, civile convivenza. Si richiede inoltre l’esistenza di un rapporto di causalità psicologica tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5, 13/02/2004, n. 12558). Orbene non si comprende come l’esistenza di pregresse tensioni tra il G. ed i L. sia da ostacolo all’insorgere nel ricorrente dello stato d’ira conseguente alla scoperta dell’aggressione fisica commessa in danno del padre appena prima; e ciò tanto più in quanto si tenga presente che per costante giurisprudenza di legittimità, la circostanza attenuante comune della provocazione sussiste anche allorché la reazione iraconda non segua immediatamente il fatto ingiusto – a differenza di quel che richiede l’esimente di cui all’art. 599 c.p. nel delitto di diffamazione – ma consegua ad un accumulo di rancore, per effetto di reiterati comportamenti ingiusti, esplodendo, anche a distanza di tempo, in occasione di un episodio scatenante (cfr. Cass., sez. 5, 14/02/2005, n. 12860, A., rv. 232106).

Limitatamente a tale profilo si impone, pertanto, un annullamento parziale dell’impugnata sentenza, con rinvio ai tribunale di Messina in composizione monocratica, per nuovo esame sul punto, che andrà svolto conformemente ai principi di diritto innanzi indicati, dovendosi rigettare nel resto il ricorso del L. , con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 624, c.p.p., in tutte le altre parti diverse da quella relativa al mancato riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione e, quindi, alla entità del trattamento sanzionatorio.

Il parziale accoglimento del ricorso del L. implica che nulla sia dovuto a titolo di pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata limitatamente al diniego dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 2, c.p., con rinvio per nuovo esame sul punto al Tribunale di Messina. Rigetta nel resto il ricorso.

Redazione